di Marco Munno
Belli ed incompiuti: questa l’etichetta appiccicata ai Sacramento Kings di inizio secolo.
Belli, grazie al valore dei componenti del nucleo del team: Vlade Divac, centro passatore antesignano del Nikola Jokić che ora vediamo scalare le gerarchie della Lega (ne abbiamo parlato QUI); Mike Bibby, playmaker da leadership e canestri importanti indipendentemente dalla distanza dal ferro; Peja Stojaković, cecchino balcanico fra i migliori tiratori di sempre; Doug Christie, tenace tanto in difesa quanto nell’omaggio costante con un gesto in campo alla signora Jackie; Chris Webber, ala forte superstar della squadra; senza dimenticare dalla panchina i primi passi in NBA di Hedo Turkoglu, i breaks offensivi del furetto Bobby Jackson e l’energia del beniamino Scot Pollard, menzionando infine il folle talento di Jason Williams predecessore in cabina di regia dello stesso Bibby.
Il tutto gestito da coach Rick Adelman, che innestò nell’attacco principi della Princeton Offense ideata dal prezioso assistente Pete Carril per dare vita sui parquet degli Stati Uniti al Greatest Show on The Court.
Incompiuti, venendo eliminati sempre prima dalla massima affermazione; non bastò loro un attacco spumeggiante nè l’arrivo ai playoffs del 2002 con il miglior record dell’intera stagione regolare. La squadra non disputerà mai nemmeno una finale per l’anello, il massimo risultato venne raggiunto alla celeberrima serie di finale di Western Conference dello stesso 2002, persa in gara 7 contro i Lakers futuri campioni (con l’asterisco del supposto arbitraggio “aggiustato” dalla Lega, soprattutto in gara 6).
Da allora, di fronte al bivio su quale delle due strade imboccare, i Kings hanno proceduto spediti sul sentiero dell’incompiutezza. Dalla fase successiva allo smantellamento del gruppo tanto apprezzato, i tentativi di ricostruzione hanno visto succedersi una serie di fiaschi, distribuiti su tutti i livelli societari.
Relativamente alla proprietà, le disavventure si sono presentate in due atti. Il primo legato alla famiglia Maloof, della quale si vociferavano insufficienti disponibilità economiche per il mantenimento in città della franchigia, intenzionata a spostarne la sede prima ad Anahaim nel 2011 e poi a Seattle nel 2013; veemente fu la reazione della comunità di Sacramento, guidata dal sindaco Kevin Johnson (l’ex playmaker All Star), che coinvolgendo l’investitore Ron Burkle scongiurò l’acquisto del team da parte di cordate che volessero trasferire i Kings. Burkle si mise alla ricerca di partners per rilevare la gestione della squadra e trovò l’allora proprietario di quote di minoranza dei Warriors, Vivek Ranadivé, diventato quindi nuovo presidente del consiglio di amministrazione e intenzionato a riportare la squadra ai vecchi fasti.
La presentazione della Opening Night della Nuova Era fu eloquente
L’arrivo dell’indiano permise il contributo nel mantenimento della franchigia in quel di Sacramento e la costruzione del Golden 1 Center quale nuovo avveniristico campo di gioco, ma rappresentò però la continuazione della tragedia. La sua gestione difatti è caratterizzata da parecchi episodi folli, nelle intenzioni e nei fatti: dalla richiesta allo staff tecnico di giocare in 4 contro 5 in difesa lasciando un uomo in attacco per andare rapidamente in contropiede, al licenziamento dell’unico coach ad aver mai stabilito una buona relazione con DeMarcus Cousins (trattasi di quel Mike Malone, uno dei migliori giovani allenatori in giro, non a caso alla guida degli ottimi Nuggets), passando per la dichiarazione di vedere un potenziale Stephen Curry in un Buddy Hield appena arrivato dopo una parentesi non brillante ai Pelicans.
Relativamente alle strategie di mercato, la combinazione fra abbagli presi al draft e scambi effettuati ricevendo contropartite peggiori di quanto ceduto, è degna di un film di Dario Argento. Fra le scelte, se quella di Evans alla #4 nel draft 2009 (dove però, dopo la pessima stagione precedente, si attendevano di presentarsi con la prima assoluta) fu sensata pur preferendo Tyreke ad un acerbo Curry, quella di Quincy Douby nel 2006 alla #19 (prima di Rondo, Lowry e Millsap) o quella di Jimmer Fredette nel 2011 alla #10 (prima di Klay Thompson, Leonard e Butler) per chiudere con quella di Thomas Robinson nel 2012 alla #5 (prima di Lillard e Drummond) danno l’idea delle molteplici valutazioni errate.
