articolo di Mario Castelli

grafica di Davide Giudici

 

 

 

Nelle ultime settimane che hanno preceduto l’arrivo dell’ormai imminente edizione degli Europei, si è tanto discusso sulle numerose e pesanti assenze che hanno tolto una buona fetta di talento, interesse e lustro alla competizione. Una cosa che però, fortunatamente, non si è ridotta, è la quantità di storie singolari da raccontare, anche perché quelle sono sicuramente più democratiche rispetto al talento, non appartengono solo ai grandi campioni ma anche ai giocatori di prestigio minore.

Ci sono storie di figli di altri sport, come il montenegrino Dino Radoncic che è nato in Germania e cresciuto in Spagna, dove il padre giocava a pallamano (stesso sport praticato dal padre del serbo Nemanja Nedovic) e prima di diventare una scelta al primo giro dei Phoenix Suns è vissuto fino a 11 anni ad Ascoli Piceno proprio al seguito del genitore.

Ci sono figli di altre culture come Adam Hanga che è nato a Budapest da madre ungherese e padre della Guinea Equatoriale, arrivato in Ungheria per studiare e ripartito per tornare in patria tre anni dopo la nascita del neo-acquisto del Barcellona, e non l’ha mai più rivisto.

Ci sono prospetti sbucati dal nulla come il lettone Andrejs Grazulis che fino a 16 anni praticava atletica leggera e solo quattro anni dopo, agli Europei under 20 del 2013, con 12 punti e un canestro sulla sirena, sconfiggeva la Spagna 64-63 regalando alla Lettonia la prima finale continentale dopo 74 anni, poi persa di 7 contro l’Italia d’oro di Della Valle, Abass e Tonut. Oppure il centro israeliano di origini russe Alex Chubrevich che addirittura ha aspettato di avere 19 anni prima di abbandonare la pallavolo e prendere in mano il pallone da basket, tra lo stupore e lo scetticismo dei suoi parenti, salvo arrivare fino alla nazionale e ad un titolo israeliano vinto nel 2013 col Maccabi Haifa battendo in finale i grandi favoriti del Maccabi Tel Aviv.

Ci sono giocatori contesi da ben quattro nazionali diverse come Luka Doncic che prima di voler rappresentare la sua patria natale, ovvero la Slovenia, era stato pesantemente corteggiato anche da Spagna, Montenegro e Serbia).

Ci sono giocatori che hanno seriamente rischiato di dover smettere di giocare come il polacco Przemek Karnowski, omaccione da 216 cm per 136 kg, che ha dovuto superare un problema alla schiena che due anni fa l’aveva costretto al punto di dover impiegare mezz’ora per alzarsi dal letto alla mattina e all’impossibilità di camminare senza stampelle, sviluppando anche un’infezione post-operatoria che l’ha portato a perdere quasi 30 kg, salvo poi diventare con Gonzaga University il recordman di tutti i tempi per partite vinte in NCAA, ben 136.

Ci sono anche ragazzi cresciuti in condizioni tutt’altro che agiate come il greco Thanasis Antetokounmpo che, proprio come il fratello Giannis, ha trascorso un’infanzia non semplice di povertà, pregiudizi razziale e dispense spesso vuote nella loro casa della periferia ateniese, dove è nato da due immigrati nigeriani), ma alla fine abbiamo scelto di raccontare nel dettaglio tre storie. La storia di un giocatore NBA ormai affermato nonché uno dei probabili protagonisti di questo Europeo, quella di uno che la NBA l’ha assaggiata vincendo anche un titolo, prima di tornare alla sua dimensione di giocatore da Eurolega, e quella di un giocatore sconosciuto che, chissà, magari in NBA ci arriverà in futuro. La prima è una storia che racconta come un lutto possa trasformarsi anche in punto di svolta positivo di una vita e di una carriera, la seconda evidenzia come il destino possa fare giri molto larghi, anche imperscrutabili, prima di arrivare a compiersi, mentre la terza ci ricorda come un fiore di bellezza rara può spuntare anche dal più spesso degli strati di ghiaccio della pianura più remota.

