illustrazione grafica di Paolo Mainini
articolo di Luca Spadacenta

 

 

 

Anni ’40. Auburn Avenue, Atlanta, Stati Uniti d’America.

Un gruppo di adolescenti sta giocando in un campo da basket dietro alla stazione dei vigili del fuoco. Tra loro c’è il figlio del pastore della chiesa battista di Ebenezer: il suo nome è Martin Luther King jr.

Siamo a Sweet Auburn, un quartiere nel centro della capitale della Georgia. Agli occhi di un europeo tale posizione può sembrare un’anomalia, ma non negli Stati Uniti. In molte città americane, infatti, la progettazione del reticolo stradale e il divieto per i neri di acquistare case in determinati quartieri – introdotto dalle leggi Jim Crow – hanno avuto come obiettivo il confinamento dei neri nelle aree centrali delle città, lasciando invece i suburbs ai bianchi. Costretti dunque a vivere nell’area intorno ad Auburn Avenue, questa divenne presto il centro commerciale, culturale e spirituale della comunità afroamericana di Atlanta, tanto da essere stata definita nel 1956 “the richest Negro street in the world” dalla rivista Fortune.

Martin Luther King jr. vive con la famiglia al 501 di Auburn Avenue. In questi anni inizia i propri studi teologici, che lo porteranno all’inizio degli anni ’50 a conseguire un dottorato alla Boston University. Qui incontra un altro attivista per i diritti civili: John Hurst Adams. Suo padre – Eugene Avery Adams sr. – era stato negli anni ’20 presidente di una sezione della National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) e uno dei promotori del South Carolina Citizens Committee, la prima organizzazione per i diritti civili a livello statale nella Carolina del Sud. Nel 1956 J.H. Adams si sposa con Dolly Desselle Adams – anche lei un’accademica e attivista – e viene nominato preside del Paul Quinn College a Waco, Texas.  Appena arrivati nel Lone Star State, i due vengono immediatamente accolti dal Ku Klux Klan, che brucia una croce nel loro cortile. Nonostante le continue intimidazioni, John porta i suoi studenti ad ascoltare i discorsi di MLK, marcia con lui e sostiene i sit-in contro la segregazione. Nel 1962 i coniugi Adams si traferiscono a Seattle e diventano i leader del movimento locale. Nel 1968 arrivano a Los Angeles e lavorano su un programma educativo per i bambini locali incentrato sulla Black history: l’obiettivo è coltivare l’orgoglio nero senza che questo produca odio nei confronti dei bianchi. Alla fine degli anni ’70, John Adams completa il suo cursus honorum nella carriera ecclesiastica, diventando vescovo della Chiesa episcopale metodista africana e fondando il Congresso delle Chiese nere nazionali.

“Dreams, Visions and Change” – murale dedicato a Martin Luther King nel quartiere di Sweet Auburn

 

Inizio anni Duemila, Auburn Avenue, Atlanta, Stati Uniti d’America.

Al numero 547 di Auburn Avenue, un bambino di otto anni sta giocando con i suoi due fratelli nel giardino di casa. Non si ferma un attimo, sembra indiavolato. Al padre ricorda l’ex giocatore degli Hawks, Mookie Blaylock, e quindi a casa è chiamato da tutti Mookie Dew. Gioca a pochi passi dal campetto frequentato da Martin Luther King jr, ma il quartiere è cambiato molto da allora. Sweet Auburn, infatti, non è più quel centro culturalmente ed economicamente vivo degli anni ’50. Le battaglie per i diritti civili e l’ottenimento degli stessi hanno avuto un paradossale effetto negativo sul tessuto sociale locale: la libertà di scelta ha portato negli anni molti operatori economici a trasferirsi in altre parti della città, i residenti hanno cercato quartieri migliori e la costruzione del Downtown Connector ha tagliato in due la strada. Dove c’era attivismo sociale e vivacità economica, ora c’è degrado urbano e povertà, con la sola eccezione dei punti turistici legati a Martin Luther King jr. Nonostante ciò, Jann Adams – docente al Morehouse college – ha voluto abbandonare uno dei suburbs di cui sopra e trasferirsi lì con la famiglia. È una delle tre figlie dei coniugi Adams e da suo marito Mitchell Gino Brogdon ha avuto tre figli: Gino jr., John (oggi entrambi avvocati come il padre) e Malcolm, il piccolo di casa, chiamato così in onore di Malcolm X.

