Il giorno in cui ci ha salutati ha fatto nuovamente piangere tutti, proprio come succedeva in campo. I suoi tifosi, cui ha sempre regalato almeno un trofeo ovunque sia andato, e quelli avversari, finiti per arrendersi, a suon di dispiaceri inferti, alle vittorie di un campione che avevano imparato a rispettare: due anni fa, stroncato dalla leucemia, ad appena 34 anni ci lasciava Matteo Bertolazzi.

Campionato o coppa Italia che fosse, Teo ha vinto ovunque: Forlì, Pistoia, Vigevano, Omegna, cui ha aggiunto la preziosissima salvezza nell’unica stagione di Casalpusterlengo. Un palmares, però, anche decisamente riduttivo rispetto all’incolmabile vuoto lasciato dopo la sua scomparsa nell’intero mondo della palla a spicchi, solo al termine di una lunga battaglia combattuta come al solito strenuamente e con coraggio. Altrimenti ce lo saremmo ritrovati sicuramente ancora in campo, in cerca di una nuova avvincente sfida di una carriera vissuta sempre col sorriso sulle labbra, ma in maniera semplice e genuina. Divertendosi in campo e fuori, vivendo con curiosità ogni situazione, ma sempre soprattutto pronto a dare una parola di supporto, una pacca d’incoraggiamento a chiunque si trovasse sulla sua strada, amico di vecchia data o appena conoscente che fosse. Sicuramente ci sarebbe stato ancora bene in quella A2 nella quale sembra essere tornato di moda il playmaker italiano, pronto ancora a sfidare un coetaneo come Guarino o a togliere il fiato come dodici anni prima al trentottenne Spinelli. Facendo crescere chi stava accanto a lui e ad istruire ed insegnare i trucchi del mestiere a qualche giovane playmaker in rampa di lancio. Chissà, magari, l’avremmo trovato al Sud che tanto gli piaceva, ma dove con Marco, l’amico di una vita, è stato solo in vacanza e che tanto invece sembrava assomigliare al carattere di un emiliano atipico, cresciuto fin da giovane con la passione per Pino Daniele ed il tifo sfegatato per la Roma.

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Gli piaceva la Sicilia, soprattutto, ma si “narra” che una volta abbia portato tutti in Sardegna per una settimana col pullman del Basket Parma femminile, di cui papà Gianni è ancora presidente.

La famiglia Bertolazzi, del resto, è di quelle dove si mangia “pane e pallacanestro”, poi alla Lavezzini, in un’epoca ancora lontana dalla Wnba gioca Cynthia Cooper, che per qualcuno è “la Michael Jordan al femminile”, e allora la strada per Matteo sembra segnata in maniera irreversibile fin da subito. Col passare degli anni il settore giovanile in cui presce comincia però a stare stretto, anche perché in un paio di partite contro la Virtus Teo ne segna anche cinquanta e l’anno successivo l’approdo sulla sponda bianconera, proprio quella in cui conoscerà Marco Pappalardo e che altri amici gli sconsigliano “perché a Bologna c’è solo la Fortitudo”, è inevitabile.

“Siamo stati amici fin da piccoli, condividendo in maniera caratterialmente diversa principi molto sani”, esordisce Marco, che all’inizio non dove essere stato troppo contento del suo arrivo, però. “Di solito all’inizio della stagione arrivavano solo lunghi nelle nostre squadre, ma lui fu una sorpresa. Era fortissimo e fin da piccolo era grande in mezzo ai coetanei, già pronto e con un modo di giocare diverso da quello mostrato poi con i senior”. E così, a discapito di un minutaggio che Marco vede calare drasticamente, nasce un legame che resterà inalterato negli anni, sopravvissuto alla lontananza cestistica e sorretto sull’innato equilibrio caratteriale di Teo. “Non abbiamo litigato mai, era sempre accomodante. Era un leader silenzioso, ma empatico. Non parlava tanto, ma gli bastava un gesto significativo e non per forza verbale per chiarire ogni problema”. E per evadere dalla grande pressione che a Basketcity si respira fin da giovani, anche in virtù della grande concorrenza pronta a toglierti il posto, puntuale arrivava la vacanza in Sicilia, necessaria anche ad assecondare la grande passione per il mare. “E’ paradossalmente più facile abituarsi all’assenza di una persona che hai visto spesso – chiude momentaneamente Marco – ma essendo stati spesso lontani per via del basket, mi viene ancora adesso naturale pensarlo e cercarlo come se fosse ancora qui. Ma abbiamo vissuto sempre tutto a 360° e sono orgoglioso e fortunato di essere stato suo amico”.