 

DENNIS SCHROEDER

Se a metà dello scorso decennio foste capitati per caso in uno skate park di Braunschweig, nella parte centro-settentrionale della Germania, e aveste visto un ragazzino di colore, rapido e sottile come un ragno, non sareste potuti rimanere indifferenti di fronte alla sua abilità con lo skateboard e al suo atteggiamento spavaldo. Se c’era una ringhiera particolarmente alta o una scalinata particolarmente ripida dove gli altri avevano paura di andare, questo ragnetto sfrontato, che oggi di mestiere fa il playmaker degli Atlanta Hawks e negli ultimi playoffs ha viaggiato a 24.7 punti di media e 7.7 assist, sarebbe stato il primo a fiondarsi col suo skate.

Avevo 11 anni, quindi me ne fregavo. Gli altri, compreso mio fratello, erano tutti più grandi e sapevano che era pericoloso, io invece semplicemente non ci pensavo e mi buttavo a capofitto. Ora ovviamente non lo farei mai. Un sacco di cose che facevo a quel tempo ora non le farei mai”. Sì, perché al tempo Dennis era un ragazzino a dir poco esuberante, per usare un eufemismo. All’asilo era l’unico bambino di colore, a scuola erano solamente in due su 800 studenti totali. Per lui, figlio di un uomo tedesco e di una donna gambiana conosciuta in vacanza in Africa, crescere da bambino musulmano e di colore nel nord della Germania non era semplice, quindi l’unica opzione per poter essere rispettato dagli altri era essere “più” degli altri.

Un posto dove però la discriminazione si affievoliva era il campo da basket. “Quando ho iniziato a giocare, lì gli altri ragazzi non mi dicevano niente. Sapevo che comunque non gli piacevo, che pensavano fossi diverso, ma l’ho accettato”. Le doti sono notevoli, il problema è che la disciplina per poter crescere, migliorare e diventare un vero giocatore di basket gli manca completamente. “Una settimana veniva ad allenamento, poi quella dopo no. Non sapeva gestire la frustrazione, urlava, quando perdeva se ne andava dalla palestra. Aveva una personalità molto forte” ricorda Liviu Calin, l’allenatore di origini rumene che aveva accolto in squadra il piccolo Schroeder. Che da ragazzino voleva decidere tutto, quando andare a letto, quando andare a scuola, quando andare ad allenarsi e quando non allenarsi proprio. Preferiva invece andare allo skate park e trascorrere là delle ore invece di stare in palestra ad affinare le sue doti da giocatore e il suo talento naturale, che pure lo aveva portato a 14 anni ad essere scelto tra i 39 miglior ragazzi tedeschi per partecipare ad un training camp della nazionale giovanile. Però l’allenatore, Frank Menz, frustrato dalla sua indisciplina, gli disse che non avrebbe potuto avere un futuro bel basket, che non sarebbe mai arrivato a giocare nel massimo campionato tedesco. E magari sarebbe anche andata così, se un evento funesto non avesse cambiato la vita di Dennis.

Dennis Schröder a 9 anni

I suoi genitori si erano separati, ma avevano mantenuto ottimi rapporti. Un giorno il padre Axel sarebbe dovuto andare nel salone da parrucchiera delle ex moglie Fatou per aggiustare il wi-fi, salvo però non arrivare mai. Era un martedì, e questo particolare Dennis lo ricorda ancora adesso. “Quel giorno sono andato a scuola ma non mi sentivo bene, mi sentivo come se fosse successo qualcosa. Sono tornato a casa e tutta la famiglia era in cucina. Mi hanno fatto sedere e mi hanno detto «papà è morto». Avevo 16 anni e non ci credevo, pensavo che non potesse essere vero. Sono dovuto andare a casa sua, volevo vederlo coi miei occhi. Era ancora là che giaceva sul divano, ho provato a toccarlo. Se ne era andato davvero. Questo ha cambiato tutta la mia vita”.

