Se frequentate i concerti e non siete esattamente degli spilungoni, vi ritroverete spesso a odiare il proprietario della testa davanti alla vostra. Più alta di almeno una spanna, vi costringe ad angolazioni bizzarre per inquadrare almeno uno spicchio di palco oppure a conquistare la prima fila a suon di spintoni. La sensazione vi è familiare? Immaginate di trovarvi a San Francisco, 1967, la fronte che gronda il sudore della Summer of Love. I Grateful Dead imbracciano gli strumenti, la folla è in visibilio, un ragazzone alza le braccia al cielo. La sua testa supera i sette piedi, se consideriamo anche la chioma riccioluta. Sembra un parafulmine. Dietro di sé ha fatto il vuoto, impossibile scorgere qualcosa oltre le sue spalle, bisogna girargli intorno. Bill Walton si è messo in viaggio dalla sua San Diego per assistere al suo primo concerto dei Grateful Dead. Ne vedrà altri 855 – all’incirca, dice lui, perché all’inizio non li contava. Adesso li ospita a casa sua quando i tour li conducono dalle sue parti, è salito sul palco insieme a loro una dozzina di volte. Tra gli appassionati è conosciuto come “Grateful Red” e si è appropriato del titolo di deadhead più fedele del mondo. Con tutta probabilità, è anche il più alto.

[Sports Illustrated]
Dite quello che volete, ma i cieli d’America sembrano sempre più grandi dei nostri. Quelli degli anni ’70, poi, profumano di libertà.
Abbiamo tutti un amico che parla solo attraverso citazioni dei Simpson, ne ha una adatta per ogni occasione, li conosce a memoria. Dite la verità, se non ce l’avete, quell’amico siete voi. Bill Walton fa la stessa cosa coi Grateful Dead. Ha assimilato ogni accordo, interiorizzato ogni strofa, e ha finito per incarnare l’immaginario stesso delle canzoni di Jerry Garcia, Bob Weir e soci. Un relitto di rock psichedelico che si ostina a tuffarsi in ricordi nostalgici, colorati come un trip da LSD, in un mondo che da tempo ha chiuso le porte della percezione. La generazione di Woodstock e della Summer of Love è stata umiliata e poi fagocitata dal sistema, ma lui resta in prima linea. “Sono ancora un hippie, e ne vado fiero perché avevamo ragione noi” ha detto di recente. Libertà di pensare e quindi di essere, o viceversa. Il cordone ombelicale che lega San Diego Bill ai Grateful Dead, e permette a entrambi di sopravvivere nell’anno 2017, è essenzialmente questo. Un valore inviolabile, immutabile negli anni.

[The Nine Pound Hammer]
Bill Walton faceva propaganda vegetariana quarant’anni prima che diventasse mainstream. Pensateci, la prossima volta che addentate del seitan
Ai tempi d’oro, quelli del college a UCLA, Bill ci credeva davvero che l’amore potesse cambiare il mondo. Without love and a dream it would never come true. Non bighellonava per il campus tra una canna e un paio di flirt con qualche ragazza disinibita. Era un attivista della prima ora, di quelli scomodi da gestire. “Guardate le foto di John Wooden a cavallo tra anni ’60 e ’70”, si diverte a ricordare oggi. “Si nota chiaramente un pre-Bill Walton e un post-Bill Walton. Conoscermi è stato il suo peggiore incubo”. Si narra che Bill facesse impazzire il coach, un tradizionalista irremovibile e veterano della marina; si rifiutava di tagliare barba e capelli, lo punzecchiava sul presidente Nixon, lo tormentava con slogan pacifisti. Dovette persino andarlo a riprendere in prigione quella volta che passò una notte al fresco per aver protestato tropo energicamente contro la guerra in Vietnam. What good is spilling blood? It will not grow a thing.

[Rushthecourt]
Quando gli scout gli riferirono delle prodezze del Bill ragazzino, John Wooden li cacciò in malo modo. “Un giocatore delle superiori non può essere così bravo”. Andò a finire che diventarono una delle accoppiate più romantiche e vincenti di sempre. Quelle basette però il coach non le poteva vedere.
Ma nemmeno John Wooden aveva l’ultima parola con lui. Bill Walton a UCLA era intoccabile, una superstar. L’eroe dei due titoli NCAA tra ’72 e ’73 e delle due stagioni consecutive da 30-0. Eppure i suoi ricordi sono tormentati dalla sconfitta, quella del 19 gennaio 1974 contro Notre Dame, la fine della striscia vincente. Il suo tiro sbagliato a dodici secondi dalla sirena. Si sente tutt’ora in colpa coi compagni e con coach Wooden, è convinto che non riceverà mai assoluzione. Dopo quell’anno andrà avanti in NBA, e tra un infortunio e l’altro riuscirà a ritagliarsi lo spazio per conquistare un titolo a Portland e il secondo a Boston, nei Celtics di Larry Bird. Ma non è mai riuscito nell’intento di portarne uno a casa sua, coi San Diego Clippers. Anche con questo rimpianto ha imparato a convivere. Every silver lining’s got a touch of grey. Un tocco di grigio come quello che gli si allargava sui capelli mentre i suoi giorni da giocatore si spegnevano e Bill usciva dai radar, la schiena fragile che gli presentava il conto dei troppi anni passati in pantaloncini e scarpe da ginnastica. When life looks like Easy Street, there is danger at your door.