In questi anni Brogdon passa molto tempo con i nonni, assorbendo i loro insegnamenti. A dieci anni, parte con loro per un viaggio di volontariato in Ghana. Quando ha quattordici anni vanno in Malawi, uno dei paesi più poveri del continente africano. Qui vede famiglie che non sono in grado di soddisfare i propri bisogni primari e bambini che hanno difficoltà ad andare a scuola. Malcolm inizia a convincersi che il volontariato dovrà avere un ruolo importante nella sua vita.

Mentre cresce, diventa sempre più bravo a giocare a basket. A Sweet Auburn il campetto è anche l’occasione per conoscere le tante realtà che i suoi coetanei affrontano: gioca con i figli della middle class cittadina, ma anche con ragazzi senza una casa, dipendenti dalla droga o con i loro figli. Li conosce, li frequenta, ci diventa amico. È ciò che vuole sua madre, che pensa che questo sia il modo migliore per conoscere il mondo e capirlo.

Quando in prima superiore i genitori decidono di divorziare e la famiglia cambia casa, il basket diventa anche un modo per sfogarsi. Ogni pomeriggio si allena col fratello John e ogni domenica mattina si sveglia all’alba per tirare a canestro prima della messa. Migliora ancora e fissa il suo obiettivo: essere il più bravo della sua draft class.

Nei suoi anni all’high school fa alzare più di un sopracciglio. Al suo ultimo anno vince il premio di Mr. Basketball Georgia e ottiene offerte da molti college prestigiosi. La scelta ricade su Virginia University e nel 2011 si sposta a Charlottesville. Ormai percepisce di poter diventare un giocatore professionista e continua ad allenarsi sempre di più, tanto da provocare una tendinite a entrambi i polsi di un povero assistente, costretto a passargli la palla nelle sue interminabili sessioni di tiro. L’inizio è incoraggiante, ma il 7 marzo 2012 si rompe il piede. L’infortunio lo costringe a perdere un anno, che Brogdon sfrutta per studiare, laureandosi in Storia.

Nel frattempo, riesce a tornare a giocare e diventa titolare. Il suo ultimo anno al college è un successo: è tra i finalisti del Naismith Award, viene inserito nel primo quintetto AllAmerican, diventa il primo giocatore di sempre a vincere sia il Premio di giocatore dell’anno, che di Difensore dell’anno dell’Atlantic Coast Conference (ACC). La squadra, però, va meno bene: viene sconfitta in finale da North Carolina nella partita per il titolo ACC e da Syracuse alle Elite Eight del Torneo NCAA.

Nonostante gli impegni cestistici, Brogdon continua a studiare. La sera del 12 marzo 2016, dopo la sconfitta contro North Carolina, il professor Gerry Warburg riceve una mail. È Malcolm Brogdon. Ha appena perso una delle partite più importanti della sua carriera, ma salito sul pullman della squadra si è messo a scrivere una tesina sugli aiuti americani in Africa e l’ha inviata al suo prof.

Termina l’anno conseguendo un Master in “Politiche pubbliche e Leadership” e vincendo il premio il premio Ernest H. Ern Distinguished Student, consegnato a chi si distingue per i successi accademici e di leadership. È in questo periodo che nasce il suo soprannome. Il presidente in carica è Obama, secondo i suoi amici Brogdon parla come lui, ha studiato politica ed è impegnato socialmente, dunque il soprannome nasce di conseguenza: The President.

