di Filippo Venturi
E’ successo tutto per caso. Per caso, poi… si fa per dire. Come fai a definire casuale una cosa così? Non esiste all’interno del dizionario della lingua italiana, né dentro a un qualsiasi manuale del basket che sia mai stato scritto, un aggettivo che possa riassumere tutto quello che si è visto tra la notte di domenica e quella di lunedì. Avrebbe fatto fatica anche Federico Buffa a descrivere il susseguirsi di tali emozioni, andando a scovare uno dei suoi proverbiali superlativi assoluti.
E’ stato un crescendo di suspence, rimonte, break, grinta, coraggio, follia, talento. Mamma mia, quanto talento è stato sparso sui parquet di Boston e Houston! Due gare 7 così, una dopo l’altra, due campioni di quel calibro, non si vedevano da anni. Ecco. Il punto era proprio quello. Due campioni di quel calibro. Gente dotata di quella classe, di quello strapotere tecnico e fisico, di quell’intelligenza cestistica, di quel carattere, non nasce proprio tutti i giorni. Gente come LeBron James e Steph Curry è merce rara. Solo che Jacopo ha esagerato.
“Sono i due giocatori più forti di sempre, papà!” ha esclamato dall’altra stanza. Lui ha fatto finta di niente, continuando a scorrere l’indice sul suo iPad, con il naso su Facebook, dove tutti erano improvvisamente diventati grandi esperti di diritto costituzionale.
Ma Jacopo, dodici anni portati benissimo, coi suoi jeans larghi, le Nike sgargianti e la maglietta dei Cavs da trasferta srotolata fino alle ginocchia, ha rincarato la dose. Era ovvio che lo stesse provocando; che stesse cercando di attirare in tutti i modi la sua attenzione.
“LeBron è il miglior 23 di sempre” ha gridato.
E lui c’è cascato. Altrettanto ovvio.
Dapprima una eco silenziosa si è propagata per la casa, rimbalzando contro le pareti come uno Spalding appena gonfiato. Ne è seguito uno sbuffo, quasi un gemito. Era lui, il papà. Si è faticosamente tirato su dal divano ed è andato di là. Ha guardato il suo ragazzo con gli occhi innamorati della compassione, ha sospirato profondo, e poi ha attaccato.
“Jaco, figlio mio” gli ha detto. “Io sono felice di averti trasmesso questa passione. Il basket è uno sport sano, ma se tu devi dire queste cavolate, allora forse è venuto il momento che io ti narri tutto, dall’inizio.”
L’obiettivo era raggiunto, lo si leggeva sul viso di quel dodicenne che si stava sdraiando a peso morto sui cuscini sparpagliati sul tappeto della camera. Si stava per gustare il momento di intimità che con caparbia si era andato a conquistare. L’aveva già sentita, quella storia, ma ogni volta era come la prima. Anche perché suo padre ci ficcava sempre dentro un aneddoto nuovo, un fatto diverso, un’enfasi che a tratti sapeva diventare sorprendente.
“Vedi figliolo” è partito il papà, “ora tu hai la possibilità di disporre in maniera completa di questo mondo, perché oggi tutto è vicino. Noi invece non sapevamo nulla, erano solo leggende tramandate, sentito dire. Bob Cousy, Pete Maravich, Bill Russell, Jerry West, Bill Chamberlain: erano entità astratte, qualcosa di superiore, tipo Harlem Globetrotters! Mi capisci?”
“Sinceramente no, papà, non ti capisco” mentiva Jacopo. Lui lo sapeva. Ma il papà l’aveva presa lunga. Stavolta sembrava qualcosa di diverso dalla solita breve chiacchierata coi toni di un’accesa competizione generazionale. Suo padre si era addirittura stravaccato lì con lui.
“Quando io avevo la tua età…” faceva rapidi calcoli muovendo vorticosamente le dita della mano destra. “2018… dodici anni, 1980… Sì dai, ero un tuo coetaneo di adesso, quando in Italia cominciavamo a vivere la favola dell’Nba. Una favola che ora ti voglio raccontare.”
Il volto radioso di Jacopo raggiunse in un amen un livello di estasi che era superato solamente da quello del suo narratore.
“Partiamo dal 1980: il livello della Lega è già altissimo, ma le premesse con cui si entra nella fase che stiamo affrontando non sono del tutto positive. I ‘70 infatti sono per la National Basketball Association anni difficili, c’è grande competizione con l’altra Lega, l’ABA, che le ha sottratto alcune grandi star: Rick Barry, Julius Erving. Mi segui?”
