articolo di Marco Munno

 

Sarà stato per portare un’aria nuova, sarà stato per scaramanzia, sarà stato per l’ennesimo colpo di testa del proprietario Vivek Ranadivé, o semplicemente per un mix fra questi tre fattori. Ma quando al Golden 1 Center di Sacramento sono state installate le quattro luci laser di colore viola puntate verso il cielo, da accendere dopo ogni vittoria al grido di Light the beam, nessuno ne aveva immaginato un ruolo così centrale all’interno dell’universo viola e nero. Eppure, l’aria nuova è arrivata, con tanta positività a circondare la squadra; la scaramanzia è stata rispettata, con la prima stagione dal record positivo in 17 anni; l’intervento a proposito di Ranadivé (“Voglio che il nostro segnale luminoso lo vedano anche gli alieni”), invece di risultare solamente ridicolo, contribuisce all’epica del racconto di questa stagione dei Kings. Quella che ha visto, dopo la striscia di 16 assenze consecutive dalla postseason (la più lunga di ogni squadra professionistica per i principali sport statunitensi), il ritorno ai playoff della franchigia di Sacramento. 

I record sono fatti per essere infranti anche quando si tratta di primati negativi, come quello di stagioni chiuse con la fine della regular season dei Kings. Solitamente, però, un cambio di passo come quello avuto dalla passata all’attuale stagione di Sacramento arriva dopo scossoni di rilievo, che in offseason non sono arrivati. Scossoni che in una player’s league si traducono in firme di free agent di valore, pescate al draft di prospetti di livello assoluto o trades in grado di aggiungere superstar a roster; invece nessuno di questi tre scenari si è verificato, con i pezzi più appetibili sul mercato (da Fox a Barnes, passando per Davion Mitchell, senza contare il Domantas Sabonis arrivato solo nello scorso febbraio) a restare tutti al loro posto. Oltre a puntelli per un roster che ha cementato un nucleo dalla bassa età media (Fox 25 anni, Huerter 24 anni, Murray 22 anni, Monk 25 anni, Mitchell 24 anni), la firma che si è rivelata importantissima è stata quella di coach Mike Brown: viste le situazioni di partenza di squadra e allenatore prima del matrimonio, in pochi pensavano ad un connubio felice. Invece la prima annata sportiva è andata a gonfie vele, con tanti diversi ragazzi a ergersi protagonisti di una stagione eccezionale per la franchigia.

 

 

Mike Brown : sad memes no more

foto Usa Today

Il percorso di Mike Brown da coach nella Lega è stato contrassegnato da diversi alti e bassi, con picchi e tonfi abbastanza estremi. E’ stato prima assistente in successione di due geni come Popovich agli Spurs (con la vittoria del titolo del 2003) e Carlisle ai Pacers (facendosi notare come uno degli inseguitori principali di Ron Artest sugli spalti in occasione del Malice at the Palace contro i Pistons). Quindi, è passato ai Cavaliers, guidando il LeBron ai primi passi nella Lega ai suoi primi playoff, dopo i due anni iniziali fuori dalla postseason e alla sua prima finale (prima anche per i Cavs): dopo due regular season consecutive concluse col miglior record e un premio di Coach of the Year venne poi licenziato nel 2010, a seguito di un’eliminazione in postseason contro i Celtics in cui era chiaro come James e soci non lo seguissero più. Con lo stesso James in scadenza, la proprietà decise di allontanare l’allenatore nella speranza di convincere il giocatore, che invece portò qualche settimana dopo i suoi talenti agli Heat. Seguì quindi la sfortunata esperienza ai Lakers, con licenziamento dopo 5 partite nella sua seconda stagione al timone (dopo la partenza 1-4 con una squadra che in teoria poteva contare su Nash, Howard, Bryant e Gasol e in pratica coi primi tre a giocare sugli infortuni): a proposito, da notare il sostegno nei suoi confronti proprio di LeBron, messe alle spalle le storie tese. Quindi, un ritorno ai Cavs con un secondo licenziamento dopo un solo anno (con la quantità di meme a lui ispirati salita a dismisura) e il periodo da assistente ai Warriors, con le luci della ribalta nel periodo da rimpiazzo come head coach del titolare Steve Kerr, grazie ad un rotondo 12-0 nei playoff del 2017 (vinti come quelli del 2018 contro i Cavaliers di LeBron, tanto per chiudere il cerchio).