Le grandi prestazioni di Brogdon in maglia Cavaliers gli sono valse il ritiro della maglia numero 15

I tempi sono ormai maturi per il grande salto: il 23 giugno, con la scelta numero 36, viene selezionato dai Milwaukee Bucks.

Milwaukee non è una città come le altre. Secondo i dati forniti dall’Istituto Othering & Belonging della UC Berkeley è la quinta più segregata degli Stati Uniti, persino più di Atlanta. Per intenderci, al primo posto c’è Detroit, la città della 8 mile road. Lo stesso presidente dei Bucks, Peter Feigin, poco tempo dopo l’arrivo di Brogdon nel Wisconsin, l’ha definita il “luogo più segregato e razzista” in cui sia mai stato. Questo spingerà il prodotto di Virginia a impegnarsi ancor di più sul piano sociale durante i suoi anni in città. Da un punto di vista strettamente sportivo, invece, il suo obiettivo rimane sempre lo stesso: essere il migliore della sua classe. Non semplice, visto che davanti ha 35 giocatori che sono stati considerati migliori o comunque più adatti di lui. Non siamo ai livelli di Draymond Green, che conosce a memoria tutti e 34 i nomi di coloro che sono stati draftati prima di lui, ma anche Brogdon ha qualche sassolino nella scarpa e decide di toglierselo in fretta: a fine stagione vince il premio di Rookie dell’anno davanti a gente come Joel Embiid, Jaylen Brown, Brandon Ingram, Buddy Hield, Jamal Murray e Domantas Sabonis. È la prima volta dal 1966 che a vincere il premio non è un giocatore scelto al primo giro. Un premio vinto senza avere una campagna promozionale alle spalle, visto che la dirigenza dei Bucks è stata costretta da Brogdon a donare questi fondi in beneficenza.

Un assaggio dell’impatto di Brogdon da rookie:

Nelle stagioni successive le statistiche continuano a migliorare, facendolo finire anche nell’esclusivo club dei 50-40-90 dell’NBA nell’annata 2018-19 (rispettivamente le percentuali di tiri dal campo, da tre e dalla lunetta). Tuttavia, per ragioni salariali, nell’estate del 2019 viene spedito a Indiana. Anche qui la sua produzione continua a salire, ma permane il grande punto interrogativo divenuto il leitmotiv della sua carriera: la tenuta fisica. Negli anni, infatti, ha inanellato una serie di infortuni che lo hanno costretto a saltare molte partite. Eppure, sin dal college ha cercato di fare di tutto per mantenere in salute il proprio corpo: beve un litro e mezzo di acqua al giorno, evita di usare il telefono prima di addormentarsi, fa 15 minuti di yoga prima di andare a letto e appena sveglio si misura la frequenza cardiaca per capire il suo stato di salute. Pur di mangiare sano, nell’estate del 2016 ha anche disertato la cena di prova per il matrimonio dell’ex compagno di stanza al college Anthony Gill, di cui era il testimone. Gli infortuni, però, non sembrano abbandonarlo.

Anche in NBA, intanto, Brogdon si inizia a distinguere per il suo attivismo politico. Sin dal suo arrivo nella Lega, da rookie, si offre di rappresentare i Bucks nella National Basketball Players Association (NBPA). Partecipa agli incontri sindacali, si impegna a incontrare i giocatori del college e nel 2019 ne diventa vicepresidente.

Il suo impegno, però, non è circoscritto al solo ambito sportivo. Già nell’estate 2017, dopo aver appena terminato il suo primo anno nella Lega, Brogdon si è esposto in prima persona su quanto accaduto nella “sua” Charlottesville, dove una manifestazione di suprematisti bianchi contro la decisione delle autorità locali di rimuovere la statua del generale confederato Robert Lee si era trasformata in uno scontro tra questi e i manifestanti antirazzisti, in cui ha perso la vita una donna investita da un’auto di un suprematista che si è lanciato contro la folla. Interpellato sull’argomento, Brogdon si è rivolto a tutti i suoi colleghi contro l’idea per cui gli sportivi devono solo “occuparsi di sport”, invitandoli a parlare, a esporsi, in quanto loro dovere.