Il padre Axel era il primo tifoso di Dennis e la persona che più di tutti lo spingeva perché prendesse seriamente questa cosa della pallacanestro. Una settimana prima della sua morte, aveva avuto un dialogo col figlio e gli aveva detto che era convinto che avrebbe potuto avere un futuro roseo nel basket, ed essere d’aiuto anche per la famiglia, la madre Fatou, i suoi quattro fratelli e sorelle. Gli aveva fatto promettere che avrebbe preso questo impegno con più serietà. Il giorno dopo la morte del padre, guardando tra i fogli della sua scrivania, Dennis trova un foglio scritto a mano. Il contenuto della lettera è sostanzialmente ciò che Axel aveva detto a suo figlio proprio pochi giorni prima di essere sorpreso dall’infarto, unito alla sua speranza di vederlo imporsi nella pallacanestro. Schroeder prende con sé la lettera e si dirige in palestra. In qualche modo riesce a convincere Calin a farsi dare una seconda chance. Il suo allenatore decide di mettere alla prova la sua determinazione: fa attaccare gli altri ragazzi in 1vs1, dicendo a Dennis che sarebbe rimasto fisso in difesa fino ad una sua eventuale decisione. “È rimasto in difesa per 30 azioni consecutive. Ha anche pianto, ma è rimasto lì”. Questo segna un cambiamento nella carriera di Schroeder, che dal giorno seguente abbandona il parco e lo skateboard e mette nella pallacanestro tutta quella serietà e quell’impegno che non aveva mai avuto, e che il padre aveva tanto desiderato. Spesso si allena più volte al giorno, con la sua squadra giovanile e con quella più grande, talvolta anche per sei ore. I suoi miglioramenti sono immediati.

Photo by Joern Pollex/Bongarts/Getty Images

Un anno dopo è già nella seconda lega tedesca con la farm team dei Phantoms Braunschweig, ancora un anno più tardi sbarca in nazionale under 18, nel 2011/12 a 19 anni segna 17.8 punti di media con 6.7 assist in A2, l’anno successivo ne piazza 12 di media in Bundesliga con la squadra della sua città e conquista un quinto posto con la Germania agli Europei under 20. Nel giugno 2013, a soli quattro anni dalla morte del padre e dalla sua promessa, Dennis Schroeder viene scelto con la 17esima scelta assoluta al draft NBA dagli Atlanta Hawks. Il resto è storia recente, comprese le sue straordinarie prestazioni all’Europeo 2015 o la sua ottima ultima annata in NBA. Il suo stile vistoso fuori dal campo, come l’abbigliamento stravagante o il suo tipico ciuffo ossigenato, consigliatogli dalla madre quando era un ragazzo, non sono sempre stati accolti di buon occhio in Germania negli anni passati, mentre ora lo rendono uno degli sportivi più riconoscibili e il futuro della nazionale nel post-Nowitzki, ma come ha imparato da bambino, per guadagnare il rispetto degli altri è sempre dovuto essere “più”, fosse anche più eccentrico o appariscente. Per quando riguarda il campo invece non c’è dubbio, e i tedeschi dovrebbero essere grati a quella lettera del padre Axel, perché nella Germania di oggi orfana di Wunderdirk, Dennis Schroeder è nettamente il più forte di tutti.

(Calendario Germania 31/8 vs Ucarina, 2/9 vs Georgia, 3/9 vs Israele, 5/9 vs Italia, 6/9 vs Lituania, partite tutte su Sky e se non siete abbonati a Sky, potete tranquillamente vederli in streaming su NOW TV la internet Tv di Sky che permette di vedere tutto l’Europeo online senza vincoli di contratto né di abbonamento ovunque vi troviate da smartphone, tablet, PC, game console e Smart TV, info qui http://bit.ly/NOWTV_Europei2017)

 

 

OGNJEN KUZMIC

I Golden State Warriors di questa generazione di giocatori – Stephen Curry, Klay Thompson, Draymond Green, Andre Iguodala, più recentemente anche Kevin Durant – saranno con molta probabilità ricordati come una delle squadre più forti di sempre, indipendentemente dall’eventualità che riescano a mettersi al dito altri anelli oltre ai due già conquistati, ipotesi che al giorno d’oggi appare comunque piuttosto realizzabile. Uno che potrà dire di aver fatto parte di questa squadra (sia pure per spezzoni di due sole stagioni) e di aver anche vinto un titolo NBA è Ognjen Kuzmic. Il lungo della Serbia ai prossimi Europei è, assieme a Peja Stojakovic e Darko Milicic, uno dei soli tre giocatori provenienti dal suo paese (una delle più grandi fucine mondiali di talenti cestistici) ad aver portato a casa un anello. In aggiunta a ciò può anche vantare una coppa di Grecia vinta due anni fa con il Panathinaikos, la tripletta campionato+coppa+Lega Adriatica raccolta lo scorso anno in Serbia con la Stella Rossa e ora un fresco contratto con il Real Madrid, una delle maggiori superpotenze d’Europa. A leggere il suo palmares si penserebbe ad una stella del basket europeo che è riuscito anche a mettersi alla prova e trovare pure un po’ di fortuna dall’altra parte dell’oceano, ma la carriera (e pure la vita) per Kuzmic non è sempre stata così liscia.