foto ESPN

Dopo il terzo titolo da assistente ai Warriors nella passata annata sportiva, la nuova investitura da capo allenatore, ai Kings, nel solco degli ex assistenti di Golden State passati a Sacramento (dopo Walton e Gentry). Noto nelle precedenti esperienze da capo allenatore per attacchi statici e grande applicazione nella fase difensiva, Mike Brown si è trovato catapultato in una squadra con i due principali riferimenti dalle caratteristiche opposte: Fox in grado di dare il meglio di sé andando a mille all’ora e, così come Sabonis, dalle grosse lacune nella propria metà campo.

Gli ingredienti per una coesistenza disastrosa erano tutti lì sul tavolo.

E quindi…

… e quindi, i Kings 2022/23 hanno messo in piedi un sistema d’attacco scintillante: non solo il migliore della Lega, ma statisticamente il più produttivo di sempre. Segnano 121 punti a partita, con il miglior offensive rating nella storia della NBA a quota 119.6. Il salto compiuto dalla squadra in quest’ultima voce statistica rispetto alla precedente stagione, di 23 posizioni (dalla 24esima alla prima), è il più ampio di sempre.

I suoi ragazzi inoltre si giocano il primato nella Lega anche per percentuale effettiva di tiro con il 57.4%, oltre ad essere quarti per assist a partita con 27.1.

Le tre lineups più usate dai Kings (rispettivamente, Sabonis/Murray/Barnes/Huerter/Fox , Sabonis/Murray/Barnes/Huerter/Mitchell e Sabonis/Murray/Barnes/Monk/Fox) mantengono tutte un net rating positivo puntando su un attacco dall’efficienza stellare, in grado di compensare quanto concede una difesa non impeccabile. Da notare la grande efficienza non solo del quintetto base, ma anche della seconda e della terza lineup più impiegata (quintetti che vedono coinvolte le due principali risorse in uscita dalla panchina), dimostrando la validità anche delle alternative all’interno del sistema

D’altronde, una delle novità di inizio anno era rappresentata dall’introduzione di una campanella negli allenamenti, prendendo spunto da una vecchia storia legata dalle Finali di Conference del 2002. In quell’occasione infatti Phil Jackson, coach degli arcirivali Lakers, definì Sacramento una “vecchia città per mucche”: per tutta risposta, nelle gare casalinghe buona parte del pubblicò si munì di campanacci per sostenere i suoi. Riprendendo in qualche modo la tradizione, dai primi allenamenti della stagione è stata utilizzata la campana da suonare quale riconoscimento simbolico di un gesto fatto a favore della squadra, diverso da un canestro, per enfatizzare lo sforzo per una causa comune. Ad onor del vero al primo din don della stagione, risuonato a seguito di uno sfondamento subito da Barnes è seguito un crack, visto che la campana si è rotta… ma questa è un’altra storia. Facendo il paio con il catenone assegnato alla fine di ogni partita al “miglior difensore della gara”, rappresenta il desiderio di inserire abitudini positive in un gruppo da cementare sempre più.

Con la sua gestione coach Brown si è ritagliato un posto nella storia della franchigia, e non solo per aver allenato nella seconda partita dal punteggio più alto della storia (il successo per 176-175 al doppio overtime contro i Clippers del 24 febbraio scorso): dallo spostamento della franchigia da Kansas City a Sacramento, dei 19 diversi coach ad aver guidato la squadra uno solo aveva raggiunto quota 40 vittorie (con Garry St. Jean e Dave Joerger a fermarsi a 39). Trattasi di Rick Adelman, per 7 volte, nel corso del suo periodo di successo sulla panchina a Sactown dal 1998 al 2005/2006. Proprio l’ultima stagione, prima di quella attuale, in cui i Kings raggiunsero i playoff…

Sentendo un proprio giocatore urlare in palestra durante un’intervista… perché non urlare a propria volta?

