“Eeeeeeh il basket di oggi non è più quello di trent’anni fa!”

Si stava sempre meglio quando si stava peggio. Almeno è quello che ci vogliono far credere genitori, nonni e bisnonni, coach, presidenti e custodi. E noi annuiamo, rosichiamo e non ci crediamo.

In America da decenni le statistiche rilevano anche la frequenza con la quale Bill Cartwright abbatteva i piccioni in tribuna tirando i liberi o la media di cicchetti di vodka a sera di Kyrylo Fesenko nei gloriosi anni a Salt Lake City. Dalle nostre parti la questione è stata snobbata a lungo, ma per fortuna Legabasket ha fatto un lavoro di ottima qualità archiviando almeno i dati tradizionali (punti, rimbalzi, assist, percentuali, numero di lampade di Stefano Attruia, ecc…) a partire dalla stagione 1987-88 ad oggi. Un punto di partenza che magari non sarà il massimo dell’accuratezza ma che permette di farsi delle idee abbastanza chiare sulla direzione che ha preso il nostro basket negli ultimi trent’anni.

Spingere l’arancia in fondo al cesto è il nocciolo della questione, al netto di tutte le altre divagazioni. E su una cosa i numeri danno ragione ai nostri vecchi: che si parli di Nba, di Europa, di Italia, della Locride, si segna meno e neanche poco rispetto a 25-30 anni fa. Le mie argute capacità di analisi e un utilizzo pirotecnico di Excel e Paint renderanno ogni mia altra parola superflua:

punti

Non mi addentrerò nel discorso Nba, le pile di studi sul mondo a stelle a strisce sono già parecchio alte così. Basta qualche considerazione: dal 1958 al 1995 la media punti a partita di una squadra Nba non era mai scesa sotto i 100 punti, nel 1986 ancora era a quota 110,2. Nel 1995-96 il muro fu abbattuto: 99,5 punti. Nei successivi 20 anni, solo 4 volte si è tornati sopra quota 100 e sempre per questioni di decimi di punto.

Ma torniamo dalle nostre parti. Nel 1987/88, il Basket Brescia ci insegna perché un grande attacco vende i biglietti ma una grande difesa vince le partite. I biancoazzurri, grazie anche alle performance di Enrico “Core de Roma” Gilardi, sono il miglior attacco del campionato con 101,2 punti a partita, ma chiudono comunque all’ultimo posto e retrocedono in A2. È l’ultima apparizione nel massimo campionato per i lombardi.

I migliori attacchi di quegli anni viaggiavano a quelle cifre. Nel 1990/91 la Fernet Branca Pavia nel campionato di A2 che all’epoca qualificava ai playout con le peggiori di serie A1 viaggiò alla strabiliante media di 102,1 punti a partita. Vabbè che a trascinarla c’era un certo Oscar Schmidt, che chiuse la stagione a 40,7 punti a partita. Oggi ci vorrebbero 2 o 3 cecchini di livello per fare una Mao Santa.

Dal 2006/07, prima annata in cui il capocannoniere di turno, lo scafatese col vizietto della spinello Rick Apodaca, non è andato oltre i 20 di media, solo 3 volte il miglior realizzatore del campionato è andato oltre questa soglia: Clay Tucker nel 2007/08 (21,0 in maglia Teramo), James White nel 2010/11 (20,2 in casacca Sassari) e Tony Mitchell nella stagione in corso (21,9 a partita a Trento).  Fino al 1993, erano oltre 30 i giocatori che superavano i 20 di media in serie A. Dieci anni dopo, nel 2003, ce n’era uno solo: Boris Gorenc.

borisgorenc

Sempre nel ’93, Pavia metteva a referto ancora 96,0 punti a partita, risultando il miglior attacco d’Italia, con Oscar a salutare il Bel Paese a 39,6 punti a partita. Che il terrificante talento del brasiliano oscuri la lettura del complesso della faccenda? Vero solo in parte. I Mike Mitchell, i Ron Rowan, i Drazen Dalipagic, gli Antonello Riva trentelleggiavano senza problemi, una decina di squadre superavano tranquillamente i 90 punti di media e raramente i peggiori attacchi scendevano molto sotto gli 80 punti.

Nel 1990/91, la Emmezeta Udine era la squadra che segnava di meno con 82,1 punti a partita. Oggi sarebbe il 4° attacco della serie A. Del 1993 abbiamo già parlato qua come un anno di cesura nel basket europeo. Il Limoges che si laurea campione d’Europa con il suo basket a 50 punti, la Germania che sorprende tutti e vince l’Europeo di casa, la morte di Drazen Petrovic, il primo ritiro di Michael Jordan. È come se qualcosa si fosse spezzato. In Nba, la media punti per squadra scese dai 105,3 del 1992/93 ai 101,5 del 1993/94. In Italia, lo scettro di miglior attacco passò dai 96,0 di Pavia ai 90,7 della frizzante Recoaro Milano del 1993/94 con Sale Djordjevic, Antonello Riva e Zan Tabak in campo e Mike D’Antoni in panchina. Uno scalino che ha portato solo a una lieve discesa, fattasi più ripida solo per quanto riguarda le prestazioni individuali.