“Certo che ti seguo papà. Sono attentissimo”
“Ma li conosci i nomi che ti faccio, le date, le sigle?”
“Qualcosa sì e qualcosa no, ma non importa, capisco tutto lo stesso. Vai!”
“OK, agli ordini. Dicevamo… Ah sì, la crisi. Forte è quindi il bisogno di espansione sentito dai Commissioner NBA, Larry O’Brien prima e David Stern poi. Si accordano con l’ABA per trasferire alla NBA squadre di importanti città quali i Denver Nuggets, gli Indiana Pacers, i San Antonio Spurs e i New York Nets, trasferitisi poi nel New Jersey, cui segue l’introduzione del tiro da tre punti.”
“Non c’era il tiro da tre?”
“No, non c’era e in Italia è arrivato anche dopo!”
“Un altro sport, papà! E le partite quanto finivano? 30 a 29?”
“Beh… non è proprio così, ma ascoltami perché qui accade qualcosa, una cosa forse più fortuita che voluta, ma che si rivela fondamentale: escono contemporaneamente dall’università due giovani cestisti dai nomi altisonanti e dal futuro certo. Si chiamano Earvin Johnson Jr e Larry Joe Bird, che già si sono dati battaglia nei tornei scolastici universitari rispettivamente con le casacche di Michigan State e Indiana State”
“Magic e Larry!”
“Sì, proprio loro!”
“Che miti! E allora?”
“Allora tutto è pronto: la crescita in termini d’immagine del movimento deve essere talmente importante, da non limitarsi all’interno degli States, ma da espandersi a macchia d’olio, rompendo gli argini con il resto del mondo, anche in Europa. L’imperativo è varcare i confini e non solo a livello mediatico, con la pubblicità, con i giornali o con la televisione, ma anche materialmente, inviando le squadre della Lega a giocare oltreoceano. Sta iniziando quel processo di globalizzazione della Nba che troverà il momento culminante con l’ingresso dei Professionisti alle Olimpiadi e la formazione del Dream Team del ‘92. Te la ricordi, no?”
“Papà, io sono del 2006!”
“Già, è vero… Vabbè, è stata la squadra più forte di sempre di tutti gli sport di squadra, ma non divaghiamo e torniamo agli “anni nostri” e all’invasione Nba, perché in Italia gli appassionati stanno attendendo l’ascesa di questo nuovo mondo con trepidante curiosità! I Pro arrivano in Italia. E’ l’ottobre dell’81, quando una loro selezione, comprendente tra gli altri nientepopodimeno che Bernard King e lo stesso Erving, approda al Palazzone di Milano, stipato in ogni ordine di posto per giocare contro il Billy. Pensa che, oltre allo choc dello spettatore italiano nell’ammirare certi campioni dal vivo, gli americani si presentano in campo con la canotta del Latte Sole, uno degli sponsor dell’evento”.
“Latte Sole?”
“Il Latte Sole, quell’anno era l’abbinamento Fortitudo. “Doctor J” indossava la maglia numero 6 di tale Dal Pian…”
“Chi è Dal Pian?”
“Andrea Dal Pian, il cambio di Clyde Bradshaw… Ma è meglio se andiamo oltre, perché nel settembre dell’84 c’è il primo torneo Open della storia della pallacanestro: giocano proprio in Italia, prima a Varese, poi a Milano e a Bologna; vi partecipano le squadre di casa, Ciao Crem, Simac e Granarolo Felsinea, oltre ai Phoenix Suns e ai New Jersey Nets, mentre la Benetton qualche giorno prima aveva invitato a Treviso i Seattle Supersonics. Arrivano giocatori forti, non comparse. Come Larry Nance, che si è appena aggiudicato il primo Slam Dunk Contest con la schiacciata con due palloni…”
“Papo, suo figlio gioca a Cleveland, e la gara delle schiacciate l’ha fatta anche lui, quest’anno, ma ha perso in finale…”
“Lo so, l’ho visto! Mi sembra che sia anche un po’ più tristo del padre… Ma fammi andare avanti… Con lui, lo ricordo bene, ci sono i vari Maurice Lucas, Buck Williams, Darryl Dawkins e anche quel Michael Ray Richardson che qualche ricordo a Bologna lo lascerà, di lì poco…”
“Certo! Sugar! So tutto di lui, lo zio me li ha detti i cori che gli cantavate…”
“Lo zio è un maraglio” gli aveva risposto il padre con aria complice.