 

De’Aaron Fox : hero in the clutch

foto ESPN

La sua selezione nel draft del 2017 non fece particolarmente clamore: d’altronde, pur essendo nella top 5, chiamato con la quinta pick dai Kings, era pur sempre il terzo playmaker scelto dopo i gettonatissimi Markelle Fultz e Lonzo Ball. Tuttavia, a Sacramento De’Aaron si è preso la squadra in mano anno dopo anno, soffiando a Wall e Westbrook il riconoscimento ideale come giocatore più veloce dell’intera Lega. Il ricco quinquiennale firmato nel 2020 gli ha consegnato del tutto il ruolo di uomo franchigia; allo stesso modo però i suoi limiti nel range di tiro e nella tenuta difensiva sono emersi sempre più, con l’aggiungersi di infortuni a minarne la continuità. Addirittura, la contemporanea esplosione nel corso della scorsa stagione del sophomore Tyrese Haliburton aveva fatto circolare il dubbio che fosse meglio sbarazzarsene e puntare come play e faro del futuro proprio su Tyrese.

Proprio come i membri della razza Saiyan in Dragon Ball, manga per il quale non ha mai nascosto l’amore, nel momento di maggior avvicinamento alla “morte” (nel suo caso della storia d’amore con i Kings) si è evoluto in una forma più potente: nell’anno dell’introduzione del premio stagionale intitolato a Jerry West per il Clutch Player of The Year, ha staccato tutti gli altri diventando il giocatore più decisivo nei finali di partita NBA. Innanzitutto, pur senza miglioramenti netti al tiro da fuori, ha dimostrato di esaltarsi nel sistema offensivo di coach Brown, collezionando la più alta percentuale da sotto di tutte le guardie (intorno al 77%) nella Lega: conseguenza delle sue sgroppate a canestro, che gli permettono inoltre di stazionare nella top 10 sia per canestri che percentuale di tiro nelle situazioni di penetrazione.
Soprattutto, è diventato una macchina nei finali di partita: primo per punti segnati, 5 di media, primo per palloni rubati con 0.3 di media.

Il suo personaggio preferito nel manga, come più volte da lui stesso ribadito, è l’antieroe Vegeta rispetto al protagonista Goku: nei tanti finali in volata che hanno visto Sacramento primeggiare, diventando una delle peggiori squadre da affrontare in un match punto a punto, non c’è invece alcun dubbio su chi sia l’eroe che salva i suoi.

 

 

Domantas Sabonis : not just his father’s son

foto Bleacher Report

Essere un figlio d’arte può contemporaneamente rappresentare un vantaggio e uno svantaggio: sicuramente le opportunità che si aprono, soprattutto all’inizio, sono maggiori e ugualmente è difficile costruirsi una strada che non venga costantemente paragonata a quella del padre. E quando il cognome è Sabonis e si sceglie di giocare a pallacanestro in una nazione che vive il basket come una religione, il confronto con l’Arvydas miglior giocatore di sempre della Lituania non può che essere ancora più difficile da sostenere.

Il 26enne Domantas si è comunque riuscito a staccare dall’ombra paterna, puntando sulle proprie caratteristiche: lungo come Arvydas ma mancino invece che destrorso, più atletico e meno imponente vicino canestro.

Una caratteristica distintiva del padre, ovvero la capacità di lettura in fase di assistenza ai compagni, non si era mai vista in Domantas: tuttavia, proprio in questa stagione i Kings hanno portato maggiormente alla luce questa qualità nel più giovane fra i due. Il tratto distintivo infatti dell’attacco dei ragazzi di Brown è rappresentato dalle situazioni di passaggio consegnato da Sabonis ai propri compagni: il dato relativo agli handoffs vede infatti Sacramento primeggiare nettamente sugli altri team della Lega con 774, oltre 100 sulla seconda.