Cosa è cambiato? Non ci sono stati modifiche regolamentari significative, né a livello di organizzazione dei tornei. Un’evoluzione del gioco naturale, si direbbe. Forse. D’altro canto, in Eurolega, la tendenza è molto più sfumata. Nikos Galis è sì capocannoniere nel 1991/92 in maglia Aris con 32,2 punti a partita, ma già all’epoca sono solo in 10 a superare i 20 a partita e il club si farà via via più esiguo nel corso degli anni, di pari passo col resto delle leghe continentali.

La Fiba ci provò nel 2000/01 a contrastare l’evoluzione del gioco, sperando che introducendo i 24” in stile Nba aumentasse il numero dei possessi, si alzassero i ritmi e con essi anche spettacolo e punteggi. Di fatto, in Italia la cosa ha funzionato, almeno sul breve periodo. Nel 1999/2000, la Lineltex Imola era il miglior attacco della serie A grazie ai 31,1 punti a partita di Enzo Esposito. Ma non andava oltre gli 82,1 punti a partita e nessun’altra squadra superava quota 80. La stagione successiva i punti segnati dalla migliore squadra (ma anche dalla peggiore) salirono di quasi 10 punti. È la Muller Verona di Henry Williams. E Andrea Camata, ovviamente.

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Sul lungo periodo, però, le cose tornarono a “normalizzarsi”: nel 2010/11, la Montepaschi Siena mangiatutto ha comandato il campionato segnando 82,5 punti a partita, distanziando di 10 punti il peggior attacco, la Scavolini Pesaro, che sfiorava i 73.

La rivoluzione è divenuta visibile nella classifica cannonieri. Nel 2000/01 “El Diablo” si confermò capocannoniere a 28,0 di media e ben 12 giocatori sfondarono i 20 ad allacciata di scarpe. Ma fu un fuoco di paglia. Vuoi anche per il riordino delle coppe europee (nel 2000/01 esordisce ufficialmente l’Eurolega) e il conseguente progressivo allargamento dei roster soprattutto di prima fascia, nelle stagioni successive ci fu un crollo delle prestazioni individuali. E non solo in Italia.

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Nel 2005/06, Drew Nicholas, che all’epoca furoreggiava in giro per l’Europa prima di rovinarsi la carriera a Milano, fu il primo capocannoniere di Eurolega a non segnare più di 20 punti, fermandosi a 18,5. Stesso anno, stessa cosa in Spagna: Lou Roe a Siviglia fu il primo “pichichi” under 20 con 19,7 punti a sera. In Grecia il tabù era già stato infranto l’anno prima, nel 2004/05, quando Nikos Ekonomou, finito a svernare al Panionios dopo aver vinto tutto al Pana e un po’ meno in maglia Virtus, era diventato capocannoniere con 19,0 punti a partita. In Germania, invece, arrivano l’anno dopo, nel 2006/07 quando il cecchino di Glendora Casey Jacobsen spinge Bamberg al primo titolo della sua storia da miglior realizzatore in terra teutonica a 17,0 di media.

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L’allontanamento di mezzo metro della linea da 3 punti nel 2010/11 non ha sortito grandi effetti, almeno ad alto livello (ditelo ai 4 tattici di Prima Divisione). Le percentuali non sono cambiate granché, a dispetto delle previsioni. È vero che l’arco rappresenta una linea psicologica fondamentale nelle spaziature dei giochi d’attacco e che arretrarla può aver significato l’aver allargato un minimo le maglie delle difese. Ma atletismo e fisicità, oltre a una preparazione sempre più puntigliosa, hanno compensato ampiamente il cambiamento.

Fatto sta che oggi osanniamo come macchine da punti il buon Tony Mitchell, quel DJ Kennedy che in Bundesliga con 21,8 punti a partita distanzia di quasi 4 punti l’inseguitore più vicino e anche quell’Andy Panko che in Acb va per il terzo titolo di capocannoniere con 17,7 punti a sera e nessun altro a superare i 15 di media. Non ditelo a vostro padre.

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Marco Pagliariccio

Di Sant'Elpidio a Mare (FM), giornalista col tiro dalla media più mortifero del quartiere in cui abita, sogna di chiedere a Spanoulis perché, seguendo il suo esempio, non si fa una ragione della sua calvizie.

3 comments

  1. Io penso che i motivi possono essere diversi: in primis, l'esasperazione degli schemi da parte degli allenatori che non lasciano liberi di esprimersi i propri uomini. Le rotazioni a 10-12 uomini, poi, tolgono sicurezza ai giocatori: se sbagli sei in panca ed entra un altro, non hai l'opportunità di entrare in ritmo. L'importante è eseguire lo schema chiamato ed il piano partita, mentre passa in secondo piano il prendere un tiro nei primi 10 secondi dell'azione, anche se è un buon tiro. Si tende sempre di più a tirare all'interno di un "gioco" prestabilito. I giocatori talentuosi subiscono assai questo stile di pallacanestro per me. Infine, in Europa in particolare, ai giovani viene insegnato sempre di più a "stare in campo" che a fare canestro. Avere le le qualità fisiche e tattiche giuste è più importante rispetto al sapere fare canestro in diversi modi (non è possibile che ci siano giovani guardie o play che giocano in categorie importanti che non sappiano tirare bene). Per riassumere, bisognerebbe dipendere meno da tattica ed esecuzione estrema dei diktat degli allenatori e più dalla fantasia e dal talento.

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