Il suo attivismo, però, non si limita al continente nordamericano. Quanto visto in Africa non lo ha mai dimenticato. La necessità di acqua pulita nelle zone rurali del Sudafrica diventa prima il tema della sua tesi di master, poi quello della sua vita extra-cestistica. Inizia a collaborare con PureMadi, un’organizzazione che si occupa della fornitura di acqua pulita proprio in Sudafrica, poi con Waterboys, un’organizzazione nata nel 2015 su volontà dell’ex giocatore di football della University of Virginia, Chris Long. In particolare, lo “starting fivedell’organizzazione composto da Garrett Temple, da Anthony Tolliver, dai tre ex compagni di squadra ai tempi di Virginia, Brogdon, Justin Anderson e Joe Harris, e dal loro ex allenatore Tony Bennett – ha lanciato la terza iniziativa del gruppo, la Hoops₂O, che si concentra sulla costruzione di pozzi in Africa orientale.

Nel luglio del 2020 decide di creare con la sua famiglia la propria fondazione, la Brogdon Family Foundation. Una delle principali iniziative dell’organizzazione, la Hoops4Humanity, consiste nella costruzione di scuole e pozzi in Tanzania e in Kenya, dando così ai bambini locali le infrastrutture e le condizioni per studiare.

Il rapporto tra acqua pulita e istruzione è molto più stretto di quanto si possa pensare. Nei suoi molti viaggi nei due paesi, infatti, Brogdon ha scoperto come l’accesso all’acqua pulita abbia un grande impatto sulla vita di donne e bambini. Sono soprattutto loro a dover percorrere diversi chilometri per portare l’acqua ai propri villaggi, perdendo ore che dovrebbero passare a scuola. Nel tragitto, inoltre, molti si perdono, vengono uccisi dagli animali o stuprati. Il suo impegno in Africa con Hoops₂O ha già portato alla costruzione di oltre dieci pozzi, mentre il primo progetto di Hoops4Humanity è stato completato nel marzo 2021 presso la Patanumbe Primary School di Arusha, in Tanzania. Tale successo ha portato la fondazione a lanciare dieci nuovi progetti presso altre scuole primarie.

Oltre alla costruzione di pozzi a energia solare e orti comunitari, immancabili sono i campi da basket. Ancora una volta, studio, basket e impegno sociale. I tre pilastri su cui si fonda la vita di Malcolm Brogdon.

Brogdon sul suo impegno per la fornitura di acqua pulita in Africa:

 

30 maggio 2020, Auburn Avenue, Atlanta, Stati Uniti D’America.

Brogdon si è alzato presto per allenarsi ed è sveglio ormai da qualche ora. Al termine della sessione di tiro si fa una doccia, si veste e sale in macchina. Parte dalla sua nuova casa situata nella parte nord di Atlanta e arriva a Sweet Auburn, dove ad attenderlo c’è il suo ex compagno di squadra a Virginia, Justin Anderson. I due si uniscono a una manifestazione organizzata dal suo futuro (e attuale) compagno di squadra Jaylen Brown dopo l’omicidio di George Floyd. Marciano insieme e ad un certo punto Brogdon prende il microfono e parla davanti agli altri manifestanti. Non sarà l’ultima volta che tornerà ad Auburn Avenue, anzi. La Brogdon Family Foundation, attraverso il John Hurst Adams Education Project, organizza dei tour per portare i ragazzi delle superiori a visitare college nati originariamente per soli neri (anche noti come HCBU) e alcuni musei e siti storici della lotta ai diritti civili, tra cui proprio Sweet Auburn.