Le soluzioni trovate con Domantas coinvolto sono molteplici: dal tiro preso appena la palla viene consegnata, ai backdoor in caso di anticipo della difesa, ai blocchi lontano dalla palla per liberare terzi uomini da coinvolgere nella collaborazione offensiva, grazie a letture diverse sui vari adeguamenti difensivi i Kings trovano canestro con percentuali elevatissime da questa situazione, ripetuta spessissimo in quanto ancora non sono state trovate contromosse efficaci dagli avversari.

Di conseguenza, alle doppie doppie “classiche” di Domantas, da punti più rimbalzi, si sono aggiunge spesso e volentieri triple doppie con il numero di assist serviti a partita a diventare blabla, il massimo mai registrato in carriera; dopo Nikola Jokić e prima di Luka Dončić è il lituano ad aver collezionato più gare da almeno 10+10+10 con 12.

Nel momento del suo arrivo a Sacramento nello scorso febbraio, sul filo di lana prima della trade deadline, lo scambio con la stellina Haliburton venne da più parti criticato, come l’ennesima mossa che sacrificava una probabilissima star futura per una “finta” star attuale: il campo ha invece detto che, pur rimanendo intatte le qualità di Tyrese, tanto male ai Kings non è andata…

Con 19 punti, 15 rimbalzi e 16 assist contro i Rockets, Sabonis è anche diventato il primo giocatore dei Kings da Oscar Robertson nel 1965 con un 15+15+15

 

 

Harrison Barnes : updated version

foto ESPN

Il passaggio di Barnes ai Kings avvenne in circostanze abbastanza particolari: la trade con i Mavericks infatti venne finalizzata mentre Harrison era proprio in campo, con la maglia di Dallas contro Charlotte, il 7 febbraio 2019. Seppe del suo passaggio nel momento del rientro in panchina, dopo un terzo quarto con sette dei suoi dieci punti personali messi a segno; non mise più piede in campo e, mentre incitava quelli che erano appena diventati i suoi ex compagni, sul volto aveva un’espressione derelitta che fece il giro dei social. Realizzò in quei momenti come fosse prossimo ad un altro passo verso il declino di una carriera partita a razzo ma che aveva visto susseguirsi diverse frenate. Barnes fu infatti parte integrante della Death Lineup originale dei Warriors campioni 2015 e da record con le 73 vittorie nella regular season successiva, ma fra Curry, Thompson, Green e Iguodala ne era chiaramente l’anello debole, con la pessima prestazione nelle ultime tre partite delle Finals 2016 (con un 5/32 totale al tiro a premiare l’azzardo difensivo dei Cavs nel lasciarlo completamente libero) preludio del suo rimpiazzo nella Baia con Kevin Durant. Poi, la medaglia d’oro con Team USA alle Olimpiadi di Rio, ma da giocatore meno impiegato, sostanzialmente una comparsa; quindi il contrattone da 94 milioni in quattro anni rimediato a Dallas, dove nonostante un aumento nella produzione offensiva venne scaricato sull’altare del progetto da costruire intorno a Luka Dončić e Kristaps Porziņģis.

