di Roberto Gennari

 

 

Sliding doors (I).

Nel momento esatto in cui il tendine d’Achille di Kevin Durant salta come un cavo spezzato, nell’inquadratura che tutti abbiamo visto e che non vi riproponiamo perché chi scrive è piuttosto sensibile ai video di brutti infortuni e si risogna ancora Francesco Totti e Shaun Livingston, in quel preciso momento, l’equilibrio nella forza si rompe  e avviene un travaso di energia dalla California al Canada. Mentre prima, timidamente, si diceva che ok, i Raptors erano una squadra che aveva dimostrato di essere valida – ma battere QUATTRO VOLTE i Warriors in una serie di playoff era un’altra roba – adesso si comincia a pensare davvero che la franchigia canadese ce la possa fare, che possa insomma essere l’anno buono per detronizzare Golden State, alla quinta finale consecutiva ma alla prima con un avversario diverso dai Cleveland Cavaliers, che li avevano battuti una volta ma che dall’arrivo di Kevin Durant in gialloblù avevano dato l’idea di non poter più contrastare la squadra di Kerr.  Un momento, un singolo istante che cambia le sorti di un’intera stagione.

Riavvolgiamo il nastro. Siamo al 6 giugno 1989, al neonato The Palace of Auburn Hills di Detroit.

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1989.

Il mondo nel 1989 era un mondo profondamente diverso da quello che conosciamo oggi. Le squadre NBA tiravano da tre meno di 7 volte a partita, Gli stati europei avevano nomi esotici come Cecoslovacchia, Jugoslavia, Repubblica Federale Tedesca, Repubblica Democratica Tedesca. Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Quando si scontravano le nazionali sportive, le sigle DDR e URSS evocavano posti lontani in cui si viveva una vita per molti versi neanche paragonabile a quella che si viveva da noi. Anche gli USA erano lontanissimi, molto più di oggi, e il campionato NBA – i cui vincitori si autodefinivano, non senza ragion veduta, “World Champions” – era sostanzialmente un campionato tra giocatori USA con poche eccezioni. Tipo Detlef Schrempf, per citare quello più famoso, che però prima del salto tra i pro si era fatto quattro anni di NCAA a Washington.

Sarunas Marciulionis, Drazen Petrovic e Vlade Divac sarebbero arrivati a disputare la loro stagione da rookie solo l’anno dopo, e i carneadi tipo Uwe Blab non è che avessero avuto quella splendente carriera nella Lega col logo di Jerry West. C’era già il Mc Donald’s Open, in effetti, a farci vedere che comunque i due mondi del basket si parlavano e tentavano i primi timidissimi approcci, come quando volevi uscire con una compagna di liceo e dovevi vincere la vergogna di telefonarle a casa. Il Dream Team, invece, sarebbe venuto solo tre anni dopo, e in quel momento lì era poco più di una pazza idea. In ogni caso, dicevamo, siamo ad Auburn Hills e stanno per iniziare le finali del campionato NBA, una rivincita di quelle del 1988. I Detroit Pistons avevano appena ritoccato il loro record di franchigia, vincendo 63 partite in una stagione:  tuttavia, strano ma vero, non c’era nessuno di loro nel primo quintetto NBA, nessuno nel secondo, nessuno nel terzo. Avevano però due quinti del primo quintetto difensivo, con Joe Dumars e Dennis Rodman. È il caso di dirlo: ad affrontarsi erano due filosofie di gioco, due weltanschauung che più opposte non si può.

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Sliding doors (II).