Simile solfa per quanto riguarda le trades effettuate: se aver acquisito dai Bulls nel 2011 JJ Hickson (dalle sole 35 presenze in maglia Kings) per Casspi e una prima scelta con protezione di 6 anni, non è costato la perdita della selezione al primo giro solo per le continue stagioni fallimentari, la lezione sulla gestione dei diritti futuri non è stata imparata dai Kings. I quali hanno ripetuto lo stesso errore: con uno scambio che li portò a cedere anche Jason Thompson, Carl Landry, Nik Stauskas ai 76ers per liberare spazio salariale (necessario per la firma del fallimentare esperimento Rajon Rondo), nel 2015 trasferirono i diritti di scambio su una prima scelta futura ai 76ers, di fatto lasciandoli senza possibilità di selezione al primo giro del draft del prossimo anno. Senza nominare il sign-and-trade di Isaiah Thomas, ultima scelta del draft 2011, dopo una stagione a 20.3 punti e 6.3 assist per una trade exception e i diritti su Alex Oriakhi, che ha giocato gli stessi minuti che ho giocato io su un parquet NBA.
Infine, relativamente al campo, l’investitura a leader è stata riservata a personaggi non certo modelli ideali: da quelli con storie tese con la giustizia, come coach Musselman o Ron Artest, per arrivare a DeMarcus Cousins, metafora per eccellenza dell’intera situazione. L’ex Wildcat difatti contemporaneamente ha messo in mostra sia un talento offensivo fra i primi 10 dell’intera Lega, che un atteggiamento pessimo, portandolo ad avere 0 presenze nei playoffs ma 3 nell’elenco di quelli ad aver ricevuto una gara di sospensione dopo 16 falli tecnici in una stessa stagione (primeggiando su Rasheed Wallace e Dwight Howard, fermi a 2).
Tutto il meglio e il peggio di DeMarcus riassunti in una sola sequenza
Nella scorsa stagione, la prima interamente senza uno dei giocatori comunque migliori della loro storia, le cose non sono andate meglio. La paventata ricostruzione fondata su un mix tra veterani e giovani, con i primi a dover fungere da traino per l’esplosione dei secondi, ha visto invece verificarsi l’esatto opposto. George Hill è stato scambiato a metà stagione (insieme ai diritti su Gudaitis per Iman Shumpert e Joe Johnson, mai visti in campo nel corso dell’annata per i Kings; l’ormai 36enne Zach Randolph ha rappresentato la principale bocca di fuoco di un attacco conseguentemente dal ritmo più basso dell’intera lega, facendo da “tappo” alle aspirazioni dei prospetti da lanciare (dei quali non ha più fatto parte il defenestrato Papagiannīs, disastrosa prima scelta al draft 2016).
Anche i fan più accaniti son costretti ad ammettere di esser messi male
Durante questa estate, però, sono arrivati dei segnali sul fatto che qualcosa stesse iniziando a cambiare. Innanzitutto, un piccolo aiuto da parte della fortuna, con i Kings a presentarsi al draft con la seconda scelta assoluta, nonostante il solo 18% di possibilità che ciò accadesse.
In una batteria dal considerevole numero di prospetti di livello, la scelta è ricaduta su Marvin Bagley; sebbene il suo inizio non sia sfolgorante come quello di altri rookies, in particolar modo di quello del Luka Doncic selezionato appena dopo di lui, è presto per trarre conclusioni sulla traslazione del suo talento offensivo al massimo livello e sulla sua versatilità immaginata in prospettiva da Divac. Fortemente convinto sulle capacità del ragazzo da Duke, come mostra la foto che circolò del suo ufficio, con il supposto ordine di preferenza di scelta al draft 2018 scritto sulla lavagnetta, dove lo piazza secondo, prima di Luka, alle spalle solamente di Ayton. Uno degli aspetti indicati dal management ad aver portato alla selezione di Bagley è quello della volontà di difendere i colori di Sacramento da parte del giocatore. La medesima motivazione, spesso assente nei cestisti alternatisi nel team in questi anni, si è manifestata forte anche per la prima scelta nel draft dello scorso anno, quel De’Aaron Fox che ad inizio stagione ha dedicato un video alla città, proprio per esaltare il suo attaccamento alla causa.