Ognjen è nato nel 1990 in Jugoslavia, è già questo basterebbe per farvi capire che i primissimi anni della sua vita non siano stati particolarmente distesi e spensierati. Come se non bastasse, è nato e cresciuto a Grabovica, villaggio nei pressi di Doboj, città bosniaca non lontana dal confine con la Croazia e da quello con la Serbia, il che l’ha resa una città contesa e un punto strategico nel corso della guerra in Bosnia, triste teatro anche di un omicidio di massa che ha portato alla morte di quasi 2500 persone. Essendo piccolo all’epoca dei fatti, ovviamente Kuzmic non ricorda molto di quel periodo buio, ma come per qualsiasi persona cresciuta in quel contesto un’ombra alberga dentro di lui. Data anche la statura importante, crescendo si dà alla pallacanestro.

I primi passi li muove nel Findo Doboj, dopodichè a 17 anni lascia casa per andare al Borac Banja Luka. La sua esperienza lì però dura solo un anno e al termine della stagione 2008 si ritrova senza squadra e senza alcuna offerta. Nessuno sembra credere in lui, nonostante l’altezza neanche una squadra se la sente di proporgli un contratto. Allora a Kuzmic non resta che fare le valigie e provare a ripartire da zero da un’altra parte. Il biglietto sola andata che si procura dice Finlandia.

Non certo un paese dalla spiccata tradizione cestistica, tanto più se paragonata a quella delle ex repubbliche jugoslave, ma tanto basta per provare a rimettersi in pista. A Uusikaupunki, nell’estremo sud-ovest del paese, sulla sponda opposta del Mar Baltico rispetto a Stoccolma, trova ad accoglierlo Jyri Lehtonen. Lehtonen, allenatore del Korihait, ovvero la squadra cittadina, lo adotta quasi come un figlio nonostante abbia qualche perplessità su questo ragazzone così goffo e dinoccolato: “Avevamo in squadra questa guardia bosniaca, Bojan Sarcevic, che era originaria dello stesso villaggio di Ognjen e ci aveva detto che un ragazzo di 18 anni molto alto stava cercando squadra, ma che in patria nessuno lo voleva, sebbene secondo lui potesse costruirsi una carriera. Abbiamo deciso di accettare la sfida e abbiamo invitato Ognjen in Finlandia, quando è arrivato era alto 2.13 mt ma pesava sì e no 90 kg. Era alto, pallido e faceva fatica a trascinarsi. Qualcuno pensava addirittura che fosse uno scherzo. Però aveva un’apertura alare infinita e mani morbide, quindi abbiamo deciso di tenerlo”.

Nel suo primo anno a Uusikaupunki, Kuzmic viene messo ad allenarsi con la prima squadra del Korihait per poi giocare le partite con le giovanili. Fuori dal campo gli viene proposta una dieta speciale a base di proteine che lo aiuti ad inspessirsi e mettere su massa. Ogni giorno viene spedito in palestra a fare pesi per irrobustire i muscoli. E prima ancora della fine della stagione i risultati si vedono tutti: Kuzmic inizia a diventare più grosso, più sano, il fisico finalmente diventa quello di un giocatore di pallacanestro di buon livello. Lo nota anche il connazionale Bojan Sarcevic, che tutti i giorni lo porta all’allenamento sulla canna della bicicletta (dato che la società non ha una macchina da mettere a loro disposizione) e fa sempre più fatica a trasportarlo ogni giorno che passa. Al di fuori del parquet impara a parlare in inglese, si apre verso gli altri, diventa più estroverso. E sul campo i 26 punti e 20 rimbalzi di media che mette assieme con la sua squadra giovanile dimostrano che probabilmente il buon Sarcevic ci aveva visto molto più lungo di tanti altri. Dopo un solo anno in Finlandia, intuito il grande potenziale grezzo di questo ragazzo, iniziano a fioccare richieste di agenti per prenderlo in procura e di squadre per poterlo ingaggiare. Lehtonen però riesce a trattenerlo un altro anno al Korihait, dove lo usa come lungo di riserva. I miglioramenti di Kuzmic però sono travolgenti, sia dal punto di vista fisico, che da quello tecnico e di comprensione del gioco. A metà stagione chiede di poter essere mandato in prestito per poter giocare di più e dare seguito a tutti questi miglioramenti.