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Nel frattempo puntuale arriva anche l’esordio in Serie A. E’ la Virtus di Abbio e Komazec, di Savic e Binelli e alla settima giornata Teo segna i suoi primi due punti nella vittoria 107-89 contro la Carne Montana Forlì, città nella quale approderà subito dopo, anche se con la casacca della Fulgor Libertas. Dove per un periodo Matteo ha contemporaneamente come compagni di squadra (e di appartamento) molte delle persone più care della sua carriera. Oltre a Marco Pappalardo, infatti, troverà anche Andrea Grossi ed un’altra figura che tornerà spesso sulla sua strada: Giampaolo Di Lorenzo. In mezzo al loro estro ed istinto lui, che il più giovane, ne diventa subito il “termometro”. Un po’ “quello che succederà per il resto della carriera – conferma Grossi – dove insieme ad un tiro da tre sempre più affidabile, la sua capacità più grande sarà quella di aver sempre fatto crescere i compagni che gli stavano attorno”. La stagione 2002-2003, però, comincia sotto tutt’altro che i migliori auspici. Alla prima partita Matteo si rompe i legamenti del ginocchio, ma con la solita caparbietà, sfruttando anche un fisico piuttosto esile, è pronto con largo anticipo rispetto ai sei mesi previsti. In tempo per la finale di Coppa Italia contro la Montecatini di Marco Calvani e Valerio Spinelli, cui lui riesce a cambiar volto essendo decisivo in difesa proprio sul play di Pozzuoli. Riusciva ad annullare tutti in difesa, nonostante i piedi “grandi”. Per i suoi compagni d’avventura è questa la partita simbolo del suo quadriennio forlivese.

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Quella Coppa Italia è, però, l’unico alloro di un’esperienza chiusa con tre quarti di finale ed una semifinale, ma l’appuntamento con la vittoria è solo, temporaneamente e geograficamente, rimandato. La tappa successiva è Pistoia, piazza rinata nel 2000 che sta provando a rilanciarsi, ma non è andata oltre il 10° posto e la salvezza ai playout dell’allora B1 nei due anni precedenti. L’entusiasmo, il carisma e la leadership di un carattere maturato anche in anticipo rispetto all’età anagrafica, trovano qui lo sbocco naturale per una carriera pronta ad esplodere definitivamente all’alba dei 25 anni. La promozione arriva al terzo tentativo, dopo due semifinali conquistate. Lui è il titolare, Andrea Cinciarini il suo cambio. Un altro di quelli cresciuto grazie e “sotto” Bertolazzi, del quale siamo pronti a scommettere porti ancora adesso qualche “trucco”.

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Chiusa al secondo posto la stagione regolare, non senza problemi tecnici che portano anche al cambio d’allenatore, Pistoia liquida Cento (3-0), soffre con Casalpusterlengo, trascinata dall’odiatissimo – per i suoi trascorsi montecatinesi – Mario Boni (3-2) e batte Osimo 3-0 in finale, approfittando del fattore campo dovuto alla prematura eliminazione di Forlì.

Non solo, arriva anche lo scudetto dilettanti contro la rivale Veroli, sul cui campo durante la regular season Pistoia ottiene proprio la vittoria che ne cambia la faccia al campionato. E’ in corso anche il cambio di panchina tra Lasi e Friso, in panchina ad interim ci va Biagini, allora ci pensa Teo a risolverla con “due, tre prodezze che di solito gli vedevamo fare solo in allenamento – racconta Fiorello Toppo – senza pressione e con cui qui, invece, ci ha trascinato anche nel supplementare”.

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Se l’erano promesso i due, che avrebbero riportato Pistoia in Serie A e sono ancora adesso i giocatori, per presenze e punti segnati, presenti insieme a Zaccariello sul podio della società biancorossa. Un asse play-pivot letale in campo, ma che anche a tavola se la cavava piuttosto bene . “Ero appena tornato a Pistoia e lui organizzò subito una cena – conferma lo storico capitano pistoiese, ancora oggi a Bottegone in B – e pur toccandoli nel loro orgoglio parmense, dicendo che il miglior prosciutto era il San Daniele e il miglior parmigiano era il Grana Padano, la mamma ci deliziava ogni volta in cucina. E così un piatto di tortellini dopo l’altro, un giorno ne abbiamo mangiati dodici”.