Nel riscaldamento prepartita, la guardia titolare dei Los Angeles Lakers, Byron Scott, si infortuna al tendine rotuleo in modo abbastanza grave. Si capisce da subito che sarà out for the series. Non un bell’affare per i Lakers, che già l’anno prima avevano dovuto sudare le proverbiali sette camicie per aver ragione dei Detroit Pistons: sotto 3-2 nella serie, vinsero gara 6 di un punto e gara 7 di tre, a Los Angeles, con un Isiah Thomas decisamente sottotono per un infortunio rimediato nel finale di gara 6. Detroit poteva contare su tre esterni piccoli e veloci, decisamente troppo veloci per Magic Johnson, in Isiah Thomas, Joe Dumars e The Microwave Vinnie Johnson – a ricordarci come siano solo tre le cose a non avere confini: la stupidità umana, la fantasia nell’assegnare soprannomi ai giocatori NBA e l’universo, ma di quest’ultima cosa non ne siamo ancora troppo sicuri. Il fatto che i Detroit Pistons abbiano il vantaggio del fattore campo conta relativamente, se si considera che i gialloviola hanno conquistato l’accesso alle Finals da imbattuti: 3-0 ai Blazers al primo round, 4-0 ai Sonics al secondo, 4-0 ai Suns in finale di conference. La macchina dello Showtime di Pat Riley e Magic era oliata alla perfezione:  il 32, James Worthy e Byron Scott mettevano insieme quasi 63 punti a partita tirando con oltre il 50% dal campo e oltre l’80 dalla lunetta, Kareem giocava metà partita, ma ancora “alla Kareem”, la rotazione era profonda a sufficienza con Mychal Thompson, Michael Cooper e Orlando Woolridge (visto a fine carriera alla Virtus Bologna). Il problema era che la squadra più antitetica ai Lakers in tutta la NBA erano proprio i Pistons. Difesa arcigna, voglia di emergere, determinazione e cattiveria.

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Jordan Rules… or maybe not?

I ragazzi di coach Chuck Daly arrivano alla sfida coi Lakers col miglior record di tutta la NBA (63-19), con una voglia tremenda di rifarsi per la cocente delusione dell’anno prima e con una consapevolezza dei propri mezzi cementata dalla serie di finale di conference contro i Chicago Bulls. Sotto nella serie prima 1-0 e poi 2-1, Thomas e soci riescono ad avere la meglio per tre volte consecutive sui futuri dominatori della NBA. Michael Jordan era già His Airness, aveva già buttato fuori i Cavs con The Shot, era già stato capace di vincere – primo nella storia della NBA – il titolo di miglior marcatore, miglior difensore e MVP nella stessa stagione. Per uno scarto linguistico assolutamente fantastico in questo caso, l’espressione “Jordan Rules” può voler dire sia “Jordan regna” che “Le regole di Jordan”.

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Quelle che Chuck Daly avrebbe istituito dopo che Jordan ne stampò 59 in faccia ai suoi Pistons in una partita in diretta televisiva nazionale, con un 21 su 27 dal campo che lasciava intendere come il 23 in rossonero non avesse poi fatto tutta questa fatica a trovare il canestro contro i Pistons. “Jordan regna”, appunto.  La cosa bella è che quando i giornalisti dell’epoca chiedevano ai giocatori se realmente Chuck Daly avesse istituito delle “regole di Jordan”, tutti facevano gli gnorri, e qualche anno fa fu Rick Mahorn a svelare l’arcano: non c’era nessuna Jordan Rulev era e propria, era solo una cosa buttata lì da un Daly incazzato nero e ripresa da tutti i giornalisti, e che però era talmente credibile da aver aggiunto pressione psicologica sui Chicago Bulls. E allora, disse Isiah Thomas, uno che non era esattamente in cima alle simpatie personali di Jordan, perché non fare finta che le Jordan Rules esistessero davvero?

 

Sliding doors (III).

Gara 1 delle Finals, ad Auburn Hills, è stata tosta, come Pat Riley poteva aspettarsi e come si era visto dopo la serie coi Bulls. Lotta feroce su ogni rimbalzo (i gialloviola perderanno la sfida sotto le plance 45-32), cercare di impedire ai Lakers di partire in contropiede ogni volta che fosse possibile, selezione di tiri chirurgica da parte degli uomini di Chuck Daly (oltre il 55% dal campo, 1-2 da tre di squadra – sì, avete letto bene: 1-2 da tre DI SQUADRA), rotazione a 9 uomini contro quella dei Lakers, in 7 più qualche sprazzo di Kareem, che ha da poco scollinato le 42 primavere e in gara-1 gioca 14 minuti. I Pistons la spuntano 109-97 tenendo Worthy e Cooper a brutte percentuali dal campo. Worthy in modo particolare era considerato uno da guardare a vista, quasi a livello jordanesco, a ragion veduta peraltro, visto che era un giocatore che sistematicamente sapeva elevare il proprio rendimento durante i playoff. Per la seconda partita, sempre ad Auburn Hills, gli uomini di Pat Riley dovevano inventarsi qualcosa di meglio per aver ragione di avversari che avevano un livello di concentrazione impressionante, indubbiamente dettato anche dalla politica severissima in materia di multe per episodi di alcolismo: a inizio anno si pensava che Detroit avrebbe risparmiato un bel po’ di soldi di ingaggi, mentre invece andò a finire che il solo Laimbeer si trovò a pagare una multa di 100 $ per aver brindato con la famiglia per festeggiare la buona riuscita di un’operazione a cuore aperto del suocero.