A Sacramento però, stante la versatilità difensiva per la quale originariamente era stato acquisito (fungendo da sensibile upgrade all’Iman Shumpert miglior difensore del quintetto dell’epoca), si è rilanciato facendo un passo in avanti nella metà campo d’attacco: ha completato la trasformazione da tiratore dal midrange, ruolo con cui si affacciava alla Lega in uscita dall’università, a ottimo elemento di sistema offensivo rispetto ai canoni attuali del gioco NBA. Solo nello 0.8% dei suoi tentativi dal campo ha tirato un long-two, la soluzione ormai meno vantaggiosa in un attacco, confermando il trend sotto l’1% delle ultime tre annate sportive, che lo vide addirittura a 0 in quella 2020-2021. Per fare un paragone, sei stagioni fa le conclusioni da quella distanza costituivano il 26.5% dei suoi tiri totali.
La sua attuale mappa di tiro è ora facilmente leggibile: il 45,4% delle sue conclusioni è da 3 punti, il 48.7% negli ultimi tre metri di campo. La prima tipologia quasi sempre assistita (nel 92.7% dei casi), la seconda meno della metà delle volte: in pratica, è sia assolutamente inserito nel gioco perimetrale di squadra, facendosi trovare pronto sugli scarichi, sia in grado di fornire una valida alternativa più interna all’attacco mettendosi in proprio, lasciando i difensori nel dubbio sul concedergli il tiro da fuori senza esagerare nei closeout oppure rischiare di essere infilata in caso di marcatura troppo aggressiva.

Mettendoci anche il fatto di trovarsi nel contract year, alle porte di un’estate che a 31 anni lo vedrà presumibilmente avere l’ultima occasione per strappare un contratto di rilievo, ecco come si ottiene un veterano dall’ottimo rendimento: quell’espressione di sconforto della nottata della trade è ora totalmente cambiata…


Così coinvolto durante la stagione da rimediare il suo primo fallo tecnico negli ultimi 10 anni

 

 

Kevin Huerter: red hot shooter

foto www.nba.com

Arrivato con il draft del 2018 ad Atlanta insieme a Young, in coppia con lo stesso Trae potenzialmente avrebbe potuto costituire una versione aggiornata degli Splash Brothers dei Warriors. Se il compagno ha comunque avvicinato il suo status a quello di Steph Curry, diventando un All-Star, il rosso tiratore è rimasto ben lontano dal livello di Klay Thompson a livello di effort difensivo e di continuità: quando poi dagli Hawks è stato acquisito Murray, tutti gli equilibri del backcourt sono stati stravolti. Con uno scambio sulla carta vantaggioso per entrambe le squadre: Atlanta recuperava una prima scelta (dopo quelle cedute per Dejounte) e risparmiava dal punto di vista salariale, perdendo un giocatore sacrificabile in un affollato reparto di guardie; Sacramento affiancava un tiratore alle due star designate della squadra di Mike Brown, Fox e Sabonis, entrambe con la stessa assenza nel proprio arsenale di un tiro affidabile da dietro l’arco per una pick dalle diverse protezioni e giocatori marginali.

Il sistema offensivo dei Kings si è dimostrato perfetto per le caratteristiche di Huerter, che ha tenuto nel corso di tutta la stagione un rendimento vicino a quello eroico della gara 7 dei playoff 2021, in cui guidò con 27 punti i suoi all’avanzata alle finali di conference ai danni dei 76ers. Ballottaggio per il posto in quintetto con Monk vinto, 15.3 punti di media con il 40.9% da tre punti (massimi di carriera) con il primato di Lega di percentuale effettiva da situazione di handoff del 64.4%, con lo sfizio di ritoccare il career-high portandolo a 30, e di piazzare giocate decisive qua e là (vedasi la stessa gara del massimo in carriera contro i Jazz del 30 dicembre dove ha piazzato anche la tripla della vittoria finale).

Da non sottovalutare inoltre la vittoria nel contest di squadra per il miglior costume di Halloween, con un vestito da alieno

 

 

Keegan Murray: a silent rise

foto Thearon W. Henderson/Getty Images

Per tutto l’anno precedente si è discusso sull’ordine in cui i tre prospetti di livello presenti, Paolo Banchero, Chet Holmgren e Jabari Smith Jr., sarebbero stati selezionati alla notte del draft 2022. Ovviamente, nello stesso draft la scelta dei Kings era la quarta.