“Solo pochi anni dopo, dovremmo essere già nel 1987, viene istituito il torneo Open targato McDonald’s. Il fenomeno Nba è sbarcato in Italia. Ci è entrato di prepotenza grazie alle prime immagini portate da Canale 5 e Italia 1. Noi ragazzini veniamo completamente travolti dalla cosa. Cominciamo a girare con le magliette griffate, i cappellini, i giubbotti, le scarpe. Le hai mai viste le mie magliette? La mamma le ha messe nella parte sopra dell’armadio, nel dimenticatoio, perché dice che se le porto alla mia età sono ridicolo. A ogni cambio di stagione prova a buttarmele, ma io le ho sempre difese. Le ho conservate per te, oggi che va tanto il vintage, qualcosa ti va già bene. Ne ho di strepitose!”
“Dopo ci guardiamo, ti prego!”
“Ma certo!”
Il papà intanto si è alzato, per versarsi un bicchiere d’acqua, procedendo in quel racconto che appassionava entrambi.
“E’ dopo tutto un’operazione facile, per una serie di ragioni concomitanti. Stai attento perché questo è il succo del discorso, il motivo che ci ha spinti fin qui.”
Jacopo non reagiva. Era talmente concentrato che chi aveva appena fatto quella raccomandazione ne aveva intuito la sua totale inutilità.
“Primo: come ti dicevo, è assolutamente un’altra pallacanestro, di un altro livello, sono cose mai viste. Secondo: è uno sport “not open” ed elitario, dove, a parte qualche raro caso, giocano solo gli americani; è chiuso anche alle competizioni internazionali di qualsiasi livello, tipo Mondiali o Olimpiadi, perché gli Usa non possono schierare i giocatori professionisti e devono così presentare gli universitari o quelli delle leghe minori. Terzo: in Italia si cerca come testimonial un comunicatore, una persona che possa rendere questo ingresso affascinante, comprensibile e alla portata di tutti.”
Dopo una breve pausa che fece aumentare il climax, riprese.
“Si decide per Dan Peterson. Chi se non questo piccolo statunitense trapiantato in Italia, esperto conoscitore del basket, sia italiano che NBA, coach vincente e carismatico?”
“Eh sì, giusto! Chi, se no?”
“La scelta si rivela azzeccatissima e Dan sfonda: riesce a essere uno spettacolo nello spettacolo, capisce al volo, anzi già sa, che la novità che si è trovato per le mani necessita di esaltazione in ogni suo momento, che catapulta il telespettatore in un vero e proprio show. L’inconfondibile accento italo-americano crea un ponte che avvicina l’Italia all’America e ha il grande merito di incuriosire anche la parte di pubblico meno interessata alla pallacanestro; è lui a non essere selettivo, cercando di aprire la porta del basket a chiunque voglia entrarvi: il suo incipit storico, “Amici sportivi… e non sportivi!”, lo dimostra chiaramente. La contagiosa euforia del suo approccio all’evento fa passare inosservati gli “strafalcioni” linguistici, spesso urlati nei momenti salienti; anzi i suoi modi di dire divengono neologismi cestistici e tutti gli appassionati cominciano a parlare come lui, nelle palestre, nei campetti, durante gli allenamenti, in partita, davanti alla tv, ovunque.”
“Cioè?”
“Cioè lo imitano. Il marchio di fabbrica è “Mamma butta la pasta!”.
“Cosa c’entrano la mamma e la pasta?!”
“E’ un eufemismo. Vuol dire che c’è stato l’episodio che ha deciso il match e quindi si avvisa la mamma che può preparare la cena, perché la partita è ormai finita. E poi tanti altri: “Pandemonio!”, “Apre la scatola!”, “Non c’è domani!”, “Amico prendi una forchetta!”, e così via… E poi l’uso spasmodico dei soprannomi dei giocatori: Il Capo, L’Ammiraglio, The Dream, Il Verme, The Legend, Silk, Ice-Man, Il Buco Nero, The Machine, Il Martello, Il Veleggiatore, The Micro-Wave, il Postino, The Chairman of the Boards…”
Bevve ancora. Proseguì.
“Dan elettrizza il pubblico. Gli regala le sue massime che sono lezioni gratuite di pallacanestro, dei veri e propri clinic. E lo fa nella maniera più “comune” possibile, come del resto l’altro grande guru delle telecronache di pallacanestro di quei tempi: Aldo Giordani. Dan non tralascia nulla che possa non possa risultare chiaro al pubblico e al tempo stesso tiene alto il pathos anche nei momenti meno intensi. Quante volte arriva a divagare su storie estranee alla partita quando questa non ha più niente da dire! Aneddoti sui grandi del passato, episodi successi fuori dal campo, chicche che incollano al video, ma anche fatti suoi di vita privata, dei suoi maestri, dei suoi vecchi compagni di Università.”