Passa così a giocare nella seconda lega finlandese per il Korikobrat a Lapua, 300 km più a nord di Uusikaupunki, dove trova un coach serbo pronto ad accoglierlo ma dove le statistiche sul campo, 7.4 punti e 5.9 rimbalzi, non rispecchiano le aspettative che c’erano sul ragazzo. Questa esperienza non del tutto convincente persuade la dirigenza del Korihait a lasciarlo andare, nonostante il parere contrario di Jyri Lehtonen che avrebbe voluto tenerlo e renderlo il centro titolare della squadra, e che per protesta si dimette il giorno successivo. Ritrovatosi senza squadra, a Kuzmic non resta che ripartire da capo. Ma i miglioramenti fisici e il potenziale lasciato intravedere nei suoi due anni in Finlandia sono sufficienti per fargli trovare velocemente un ingaggio. La stagione successiva torna in Bosnia per giocare con il Celik Zenica e i 9.7 punti e 7.3 rimbalzi in 23 minuti che mette assieme a 20 anni sono sufficienti per valergli la prima vera grande occasione della sua vita.

Lo chiama l’Unicaja Malaga, che vuole mandarlo un anno a giocare in LEB con la propria farm-team, la Clinicas Rincon Axarquìa, per vedere se può rivelarsi buono per la prima squadra. Al termine della stagione, il 28 giugno 2012, lo stesso giocatore che 24 mesi prima non era riuscito a farsi confermare da una squadra di metà classifica della Korisliiga, viene scelto al draft NBA con la 52esima scelta dei Golden State Warriors. Da lì i gradini si fanno decisamente più ripidi: un anno alla Joventut Badalona in ACB e poi il salto dall’altra parte dell’Atlantico fino ad arrivare sul Pacifico, dove si divide per due stagioni tra i Golden State Warriors e i “cugini minori” della D-League, i Santa Cruz Warriors. Qui la nostra si riallaccia a dove l’avevamo cominciata. Qualche partita in NBA, un po’ di più nella lega di sviluppo dove diventa anche il miglior rimbalzista della stagione 2013/14 e la convocazione nella nazionale serba, da lui scelta, al posto di quella del suo paese di nascità, in virtù del doppio passaporto. L’anno successivo, sia pure senza giocare nei playoffs, raggiunge il massimo traguardo possibile per un giocatore di pallacanestro, divenendo pure materiale da fan trivia grazie alla curiosità di essere diventato il primo giocatore di sempre (assieme a James McAdoo) a vincere il titolo NBA e il titolo in D-League nella stessa stagione. Poi, con un anello in tasca, il ritorno in Europa. Questa volta da giocatore vero, in Eurolega, prima al Panathinaikos, poi alla Stella Rossa e ora al Real Madrid. I tempi della guerra, quelli delle squadre bosniache che lo rifiutavano, quelli dei viaggi in bici sulla canna di Sarcevic sotto la neve, quelli delle prestazioni ordinarie e senza sussulti nella A2 finlandese, sono ormai un ricordo sbiadito. Uusikaupunki e Madrid sono distanti 2844 km l’una dall’altra, ma mai come oggi l’impressione di Ognjen Kuzmic è che siano molto, molto più lontane di quanto possa dire una semplice cartina.