Il discorso di Brogdon a Sweet Auburn:

Nel luglio 2022, dopo tre stagioni ai Pacers caratterizzate da alti e bassi sia individuali che di squadra, viene scambiato ai Boston Celtics. La squadra è reduce dalla sconfitta alle Finals, dove la difesa dei Golden State Warriors ha messo in evidenza gli enormi problemi dei Celtics nell’attacco a metà campo. L’arrivo di un playmaker puro come Brogdon sembra poter essere il tassello mancante per fare il definitivo salto di qualità. A Boston trova il suo amico Jaylen Brown, che con Grant Williams (che copre il ruolo di First vice president) compone il terzetto dei giocatori della squadra presenti nell’Executive committee della NBPA.

A fine agosto parte per l’Egitto per partecipare al programma Basketball without borders, che torna in Africa tre anni dopo l’evento tenutosi a Dakar (dove ovviamente era presente anche lui). Passa quattro giorni allenando i ragazzi locali e rafforzando il suo rapporto con Grant Williams, compagno con cui condividerà la panchina nei primi possessi di quasi tutte le partite della stagione. Dopo molti anni giocati da stella della propria squadra, infatti, Brogdon ha accettato di uscire dalla panchina per guidare la second unit di Boston. L’inizio di stagione è positivo, mostrando di sapersi integrare rapidamente nel sistema creato da Joe Mazzulla. Nonostante il trasferimento in una nuova città, Brogdon riesce comunque a ritagliarsi del tempo per le proprie attività extra cestistiche. Sfruttando uno dei rari giorni liberi a disposizione dei giocatori durante la regular season, ad esempio, si reca a New York per parlare all’Assemblea generale delle Nazioni Unite e confrontarsi con alcuni degli uomini più influenti del mondo. Ovviamente, l’argomento del suo intervento è l’accesso all’acqua pulita.

Brogdon sul suo recente intervento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite:

Condividere lo spogliatoio con Brown e Williams gli permette di concentrarsi anche su una delle questioni che più gli stanno a cuore: la condizione dei neri nelle carceri statunitensi. Questo interesse nasce alcuni anni prima, quando con sua madre è andato a visitare a Montgomery il museo dell’Equal Justice Initiative – una organizzazione privata senza scopo di lucro che fornisce rappresentanza legale a persone che sono state condannate illegalmente o ingiustamente, spesso uomini e donne neri – dove aveva acquistato la maglietta indossata durante il suo discorso al corteo di Atlanta. Anche grazie a questa visita, infatti, ha sviluppato la convinzione che il sistema carcerario statunitense sia progettato per prendere di mira i neri, divenendo una declinazione in chiave contemporanea delle leggi Jim Crow. Lo scorso 27 marzo, i tre vicepresidenti della NBPA hanno visitato la Casa Bianca per prendere parte a una discussione sulla riforma del sistema penale con alcuni funzionari del Dipartimento di Giustizia. In particolare, i tre giocatori hanno chiesto di aumentare l’età (dagli attuali 17 ai 20 anni) per cui si è considerati adulti dal sistema giudiziario della Georgia e del Massachusetts. Secondo Brogdon, infatti, questa legge è uno degli strumenti discriminatori presenti nel sistema statunitense poiché tende a colpire soprattutto i ragazzi neri, negando loro così la possibilità di redimersi e correggere i propri errori.

Meno di un mese dopo, Malcolm Brogdon vince il premio di Sesto uomo dell’anno, divenendo il terzo giocatore della storia di Boston a farlo, dopo Kevin McHale e Bill Walton. Il tempismo è perfetto, perché è il primo a vincerlo da quando è stato intitolato all’ex Celtic John Havlicek. Diventa inoltre il secondo giocatore di sempre a vincere il premio di Rookie of the year e di Sesto uomo dell’anno insieme a Mike Miller. Dopo tante stagioni costellate da infortuni, il suo fisico lo ha finalmente assistito e gli ha permesso di togliersi grandi soddisfazioni. Ora è pronto ad affrontare i playoff con l’obiettivo di tornare alla Casa Bianca, questa volta però con tutti i Boston Celtics.

 

 

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Fonti:
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