Il ciclo pistoiese si chiude con la prima stagione in A2, il settimo posto ed un turno di playoff, ma evidentemente la missione è quella di rilanciare un’altra piazza: Vigevano. Il primo anno è di “preparazione” e si chiude con l’eliminazione per mano della squadra dove approderà alla fine del triennio gialloblù – Casalpusterlengo –  ma l’impronta è chiara e la promozione arriva anche un anno in anticipo rispetto a Pistoia. Teo conquista un altro titolo di campione d’Italia dilettanti e con lui in panchina c’è Gigi Garelli, tornato a risollevare dalle ceneri proprio quella Forlì dalla quale Teo era partito nel suo viaggio tra i senior.

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La prima (e purtroppo unica) stagione in A2 si chiude addirittura col sesto posto ed un turno di playoff, ma sarà l’ultima gioia societaria prima della temporanea chiusura della “Salonicco d’Italia”.

Stavolta lo spostamento è ben più corto (80 km) e breve: Casalpusterlengo, A2 2010/11. Una sola ma intensa stagione, dove il contributo degli italiani (compresi i suoi amici Chiumenti e Cerella) è fondamentale per la conquista di una salvezza che pur raggiunta all’ultima giornata con l’85-72 su Ferrara, vale addirittura l’undicesimo posto.

Corsi e ricorsi, dicevamo, allora la sfida successiva è troppo affascinante e piena di stimoli, per lui che ha fatto dei rapporti umani una chiave della sua vita, per potervi rinunciare. Giampaolo Di Lorenzo, che nel frattempo è diventato allenatore ed ha già riportato Forlì (già, proprio lei) in A2, approda ad Omegna (DNA) e riesce finalmente nell’intento di portare Teo con sé.

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La stagione regolare è trionfale. La Paffoni è una macchina perfetta che vince 30 delle 34 partite della prima fase e trionfa in Coppa Italia, dove batte prima Trento, poi promossa, (67-56) e poi Torino (57-52).

Il trionfo di Castellanza è un altro di quelli che portano impressi la sua impronta, nel dettare i ritmi ed infondere coraggio e carisma ad un ambiente che si stava sempre più affezionando alle imprese dei suoi beniamini. Tra essi quattro tifosi presenti ad ogni allenamento della Paffoni e, soprattutto, il “Maestro”, un signore sull’ottantina da cui Teo andava ogni giorno perché curioso di conoscere e farsi raccontare una storia sempre nuova. Eppure la finale con Torino non è così facile. Si gioca a punteggio basso e dopo venti minuti Teo ha tre falli. Di Lorenzo decide di preservarlo, ma la sua presenza in campo al fianco dei compagni è talmente importante che Saccaggi quasi “ordina” al coach di non farlo partire senza Matteo.

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Lo scriteriato sistema delle quattro conference (Napoli con 54 punti era l’unica ad averne tenuto il passo, staccatissime tutte le altre) costringe i rossoverdi, già ammessi in semifinale, ad una lunghissima pausa di tre settimane. Ferentino, che invece viene dalle tre gare con Latina (due chiuse con lo scarto entro i tre punti), ha già ripreso il ritmo ed è pronta per gara 1 del PalaBattisti.

La Paffoni arriva in vantaggio di due lunghezze all’ultimo minuto, ma al termine di un’azione a dir poco complicata ed a forte rischio palla persa, Guarino allo scadere dei 24’’ firma la bomba del sorpasso ed è lucidissimo a spendere fallo nella difesa successiva. La bomba di Masciadri si spegne sul ferro, allora è proprio Matteo a tener vivo il possesso, ma sbaglia anche Picazio e la Fmc vince 71-70. La storia si ripete anche in Ciociaria, perché Ferentino si impone 78-71 e vola in finale contro Trieste, dove festeggerà la promozione. Nonostante 32 vittorie ed appena 6 sconfitte, di gran lunga il miglior bilancio stagionale tra tutte le ventiquattro squadre della DNA, Omegna è eliminata già in semifinale.

Ma soprattutto, nessuno sa che quella sarà anche l’ultima apparizione di Matteo sul parquet. Con la solita caparbietà e forza delle motivazioni, smaltita la delusione per la mancata promozione, l’ossatura (Bertolazzi, Picazio, Saccaggi, Prelazzi, Masciadri con Di Lorenzo in panchina) è intatta e pronta a rilanciare la sfida alla Serie A.