Photo by Andrew D. Bernstein/NBAE via Getty Images

Insomma, in gara 2 sempre a Detroit, a un certo punto mancano poco meno di cinque minuti dalla fine del terzo quarto e i Lakers sono avanti 75-73 e palla in mano. Attacco a difesa schierata, Magic e Mychal Thompson giocano un pick ‘n roll che porta il 43 dei Lakers a tirare da sotto canestro, dove però l’ottima rotazione difensiva di Detroit porta Salley ad una stoppata che finisce nelle mani di Isiah Thomas, che guida la transizione e si trova davanti Magic, che aveva cercato di scattare il più velocemente possibile per chiudere il contropiede. Johnson cerca di sporcare il possesso a Thomas ma la palla finisce ad Aguirre che appoggia al tabellone per due punti facili che impattano la gara a quota 74. Il pareggio dei Pistons però in questo momento è il meno.

Il problema è che Magic si tocca la parte posteriore della coscia. Zoppica vistosamente, è contrariato e agli occhi ha delle lacrime di rabbia. Lascerà la partita, che Detroit porterà a casa andando in California sul 2-0. Proverà a rientrare in gara 3 ma gli basteranno cinque minuti e due tiri sbagliati per capire che la sua serie era finita lì, sul 74-72 della partita precedente, ad Auburn Hills.

 

Il diavolo nei dettagli.

In gara 2, Kareem proverà a fare quel che Magic aveva fatto nelle Finals del 1980, con una gara-3 da 24 e 13 rimbalzi. James Worthy, che in gara-2 era andato in lunetta per pareggiare la partita a quota 106 con 2 secondi da giocare ma aveva sbagliato il primo libero, cercherà di farsi perdonare piazzandone 40 in gara-4 dove farà capire a tutti perché da 4 anni era un All-Star.

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Ma i Pistons avevano il vento in poppa anche nelle piccole cose, come in Isiah Thomas che sbaglia un tiro nel finale di gara-3 e il rimbalzo gli torna in mano per dare il +5 ai Pistons quando mancava meno un minuto da giocare. Come la rimessa non trattenuta da Kareem (anche grazie alla spintarella furbesca di Laimbeer) a 30 secondi dalla fine di gara-3 coi Lakers sotto di tre punti. Come Kareem che si fa sfuggire un rimbalzo già preso sul -4 in gara 4 a poco più di un minuto dalla fine. Come Dennis Rodman che proprio in gara-3 tira fuori una delle prime prestazioni che lo faranno conoscere al mondo: 28 minuti, 12 punti (con 6-6 dalla lunetta), 19 rimbalzi di cui 7 offensivi. Guardando all’albo d’oro delle NBA Finals, uno si fa l’idea che le Finals del 1989 siano state quelle in cui i Bad Boys hanno preso a calci in culo quelli dello Showtime, “i cappellini neri contro i cappellini bianchi”, come si diceva all’epoca.

E invece è stata una serie sporca, con partite tiratissime e che probabilmente – ma non ne abbiamo, non ne avremo mai la riprova – i Lakers avrebbero potuto fare loro se avessero avuto Byron Scott e Magic Johnson per tutta la serie. Kareem Abdul-Jabbar avrebbe chiuso una carriera straordinaria con un three-peat, Magic Johnson, che di quella stagione era stato l’MVP, avrebbe vinto il suo sesto anello.