“Dai, un po’ come fanno oggi su Sky!”
“Eh certo! Ma qui parliamo di trentacinque anni fa! Dan su questo è stato un precursore!“
“Papà, parlami un po’ delle partite!”
“Le partite? Sfide epiche, vorrai dire… vediamo un po’ di ricordare… Dunque, già nel 1980 c’è la sfida tra Sixers e Lakers, nell’anno in cui Magic fa intuire cosa farà per tutto l’arco del decennio. Ti racconto questa. Finali 1980: Los Angeles – Philadelphia. 3-2 Lakers. Kareem si storce una caviglia ed è a rischio per tutta la serie, ma sicuramente deve saltare Gara 6 a Philadelphia. Sull’aereo che li porta in Pennsylvania, Magic che, non dimenticarlo, è matricola e nonostante i 205 centimetri gioca playmaker, si siede nel posto solitamente occupato da Jabbar. Lo fa apposta a mettersi lì, perché a un certo punto si alza, si volta verso i compagni ed esclama: “Don’t fear ‘cause Thirtytwo is here”, che tradotto significa più o meno “Non abbiate paura perché qui c’è il numero 32”. Va in campo, gioca da centro e finisce con 42 punti e 15 rimbalzi. Los Angeles vince l’anello proprio quella sera.”
Jacopo era entusiasta e non fece in tempo ad aprir bocca che suo padre aveva già ricominciato.
“Nel Draft dell’84 intanto succede qualcosa: entra nel mondo dei professionisti un certo Michael Jordan, ti ricordi quel famoso discorso sul numero 23 che abbiamo fatto all’inizio?”
Jacopo, sempre in silenzio, annuiva. Questa la sapeva. Era partito apposta da lì.
“Jordan che già a North Carolina faceva sfracelli, viene curiosamente scelto dai Chicago Bulls solo con il numero 3: i primi a scegliere sono gli Houston Rockets che chiamano Hakeem Olajuwon. E può starci. Poi con il numero 2 tocca ai Blazers, che vedono in Sam Bowie il loro futuro. Aldilà che Bowie si riveli un fiasco, a Portland non riconoscono in Jordan doti che lo possano far preferire a un discreto pivot dalle mani educate e le ginocchia fragili, commettendo probabilmente l’errore più grossolano della storia dell’Nba.”
“Jordan, che grande!”
“Grande? Il più grande! Nemmeno Maradona, Merckx, Schumacher, Valentino, Tomba o qualsiasi altro campione pazzesco di qualsiasi altro sport! Jordan è una rivoluzione, in campo e fuori. La Nike, che già ne detiene i diritti d’immagine, inizia una campagna unica nel suo genere: scarpe, magliette, poster, figurine, tutti vogliono Mike.”
“Le famose Air Jordan!”
“Già! Un paio di ali su un pallone, la scritta Air Jordan. L’effige di Micheal che vola con le gambe aperte e il braccio disteso diventa un’icona.”
“Conosco Jordan, papo…”
“La prima scarpa con il suo marchio esce nel 1986. Arrivano anche in Italia sai, in un momento in cui non c’è il mercato globalizzato, per cui le scarpe arrivano molti mesi dopo la loro uscita oltreoceano. E infatti chi ha la fortuna di volare di là torna con le valigie piene, tra l’invidia generale. Il modello base bianco e rosso col baffo nero, che, parentesi, nel campionato italiano viene indossato per primo proprio da un giocatore della “nostra” Yoga, tale Alberto Ballestra, brucia ogni concorrenza: Legend, Air Force, Top Ten, Converse, Pony, Etonic, Pro Kids: tutte sbarazzate!”
“Ok pà, le Jordan le fanno ancora e di Ballestra mi importa poco. Torna al basket giocato…”
“Micheal è da subito miglior marcatore, anche se rimane ai margini della lotta per il titolo per diversi anni; quello è un discorso che riguarda i due testimonal della Weapon, Magic e Larry, che danno luogo alla saga più appassionante della storia del basket. Sono due mondi a confronto, due modi di intendere la pallacanestro. Est contro Ovest, velocità contro concretezza, Lakers show contro Celtics pride, neri contro bianchi, Magic, Jabbar, Worthy, Scott, Cooper, contro Bird, McHale, Parish, Ainge. Anche in Italia gli appassionati si dividono: se stai per uno, allora odi l’altro.”