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Ma pochi giorni prima dell’inizio del campionato, ancora durante le amichevoli prestagione, la scoperta più amara, quella di una partita ben più importante che Teo, però, stavolta giocherà fuori dal campo.

In un’intervista successiva come mvp della settimana Pierpaolo Picazio mi racconterà che “nessuno aveva né la forza, né la voglia di andare avanti” ma la stagione, nonostante la defezione del suo allenatore in campo, prosegue. Anche perché, a spingere la Fulgor da fuori, più forte e sicuro che mai di vincere anche questa battaglia, c’è proprio lui. Un po’ come succedeva durante le sedute video. “Potevamo stare a parlare anche due ore e mezza di pallacanestro – conferma infatti Di Lorenzo – per il suo piacere di stare in campo e conoscere ogni aspetto del gioco”. Lo staff preparava appositamente filmati in cui gli avversari segnavano sempre, ma Teo che era il più piccolo, per nulla impressionato, riusciva a trasmettere coraggio a tutto il gruppo. Non solo a parole, ma anche in campo. Non c’erano partite scontate nemmeno quando il punteggio sembrava ormai essere acquisito. “Potevamo essere anche sotto di 6-7 punti a due minuti dalla fine, ma faceva partire tutto dalla difesa e con un paio di recuperi trascinava con sé tutta la squadra”.

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Omegna rimonta ma manca proprio all’ultima giornata, perdendo in casa con Chieti, la qualificazione ai playoff. Niente in confronto alla notizia del 16 Settembre 2013: Matteo non ce l’ha fatta, ci lascia a 36 anni.

Su cosa ne sarebbe stato del suo futuro sono tutti concordi: qualche dissonanza sul ruolo, ma ci sarebbe stata ancora la pallacanestro. Troppe, probabilmente, erano le qualità per poter essere racchiuse tutte in un unico ruolo e più qualcuno l’avrebbe visto bene come allenatore.  “Era bravissimo nel trasferire subito le mie idee agli altri – riprende Di Lorenzo – e nell’intravedere e far notare soprattutto a Momo Tourè, che di quella squadra era diventato il playmaker, i miss match con gli altri”.

Ma soprattutto “si allenava sempre con entusiasmo anche nell’eseguire a 100 all’ora gli esercizi più banali, contagiando e trasmettendolo anche ai più piccoli”. Del resto era “un grande conoscitore dei fondamentali del gioco e probabilmente, visto anche il modo di approcciarsi, sarebbe stato l’ideale per un settore giovanile, come peraltro aveva già iniziato a fare”, aggiunge l’amico Marco.

Andrea Grossi, invece, l’avrebbe probabilmente spostato dietro la scrivania. “Col suo carisma, le sue qualità e la sua intelligenza sarebbe stato un dirigente ideale – conferma il suo conterraneo – unendo la sue idee innovative alla capacità di mettere tutti d’accordo, mediare e farli ragionare”. Un ruolo di rappresentanza, insomma, chiamato a colmare quel vuoto “troppo spesso esistente tra base e vertice”. E se proprio dovessimo scegliere una terza via lontana dalla pallcanestro, sarebbe stata senza dubbio il mare. “Anche una delle ultime volte che l’ho visto – conferma Fiorello Toppo – meditava di mollare tutto ed aprirsi un’attività lontano, sulla spiaggia. Tra la gente, naturalmente”. Un mare galeotto nel cementare rapporti anche solo di un anno, come quelli maturati con Bruno Cerella. “Gli piacevano le avventure come a me, il lancio col paracadute a Reggio Emilia, come le immersioni in Egitto – racconta l’italoargentino di Milano – qualcosa che faccio anche adesso pensando a lui e che mi piacerebbe ancora condividere insieme. Ho sempre cambiato numero di maglia nel corso della mia carriera, ma da quando l’ho conosciuto ho deciso, in suo onore, che non avrei più rinunciato alla numero 7. Era una persona che teneva tanto allo sport e se fosse guarito gli sarebbe piaciuto venire con me in Kenya la prossima estate”. Dove Bruno, insieme a Tommaso Marino, Niccolò Franceschini e Sergio Mazza è tornato anche quest’anno, per regalare ai più piccoli e meno fortunati un sorriso su un campo da basket. Che a Madare, vicino Nairobi, si chiamerà proprio “Matteo Bertolazzi”.