(Calendario Serbia 1/9 vs Lettonia, 2/9 vs Serbia, 4/9 vs Turchia 5/9 vs Gran Bretagna, 7/9 vs Belgio)

 

 

TRYGGVI HLINASON

Quando due anni fa l’Islanda si è qualificata per gli Europei di basket per la prima volta in assoluto nella sua storia cestistica, in tanti hanno visto questo evento come una simpatica e divertente novità. Quando gli scandinavi poi sono finiti nel girone di ferro di Berlino assieme a Spagna, Serbia, Turchia, Italia e Germania, praticamente tutti hanno pensato che i poveri scandinavi sarebbero stati piallati da tutte le avversarie, prendendo tra i 20 e 40 punti di scarto ad ogni uscita. Alla fine della prima fase, invece, gli appassionati di tutta Europa sapevano di aver scoperto una nuova realtà nel panorama in continua espansione della pallacanestro continentale. Gli islandesi, che potevano contare sull’allora 33enne Jon Stefansson (ex Napoli e Roma) come stella incontrastata oltre ad un paio di buoni giocatori e un manipolo di onesti mestieranti, hanno perso tutte le partite come da previsione ma rendendo infinitamente più difficile la vita alle avversarie rispetto a quanto chiunque si aspettasse. Solamente Serbia e Spagna, poi semifinaliste, sono riuscite a vincere con uno scarto in doppia cifra, mentre Germania, Italia e soprattutto Turchia (costretta al supplementare) hanno dovuto soffrire le pene dell’inferno per piegare Vilhjalmsson e compagni. Oggi l’Islanda si ripresenta ad Eurobasket per la seconda volta consecutiva, e c’è da giurare che stavolta nessuno li sottovaluterà più fin dall’inizio.

I risultati ottenuti anche dalle nazionali di altri sport, come la disciplina principe del paese, la pallamano (argento Olimpico a Pechino 2008), oppure quella di calcio (arrivata fino ai quarti di finale degli Europei della scorsa estate, dopo aver eliminato perfino l’Inghilterra), hanno dimostrato come, anche senza grandi fenomeni, un’isola di ghiacci e vulcani dispersa nel mezzo dell’Atlantico e con meno abitanti di Bologna può arrivare a dire la sua, grazie a doti come la compattezza e la voglia di non mollare mai. La domanda ora è: potranno mai fare il salto di qualità e riuscire a produrre anche dei grandi giocatori? Per quanto riguarda il basket, la risposta potrebbe sorprendentemente anche essere positiva.

Un mese fa, agli Europei under 20 tenutisi a Creta, un ragazzone islandese di 2.15 mt ha fatto strabuzzare gli occhi a tutti. All’inizio della manifestazione in pochi sapevano chi fosse realmente, e anche tra quei pochi che lo conoscevano quasi nessuno l’aveva mai visto giocare. I più veloci a scoprirlo erano stati i freschi campioni di Spagna del Valencia, che solo un mese prima avevano firmato con un contratto pluriennale, tra la sorpresa generale, questo 19enne che aveva giocato gli ultimi tre anni in patria con il Thor Akureyri. Otto giorni più tardi, alla fine degli Europei under 20, la sorpresa aveva lasciato spazio allo stupore e Tryggvi Snaer Hlinason -che nel frattempo aveva terminato come settimo marcatore, terzo rimbalzista, primo stoppatore, primo in valutazione, era entrato nel quintetto ideale del torneo e aveva trascinato la sua Islanda fino al quarto di finale contro Israele- era sulla bocca di tutti.

La cosa che però stupisce di più a riguardo di Hlinason, più ancora delle sue statistiche su un palcoscenico e ad un livello che in precedenza non aveva mai neanche assaggiato in vita sua, è che sia venuto fuori praticamente dal nulla. 40 mesi prima di firmare con i campioni della Liga ACB e di stupire mezza Europa, Tryggvi non aveva mai neanche visto una palla da basket in vita sua. D’altronde non è neanche semplice riuscire a praticare uno sport quando vivi, assieme ad altre 10 persone, in una fattoria dispersa nei campi fuori da Thingeyjarsveit, villaggio di 900 anime posto su un falsopiano a 400 metri di altezza nel nord del paese. Se pure il negozio di alimentari più vicino è a un’ora di macchina da casa tua, viene difficile trovare un posto dove poter dare sfogo a qualsiasi tipo di talento sportivo. In una bella intervista a Espn.com, anche Jon Stefansson ha provato a spiegare quanto sia difficile vivere in un posto del genere: “È una situazione che non si può spiegare ad una persona che non vive in Islanda, perché non riuscirebbe a capire. Quando il tempo diventa rigido, non puoi neppure raggiungere quell’area o provare ad andartene. Sei semplicemente bloccato lassù”.