Una dedizione che in questo inizio di stagione caratterizza l’intera squadra. I ragazzi in campo vanno alla ricerca delle migliori soluzioni, cercandosi e trovandosi con continuità. Il loro attacco è settimo in NBA per assist a gara con 25.7 (+4.1 rispetto alla scorsa stagione, in cui erano quintultimi con 21.6), con la produzione di 114.9 punti a serata, quinti assoluti (+16.1 rispetto ai 98.8 della scorsa annata, conclusa come peggiori di tutti da questo punto di vista). La bontà delle loro offensive vede come ciliegina sulla torta essere i secondiassoluti per percentuale da 3 punti, la soluzione principe degli attuali attacchi NBA, con il 39%.
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— Sacramento Kings (@SacramentoKings) 8 gennaio 2019
“Se dobbiamo sbagliare, tanto vale farlo a 100 all’ora”. Parole di coach Joerger, la cui maggior novità apportata nel team è rappresentata dalla mossa non riuscitagli ai Grizzlies, ovvero quella di alzare il ritmo del gioco. Il pace dei Kings è attualmente il secondo della lega, con la squadra caratterizzata da un gioco frizzante che li porta ad attaccare il prima possibile, anche da canestro subito.
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— Sacramento Kings (@SacramentoKings) 4 gennaio 2019
Una nuova filosofia che calza a pennello per un team che pone al centro del suo progetto De’Aaron Fox. In questa sua seconda annata fra i professionisti, il ragazzo, super appassionato di Dragon Ball, ha difatti considerevolmente aumentato tutte le cifre principali relative al suo gioco. Se nella scorsa ha registrato 11.6 punti, 4.4 assist e 1 rubata ad allacciata di scarpe, nell’attuale annovera 17.9 punti (+6.3), 7.3 assist (+2.9), 1.8 rubate (+0.8). I miglioramenti sono rilevanti soprattutto al tiro, con un 47.6% da 2 punti e un 38.1% da 3 (rispettivamente +4% da 2 e +7.4% da 3 rispetto alla scorsa stagione); è diventato così affidabile nel fondamentale, completando le possibilità di soluzioni per un playmaker la cui velocità di attacco al ferro rivaleggia con quella di due eccellenze in quell’aspetto come Russell Westbrook e John Wall.
Provate a prenderlo, se ci riuscite
Miglioramenti al tiro che hanno riguardato dal suo arrivo di due stagioni fa, anche il compagno di backcourt, il bahamense Buddy Hield: dopo il suo ingaggio nell’ambito dell’affare Cousins da New Orleans, dove l’inizio di carriera nella Lega fu zoppicante (con conseguente idea dell’ennesima trade insensata per i Kings), a Sacramento ha trovato confidenza con il canestro sempre maggiore. Passò dagli 8.6 punti con il 36.9% da 3 punti delle prime 57 partite con i Pelicans ai 15.1 con il 42.8% nelle restanti 25 giocate con la nuova maglia. Nella scorsa stagione il suo ruolo di specialista nella conclusione fuori dall’arco si è consolidato, fruttandogli la partenza nel quintetto base di questa stagione dove Buddy Buckets, uno dei tre alter ego di Hield insieme a Buddy Love (quello usato con il gentil sesso) e Buddy Fresh (quello usato nei momenti di relax), grazie all’ottimo movimento senza palla è il miglior realizzatore del team con 20.1 punti a nottata, nonchè l’unico della corrente annata ad aver messo a segno oltre 130 triple con almeno il 40% dall’arco, insieme a Stephen Curry.
Contro i Warriors, nella partita con più triple segnate (41) della storia della NBA, nel duello con Stephen Curry ha raggiunto il suo massimo in carriera con 8 tiri da tre a segno
A completare il terzetto che costituisce l’ossatura della squadra, c’è il lungo Willie Cauley-Stein. Scelto nel 2015, Trill era inizialmente visto quale complemento per un DeMarcus Cousins monopolizzatore dei possessi offensivi; tuttavia, da quando Boogie fu ceduto una stagione e mezza dopo ai Pelicans, si è conquistato un ruolo sempre più centrale sul parquet, proprio partendo dalla prima gara senza Cousins chiusa con il massimo in carriera di 29 punti (con il 63.6% al tiro) oltre a 10 rimbalzi. Si trova nell’ultima stagione del suo contratto da rookie e, se i Kings con la qualifying offer da $6.2 milioni lo renderanno un restricted free agent, potranno pareggiare le offerte provenienti dalle diverse franchigie, che potrebbero giocare al rialzo con il suo ingaggio. Conscio di ciò, seguendo i proclami fatti ad inizio anno, ha stabilizzato il suo rendimento diventando il perfetto partner per Fox, con piedi rapidi e tanta verticalità per convertire a canestro le assistenze del compagno.