“E tu per chi stavi?”
“Per Magic.”
“Ci avrei scommesso… Tu sei un estroso, papà!”
“Sono momenti di pallacanestro indimenticabile”
“E tu le vedevi?”
“Certo, sveglio fino a notte fonda! Ricordo ancora le fatiche della mattina dopo…”
“Io ho le repliche delle 14. Ho My Sky…”
“Perché secondo te io non avevo il videoregistratore? Ecco vedi, con questa frase ti sei fregato, è proprio questo che volevo farti capire… C’era più attesa, più voglia! Era una novità troppo eccitante e non si aspettava il giorno dopo.”
“E perché allora domani notte non lo facciamo anche noi?”, lo freddò il figlio.
Il papà lo guardò perplesso, poi si decise. Ne scaturì una lunga trattativa con la moglie, che portò a un insperato sì. D’altronde la scuola stava finendo e Jaco aveva fatto il suo dovere. Era il suo giusto premio.
Passarono la serata sul divano, ad aspettare le tre, il loro momento fatidico. Gara 1 in diretta da Oakland. I due miti a confronto. Jacopo era il più carico: una nottata così, da grande, con il suo grande preferito al fianco e i suoi due grandissimi sullo schermo. E anche due grandi a fare la telecronaca, non importava chi, Tranquillo, Mamoli o quale tra gli altri della favolosa batteria di telecronisti Sky: andavano tutti benissimo, come Dan.
Il primo ad addormentarsi fu proprio lui, verso mezzanotte e tre quarti. Era crollato di fronte all’ennesima messa in onda del tg di Sky Sport 24.
Suo padre lo seguì mezz’ora dopo, al grido di: “Mi appisolo solo un attimo!”
Si risvegliarono che in campo la mamma aveva già buttato la pasta da un pezzo e in casa la moglie aveva già messo su il caffè.
Si erano persi il solito show dei due soliti fenomeni, ma poco male, lo avrebbero rivisto di lì a breve, con il famoso, ormai insostituibile “On demand”, altroché nostalgia dei bei tempi che furono. C’era la tecnologia, la nostra ineluttabile abbondanza!
Insomma, non si erano persi nulla che non avrebbero potuto rivedere. Anche subito.
E poi quello era solo il primo appuntamento, si sperava di sette. E perché non ambire al massimo?
Quello era il loro sport preferito, un irrinunciabile ponte che li collegava, un elastico tra generazioni, un punto di contatto su cui poter parlare, confrontarsi, fantasticare.
Quello era lo sport più bello del mondo.
Oggi come ieri.
FILIPPO VENTURI (Bologna, 1972) gestisce una trattoria in centro a Bologna. Ha esordito nella narrativa nel 2010 per Pendragon con Intanto Dustin Hoffman non fa più un film, racconti sulla Bologna degli anni Ottanta. Per la stessa casa editrice ha pubblicato due romanzi: Forse in Paradiso incontro John Belushi (2012) e Un giorno come un altro (2015). Dal 2016 tiene sulla “Repubblica” la rubrica Dietro al banco, attraverso la quale recensisce i suoi clienti. Da quest’anno è Master of Writing di Lavoropiù masterclass, progetto che si occupa, tra le altre cose, di promuovere l’arte della scrittura nelle scuole superiori di Bologna. Il 3 luglio del 2018 uscirà per Mondadori il suo nuovo romanzo dal titolo Il tortellino muore nel brodo. Noi de La Giornata Tipo siamo i primi a comunicarlo.
Caro Filippo, vabbene che al cinno puoi raccontare la luna nel pozzo, ma Sam Bowie lo scelse Portland EPOOI giocò anche ai Nets (dopo varie operazioni e quasi da fermo …).
I Blazers non Lo scelsero perchè avevano già PAX-man e soprattutto il “Veleggiatore” the glyde Drexler!! ;-(cmq anche lui Dreamteamer …).
TI invidio, goditelo finchè puoi 😉
Ciao Pa0l0
Gran bella storia, bravo Filo!
Fortitudo ti prego, dimmi che non sei virtussino…
Favoloso. Mi sono commosso. Per favore, io sono di Ferrara e a Bologna ci vengo spesso… dove è la tua trattoria che vengo a trovarti?
X la precisione… Kareem non giocó in aba, venne scelto e cominciò la carriera ai bucks per poi passare ai lakers.