Scartata l’ipotesi di buttarsi sul talento più cristallino a disposizione, Jaden Ivey, in ossequio alla filosofia del “win now” a essere selezionato è stato Keegan Murray: giocatore già ventiduenne, con maggiore compatibilità per caratteristiche tecniche, a partire dal tiro da fuori, con le stelle designate della squadra Sabonis e Fox (con Ivey invece ad avere molte similitudini con quest’ultimo).

Diverse sono state le critiche ad accompagnare la scelta, cominciatesi però ad affievolire durante la Summer League di Las Vegas, in cui è risultato MVP, e poi via via durante la stagione. Dove non ha forse avuto i picchi in diversi periodi della regular season dei vari candidati al titolo di Rookie of The Year (dal favorito Banchero a Mathurin, Jalen Williams, Kessler, Smith e Ivey) ma ha mantenuto costanza nel rendimento. Iniziando dalla continuità nel rendersi pericoloso da dietro l’arco: con 137 triple messe a segno ha scippato il primato a Luka Doncic (fermo a 134) per canestri da tre realizzati da un rookie prima della pausa per l’All Star Weekend, per poi prendersi proprio durante la partita della qualificazione alla postseason a Portland quello per un’intera stagione per un esordiente nella Lega (con la chicca della maggiore percentuale di sempre, il 40.7%, per un ragazzo al primo anno con più di 400 tentativi).

Inoltre, se nella vita si tratta di un ragazzo che si discosta poco dalle proprie abitudini (a proposito di quelle alimentari, attirandosi non poco gli sfottò dei compagni), ha aggiunto soluzioni nel proprio arsenale: oltre a istinti difensivi sempre più affinati, ad esempio ha sviluppato il proprio gioco nella situazione classica dell’attacco dei Kings, quello di passaggio consegnato, che nelle due stagioni universitarie a Iowa aveva giocato solamente 9 volte (per la precisione 4 da freshman, 5 da sophomore), diventando il terzo assoluto per percentuale effettiva al tiro fra i giocatori con almeno 100 handoff giocati in stagione (61%, dietro solo al compagno di squadra Huerter e il miglior tiratore di sempre, Steph Curry). Con coach Brown che continua a spronarlo ad essere sempre meno timido nel mettere il pallone a terra e attaccare utilizzando il palleggio e gli istinti difensivi ad essere sempre più affinati, i suoi limiti sembrano lontani dall’essere raggiunti…


Nessuna timidezza comunque da dietro l’arco

 

 

Malik Monk: numbers matters

foto www.nba.com

Dopo tanti alti e bassi, Malik sta ora rivelando tutto il potenziale con il quale si era presentato al draft NBA del 2017. Nell’unica annata spesa al college, insieme a De’Aaron Fox ha composto uno dei backcourt più elettrizzanti della storia di Kentucky, dopo aver fatto fuoco e fiamme ai rispettivi licei e aver condiviso la palma di MVP al Jordan Brand Classic del 2016. Entrambi indossavano il 5 prima dell’avventura universitaria, dove Monk chiese a Fox di cambiare numero, con De’Aaron a prendere lo 0. A fine stagione la separazione, con il passaggio di entrambi fra i pro: Fox selezionato dai Kings, di cui è diventato sempre più il leader, e Monk dagli Hornets, mostrando solo a tratti il suo talento (e anzi, venendo anche sospeso nel 2020 per violazione delle norme antidoping). Dopo la buona stagione ai Lakers di Malik, durante questa estate la reunion della coppia a Sacramento: nella City of Trees Monk ha trovato la sua collocazione ideale, con un ruolo da scorer in uscita dalla panchina interpretato alla perfezione. Con i suoi 13.4  punti a gara (tra cui il massimo di carriera in singola partita di 45 punti), 44.4% al tiro dal campo e 35.2% da tre, si è guadagnato una solidissima nomination come Sixth Man of the Year 2023. Lasciando stavolta il 5 sulle spalle di Fox e indossando a sua volta lo 0, a testimonianza del legame in campo e fuori con il faro del gioco a Sactown.