Certo, gli effetti della pessima gestione portata avanti sinora non si annullano di colpo. Ad esempio, la realizzazione da parte di coach Joerger, con il consulto delle statistiche avanzate accumulate prima dell’inizio della stagione, che il miglior fit di fianco al centro titolare Cauley-Stein fosse un lungo perimetrale ha inficiato lo spazio in rotazione dei giovani prospetti Giles, Labissiere e dello stesso Bagley. Senza contare la presenza in organico anche di Koufos e Randolph (pure se fuori dai piani tecnici, come comunicatogli quest’estate dallo staff), con un affollamento di lungagnoni nel roster nel periodo storico della small ball.
Il titolare designato nel quintetto base sta però fornendo un ottimo rendimento: anche per Nemanja Bjelica si tratta della miglior stagione disputata oltreoceano. Dopo l’esperienza in chiaroscuro ai Timberwolves, impantanato nelle rotazioni estreme di Thiboudeau con un minutaggio altalenante fra esagerato e inesistente, la nuova destinazione del serbo ha rappresentato un piccolo caso nella free agency di questa estate. Il ragazzo infatti aveva dato la sua parola ai 76ers per un annuale, salvo poi ripensarci per un ritorno in Europa, così da restare più vicino alla famiglia. Le parole del connazionale Divac tuttavia lo hanno ammaliato, portandolo ad un ulteriore cambio di idea, firmando per i Kings un contratto di lunghezza e cifre superiori a quello offerto dalla franchigia di Philadelphia. Quella che sembrava una mossa conveniente esclusivamente dal punto di vista economico si sta rivelando azzeccata anche dal punto di vista sportivo: come risultati di squadra con altissima probabilità Nemanja avrebbe ottenuto maggiori successi nella città dell’amore fraterno, ma individualmente in quel di Sacramento sta vivendo un’ottima annata. Ritoccando quelli della scorsa stagione, è infatti ai suoi massimi NBA nelle principali voci statistiche: per punti (10.8, +4), assist (2.1,+0.7), rimbalzi (6.1,+2), triple realizzate (1.5,+0.4), percentuale da 3 punti (43.5%, +2%), fungendo da ottimo collante con le sue caratteristiche di tuttofare dal cristallino talento.
La reazione di Divac alle giocate di Nemanja parla da sola
A Sacramento si è ricomposto quindi il duo con Bogdan Bogdanovic, già visto in azione al Fenerbahce e con la nazionale serba. Bogi ha continuato la crescita avviata nella seconda parte della passata stagione, di adattamento fisiologico ai ritmi in campo e fuori della pallacanestro negli Stati Uniti. Il suo legame con i compagni, in particolar modo con Buddy Hield durante l’estate passata insieme tra Serbia e festival di Coachella, si è rinsaldato tanto quanto la confidenza nelle proprie giocate caratteristiche, trasferite sui palcoscenici a stelle e strisce. Ad oggi risulta essere uno dei sesti uomini più efficienti della Lega, con licenza di chiudere le partite con gli stessi tiri decisivi che gli son valsi nel Vecchio Continente il soprannome di White Mamba.
A proposito di vittorie sul filo di lana, i Kings sono attualmente una delle squadre migliori in caso di gare punto a punto. In quelle definite clutch situations, ovvero nelle partite con differenza di punteggio di 5 punti al massimo negli ultimi 5 minuti, la squadra di Sacramento è ottava assoluta della Lega per percentuale di vittorie, con il 58.3% di successi sulle 24 occasioni in cui si è trovata in questa situazione.
Addirittura con i campioni in carica dei Warriors hanno sfiorato la vittoria in tutti e tre i loro incontri disputati sinora, arrendendosi solo rispettivamente per 1, 5 e 4 punti di scarto e incassando numerosi lodi da Steve Kerr e soci sul loro miglioramento. Se, come recitava Agatha Christie, tre indizi fanno una prova, di fronte ci troviamo ad una versione finalmente non tragicomica della squadra. Nonostante un record al di sopra delle moltissime previsioni che ne prospettavano fra le 20 e le 30 vittorie, resterà complicato ottenere un posto ai playoffs nell’agguerritissima Western Conference; tuttavia, ad ora sono pienamente in corsa, con le loro 21 vittorie a fronte di 21 sconfitte, con un 50% di successi che risulta la percentuale più alta dalla stagione 2005/2006, quella dell’ultima partecipazione alla postseason.
Insomma, sebbene ci si trovi solamente all’inizio del percorso, se proprietà e dirigenza non decideranno per l’ennesimo scossone (e le voci che girano sul rapporto con coach Joerger non sono delle migliori), pare arrivato il momento in cui i sostenitori dei Sacramento Kings possano tornare a divertirsi ed emozionarsi…
“If you don’t like that, you don’t like Kings basketball!”