[Sports Illustrated]
Qui si ride, si scherza e si parla di musica, ma teniamo presente che Bill Walton nella sua breve parentesi tra gli dei del basket era questa roba qui
A Bill Walton piacciono le iperboli, fanno parte del suo modo di parlare. Ama definirsi “l’atleta professionista più infortunato del mondo” ed è difficile dargli torto se consideriamo quante volte le sue articolazioni di cristallo hanno fatto crac. 37 operazioni di chirurgia ortopedica, un ginocchio e qualche vertebra nuove di zecca, entrambe le caviglie fuse. Sul campo da basket possedeva i numeri e il talento per costruirsi un’eredità pari solo ai grandissimi del gioco, ma con meno di mille partite disputate la sua carriera è diventata una leggenda minore, una storia per pochi. Allo stesso tempo, è convinto di essere l’uomo più fortunato del mondo. Senza sua moglie Lori da un lato e il medico dall’altro non avrebbe resistito ai dolori alla schiena che lo paralizzavano a letto. Era il 2008. “Se avessi avuto una pistola me la sarei puntata alla tempia”, racconta nella sua autobiografia. I’d rather be a free man in my grave than a puppet or a slave. “Back from the dead” è il titolo del libro, per l’appunto. Dieci anni e una cura all’avanguardia dopo, gira l’America per le telecronache della NCAA e per promuovere il suo business. Quando passa da Boston si ferma sempre un giorno in più. Lì lo amano ancora alla follia, e nel suo cuore Beantown è seconda solo a San Diego. Ovunque va, si porta dietro la sua sedia. Alta, nera, robusta, somiglia a un trono. “Amo la mia sedia, è l’unica su cui sto comodo”, spiega ai reporter incuriositi con un sorriso a tutta bocca. “Ho vissuto il momento peggiore della mia vita ed è stata la cosa migliore che mi potesse capitare”. A box of rain will ease the pain, and love will see you through.

[Thoughts on the dead] San Diego Bill che indossa una t-shirt con decorazioni lisergiche mentre sfida un orso impagliato. Ordinaria amministrazione.
Fatevi un favore e seguite una sua telecronaca su ESPN per il basket collegiale. Apprezzate la parlantina sciolta e un po’ artefatta di chi ha superato la balbuzie con mille sforzi, ascoltatelo divagare come un fiume che scorre. Viviamo anni in cui la narrazione sportiva è diventata oggetto di studio, si scrivono fior di articoli sui meme scaturiti dai teleracconti di Sandro Piccinini, ma con Bill Walton siamo già all’avanguardia, alla meta-telecronaca. Si è costruito un personaggio da vecchio brontolone e usa il sarcasmo come espediente narrativo, un contraltare alla seriosità di certi suoi colleghi e una parodia del sensazionalismo comune ad altri. “Shades of Pistol Pete Maravich”, vagheggia, mentre la guardia di Washington spara un passaggio sulla faccia del compagno. E il record 12-2 degli Oregon Ducks diventa “one of the great stretches of basketball in the sport’s history”. “La più grande stoppata nella storia della civiltà occidentale”, commenta una giocata di Ronnie Price nientemeno che ai danni del figlio Luke in un Lakers-Jazz. Gli piacciono le iperboli, dicevamo. Le sue divagazioni poi segnano il punto di non ritorno, quella zona grigia dove la partita non suscita più interesse ed è meglio, anzi si deve, parlare d’altro. Per uno che sostiene di aver passato metà della propria vita in ospedale e l’altra metà in coda tra alberghi, taxi e aeroporti, perdere tempo in cose futili è insopportabile. I suoi discorsi sembrano una delle jam con cui i Grateful Dead dilatano le loro esibizioni dal vivo. Lezioni di storia e geografia, diatribe sull’evoluzionismo, Bob Dylan, Michelangelo, Madre Teresa di Calcutta, Baryshnikov. “What about the game?” prova a interromperlo il collega Jim Gray, che sta al gioco. “It doesn’t matter, the people can see the game”. C’è persino spazio per autentici happening: un’esibizione di glockenspiel ad esempio, o come quella volta in cui si spalmò faccia e spalle con dello speciale terriccio proveniente da Temecula, California. Non più tardi di un mese fa, vestito da Zio Sam per il football su ESPN, si è prodotto in un’apologia sulla legalizzazione della marijuana raccogliendo gli applausi dei colleghi. Il 4 febbraio scorso il network, che evidentemente si diverte a dargli corda, durante Arizona-Oregon ha trasmesso il video di una sua scampagnata nei boschi in cui, per motivi tuttora imprecisati, si cimenta nell’imitazione di un picchio.

[Reddit]
A Tucson si sono fatti un’idea precisa di che tipo di personaggio sia Bill Walton, infatti lo dipingono in un murales mentra cavalca un jackalope. Quale dei due sia un animale immaginario resta ancora da definirsi.
Per essere un hippie impenitente, uno che se la ride a fare il buffone davanti alle telecamere, Bill Walton ha una singolare tendenza a indugiare sulla sconfitta, sulle cose serie. Sul dolore fisico, sugli episodi che l’hanno portato in ginocchio. Il suo libro inizia con l’idea del suicidio mentre soffre sul letto e finisce col ricordo degli amici che, nel tempo, hanno lasciato questo mondo. In mezzo c’è una lunga, bizzarra corsa con i Grateful Dead a fare da colonna sonora. Hanno una citazione adatta per ogni momento, ormai l’abbiamo capito. Gli parlano della gioia di vivere, che è ciò che lo manda avanti. Forse insiste a cercare il bello della vita proprio perché è così sensibile al male. Musica e sport sono la migliore cura. Ti fanno saltare tra la folla all’ennesimo concerto, anche se ne hai già visti ottocento, ti spingono a giocare sempre un’altra partita. Perché non si può mai sapere cosa si nasconde dietro l’angolo. Once in a while you get shown the light, in the strangest of places if you look at it right.

[Ryan Huddle/Globe Staff]

 

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