Sliding doors (IV).

Salto temporale di quattro anni in avanti. Dennis Rodman, che di soprannomi attribuiti ufficialmente ne ha SETTE (lo so che ve lo state chiedendo, ve li elenco: The Worm, Dennis the Menace, Country, Psycho, Rodzilla, Demolition Man, El Loco, sempre per il discorso di cui sopra sulla stupidità dell’uomo, la vita l’universo e tutto quanto) è ufficialmente uno che ce l’ha fatta a tirarsene fuori, dallo schifo che lo circondava fino a pochi anni prima. È arrivato decimo nelle votazioni per l’MVP della NBA della stagione precedente, in quel fatidico 1992, davanti a tre original dream teamercome Barkley, Stockton e Bird; i suoi stipendi hanno finalmente raggiunto i sei zeri, ma Rodman fa una fatica dannata a trovare il suo posto nel mondo. Forse sono le parole del povero Craig Sager, a tirarlo fuori dal baratro, forse la voce di Eddie Vedder che cantava “Even Flow” e poi “Black” nell’autoradio del suo pick-up, o forse semplicemente riesce per l’ennesima volta a credere in sé stesso quando sentiva che nessun altro ci credeva più.

I Detroit Pistons sono passati dall’essere campioni NBA per due anni di seguito ad essere estromessi dai playoff nonostante Rodman sia ormai una potenza nella Lega, per due anni consecutivi il miglior rimbalzista – 144 partite, 2662 rimbalzi, fate voi il conto. Michael era sul punto di dare il suo primo (di tre) addio al basket giocato, c’era già stata Barcellona e il Dream Team senza neanche un giocatore dei Pistons. Dennis decide di non farla finita, in quel pick-up parcheggiato davanti a Auburn Hills, nel 1993. Due anni dopo firmerà per Chicago, dove insieme a Batman, Robin, il Croato, l’Australiano e l’ex stella dei Clippers formerà la squadra di basket più forte di tutti i tempi, almeno fino ad oggi.

 

Epilogo.

Succederà comunque, che i Bad Boys prendano a calci in culo lo Showtime. Si tratterà solo di aspettare altri 11 anni, da quel giorno nel pick-up. Dennis Rodman avrà già lasciato il basket giocato, dopo aver disputato 911 partite di regular season in carriera – e se questa non è una delle coincidenze più clamorose della storia del basket io sono un campione NBA – e i Bad Boys avranno altri nomi, un quintetto scolpito nella pietra come quello del 1989. Thomas, Dumars, Aguirre, Mahorn, Laimbeer allora. Billups, Hamilton, Prince, Wallace, Wallace oggi. Le 63 vittorie del 1989 non sono più il record di franchigia dei Pistons, superate dalle 64 del 2005-06, quando tra loro e il quarto titolo della storia di Motor City si mise in mezzo Miami, che aveva Shaquille O’Neal e soprattutto Dwyane Wade.

Nel momento in cui scriviamo, i Detroit Pistons sono 11-5 contro i Los Angeles Lakers in partite di finali NBA. Ogni squadra tira da tre in media 32 volte a partita (non fate scroll fino all’inizio del pezzo, ve lo ripetiamo: trent’anni fa erano meno di 7). Non c’è più lo Showtime, non ci sono più i Bad Boys, anzi, Detroit non vince una partita di post-season dal 26 maggio del 2008, gara-4 delle finali di conference contro i Boston Celtics (poi campioni NBA), quando ancora avevano quattro quinti dello starting five del titolo 2004, più Antonio McDyess al posto di Ben Wallace. Ma del resto non c’è più neanche la Jugoslavia, né l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, né la Cecoslovacchia, ma in compenso c’è una sola Germania.  E come se non bastasse, il titolo di MVP della Lega l’ha vinto un greco, il difensore dell’anno è un francese, il giocatore più migliorato è camerunense, il rookie dell’anno è stato uno che viene da uno stato che una volta era una parte della ex-Jugoslavia. Neanche il titolo di squadra campione NBA è rimasto negli USA. Quanto è cambiato, il mondo, dal 1989 ad oggi.

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