 

 

Esclusi brevissimi momenti positivi, a Sacramento sono stati tanti gli anni in cui si sono susseguiti disastri dal punto di vista cestistico: cataclismi tecnici, bizze degli uomini franchigia (DeMarcus Cousins anyone?), scelte catastrofiche al draft (dal Douby preferito a Rondo o Lowry nel 2006 all’Evans preferito a Curry nel 2009, dal Fredette preferito a Leonard, Thompson e Butler nel 2011 al Thomas Robinson preferito a Lillard nel 2012, fino al Bagley III preferito a Doncic e Young nel 2018), trades fallimentari, cambi continui di staff e dirigenti.

Perciò, aver finalmente allontanato lo spettro nostalgico di Webber, Divac, Bibby e compagnia, sfatare la maledizione e affacciarsi alla postseason è stato già un risultato di per sé eccellente raggiunto dai Kings.

Non solo: in una Western Conference dove squadre zeppe di superstar (i Mavs di Dončić e Irving, i Lakers di LeBron e Davis), i Clippers di Leonard e George, i Suns di Booker, Durant e Paul, i Warriors degli Splash Brothers e di Green, i Timberwolves di Gobert e Towns) stanno per diversi motivi faticando nel trovare il loro piazzamento nella griglia dei playoff, i ragazzi di coach Brown ci sono entrati fra le prime sei direttamente qualificate, prima di tutte queste.

Con la ciliegina della torta del probabilissimo fattore campo al primo turno, per non farsi mancare niente.

Abbonata dal 2007, nelle 758 sconfitte sommate dai Kings a cui ha assistito ne ha vissuti di momenti cupi…

Si affacciano ora all’appuntamento dei playoff con una squadra non esente da difetti, prima di tutto l’inesperienza: ad eccezione di Barnes e limitatamente di Sabonis e Huerter, i principali componenti della rotazione di Sacramento non hanno mai giocato una gara di postseason. Inoltre, l’inefficienza difensiva (la squadra è fra le ultime della Lega per Defensive Rating, dove è 24esima) non può essere di certo un fattore che ispiri fiducia.

Tuttavia, si può pensare che il battesimo di molti ragazzi ai playoff possa portare ad uno sforzo in più nella propria metà campo, e che la testa più leggera di chi ha già superato ogni previsione riguardo alla stagione in corso possa compensare la mancanza di esperienza.

D’altronde, sul totale scetticismo su questa versione dei Kings la lezione dovrebbe essere chiara. Prendiamo ad esempio la composizione della coppia di leader della squadra: quando Sabonis ha preso la via di Sactown, sulla sua futura coesistenza con Fox si sono levati quasi esclusivamente pareri negativi. Certo, entrambi difettano nel dare pericolosità perimetrale e presenza difensiva; però, nel primo colloquio avuto, hanno gettato subito le basi per collaborare al meglio. Entrambi mancini, si sono subito accordati riguardo al come muoversi sui giochi a due. “Quando abbiamo scoutizzato i tuoi movimenti da avversario ai Pacers, la consegna era quella di non farti bloccare il palleggiatore per una penetrazione a destra, così da non lasciarti la sinistra nel roll a canestro” ha approcciato Fox :“Così come gli avversari vogliono togliere a me la possibilità di andare a sinistra. Giocando insieme, non potranno mandarci entrambi a destra. Sarò io ad andarci: così lasceremo la mano forte a te.” Ugualmente, in pochi hanno creduto a coach Brown che in estate li aveva definiti “una delle migliori tre combinazioni attuali nella Lega”: risultato, a febbraio si sono ritrovati l’uno contro l’altro come avversari, selezionati entrambi per l’All-Star Game.

Insomma, meglio non tagliare fuori prematuramente da ogni discorso, come già erroneamente fatto in qualsiasi sede di pronostico di inizio anno, i Sacramento Kings: il tasto che dà il via allo spettacolo di luci post vittoria è ancora lì, ad attendere di essere premuto nuovamente…

Light the beam!

 

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