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Qualità caratteriali che ne hanno fatto un riferimento imprescindibile in campo, sempre pronto a rincuorare un compagno dopo un errore o a cercare di “distrarlo” nei momenti di difficoltà, in grado sempre di “leggere” tutto un attimo prima, tecnicamente e non solo. “Io non ho mai visto uno essere capitano con la sua continuità – riprende Andrea Grossi – praticamente dai 18 anni fino all’ultimo in cui ha giocato, spinto sempre dalla voglia di crescere sotto tutti i punti di vista e riuscendo a colmare e ridurre al minimo anche il gap fisico che poteva avere”.

“Era una persona solo apparentemente più seria e anche un po’ schiva, ma una volta superato l’inizio diventava un giocherellone”, è il ricordo di chi, come lui, ci ha trascorso, da compagno di squadra e di abitazione, due stagioni e mezzo praticamente 24 ore su 24. Una convivenza, come detto, per un periodo  spesa con tutti i suoi amici più cari, professionisti dal reciproco rispetto in campo, amici fraterni fuori. “Ricordo che nel secondo dei suoi due quattro anni di Forlì, io ero il titolare e lui (11 anni più giovane) il mio cambio – racconta Giampaolo Di Lorenzo – ma mentre io non ero in un gran momento, lui cresceva e allora dissi a Friso di far partire lui in quintetto”. Un’inversione che coincise con un rinnovato equilibrio ed una serie di vittorie, tanto che quando l’attuale tecnico dell’Azzurro Napoli provò nuovamente a riprendersi il posto da titolare, il coach non ebbe ovviamente la minima intenzione di stravolgere nuovamente l’assetto. “Nonostante la differenza d’età abbiamo vissuto un anno e mezzo insieme come fossimo fratelli – prosegue l’ex allenatore di Omegna – ci prendevamo in giro in campo e ci marcavamo allo sfinimento. Aveva un talento impressionante, ma migliorava ogni anno di più rubando sempre con gli occhi qualcosa da mettere poi in pratica”. La sfida, poi, poteva proseguire, anche per ore, alla playstation, una passione condivisa anche con Marco, con cui era anche un modo di comunicare ben più originale dei telefonini. “Giocavamo fino ad addormentarci, nessuno voleva che si finisse senza aver vinto o perso – prosegue Di Lo- e spesso l’uno suggeriva all’altro anche il tasto da spingere pur di finire la partita”. Ma la vita fuori dal campo, vissuta sempre in movimento e alla perenne ricerca di curiosità da soddisfare, lo portava spesso a trasmettere e coinvolgere i suoi compagni anche in altre passioni, come Dragon Ball. “Ho iniziato a guardarlo anche io che avevo undici anni in più, mentre gli preparavo lo ‘scarpariello’ che gli piaceva tanto”, chiude l’ex Matera. Prima o poi “il prezzo da pagare” per una vita così movimentata e dispendiosa sarebbe arrivato, però, puntuale nel corso della giornata. Tanto che, nel bel mezzo delle serate organizzate con i compagni, non di rado capitava che Teo chiedesse proprio a Di Lorenzo le chiavi della macchina per potersi addormentare. “Ma sistematicamente nel sonno non ricordava mai dove le avesse mese, motivo che gli è costato sempre un sacco di botte”, sorride ancora oggi il suo ex coach.

Un amico di una vita, insomma, con cui non passare solo le due settimane di vacanza, dove spesso e volentieri finiva per assecondare la sua grande passione per le immersioni e per gli squali. “Ci bastava un gesto e riuscivamo a comunicare anche a 40 metri di profondità – racconta un altro compagno di squadra e d’avventure come Alberto Chiumenti – e anche quando stava male mi diceva “Chiumanga stai tranquillo”, perché avrebbe stroncato questo problema come succedeva con gli avversari in campo”.

E invece esattamente due anni fa la leucemia l’ha portato via all’affetto dei suoi cari e di chiunque avesse avuto il piacere di conoscerlo su o attorno ad un campo da basket o ne avesse sentito raccontare le gesta di uomo e di campione, che “con equilibrio sapeva darti sempre tutto e divertendosi ha ovunque lasciato un gran ricordo”, chiude Christian Villani.

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Del resto non è un caso che ovunque e non solo oggi, saremo sempre “TUTTI PAZZI PER BERTOLAZZI”.

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