Ci sono volte infatti in cui la fattoria di Hlinason e famiglia rimane isolata anche per settimane di fila, dispersa là in mezzo alla neve. Rimane comprensibile quindi il motivo per cui Tryggvi non abbia mai toccato un pallone fino a 16 anni, e anche il suo primo approccio con il basket è stato abbastanza casuale. Mandato dalla famiglia al liceo di Akureyri (la più grande città islandese al di fuori dell’area di Reykjavik, per quanto possa ritenersi grande una città di 18mila abitanti) in modo da studiare materie pratiche, principalmente come elettricista, per poter poi tornare a lavorare alla fattoria, Hlinason si trova a dover cercare un modo per mantenersi in forma lontano dalle fatiche e dagli sforzi che lo occupavano normalmente nei campi o nelle stalle delle pecore. Facendo due rapidi conti, decide di lasciar perdere il calcio e la pallamano, i due maggiori sport nazionali, per provare invece con il basket. Il primo giorno, senza neanche possedere un paio di scarpe da basket, Tryggvi esce per recarsi all’allenamento ma si perde nella “metropoli” Akureyri cercando la palestra. Ad un ragazzo arrivato da una fattoria isolata nel nulla, una città del genere può apparire tentacolare. A venire a recuperarlo è quindi Bjarki Oddsson, l’allenatore della squadra under 17 del Thor Akureyri, che quando se lo trova davanti rimane a bocca spalancata. Di fronte infatti si ritrova un corpo infinito, vicino ai 2.10 mt ma accompagnato da un fisico robusto, forgiato dalle ore di lavoro in fattoria. La coordinazione è un po’ da sgrezzare ma, su richiesta del suo coach, Hlinason salta e schiaccia come ridere.

È un diamante grezzo, il suo unico limite è il cielo” dice oggi Stefansson, e pressappoco la stessa cosa deve aver pensato Oddsson al tempo. Il coach e il suo vice decidono di partite alla volta della fattoria di famiglia per convincere il padre a lasciarlo con loro e farlo diventare un giocatore di basket, spiegandogli che potrebbe cambiare la vita di Tryggvi. La scena dell’incontro è surreale, con i due che non riescono neppure a raggiungere la fattoria isolata, impiantandosi nella neve fresca a 10 km di distanza, e vengono raggiunti dal padre in motoslitta, tenendo la riunione in mezzo alla pianura innevata. Alla fine i due riescono nel loro obiettivo e lavorano per poter far incontrare Hlinason con Einar Johansson, l’allenatore della nazionale under 18. Prima di ciò, però, bisogna partire dalle fondamenta e spiegare al ragazzo persino le regole del gioco, perché non ha mai visto neppure una partita in vita sua. Ma Tryggvi impara alla velocità della luce. Un anno e mezzo dopo è già in nazionale under 18, un anno più tardi partecipa agli Europei under 20 di division B, dove trascina l’Islanda alla promozione in division A. Pure la nazionale maggiore lo chiama per le qualificazioni ad Eurobasket. È lì che Stefansson lo conosce e rimane stregato: “Visto dal vivo era ancora più grande di quanto pensassi. Sono rimasto stupito perché in carriera ho visto un sacco di lunghi buoni, talentuosi, ma lui è speciale. Ha una gran base di partenza nel suo fisico, in più il suo background lo aiuta: è umile, con i piedi per terra, lavora duro, credo che aver passato tutta la vita a lavorare in quella fattoria l’abbiano reso una persona più forte”.

Nonostante il lavoro e l’allenamento svolto fin qui, le doti di giocatore di Hlinason non sono ancora completamente sgrezzate, come è normale che sia. Le mani sono ancora da affinare, la conoscenza del gioco da completare, l’esperienza quasi tutta da costruire. Ma il fisico è di quelli categoria quattro stelle lusso, e rapidità e mobilità sono sorprendenti per un giocatore di quell’altezza e quella forza fisica. Nell’ultima stagione in patria con il Thor Akureyri ha messo insieme 11.6 punti e 8.0 rimbalzi di media. Ora, dopo soli tre anni e mezzo dalla prima volta che ha preso una palla da basket in mano, ha dominato un’Europeo contro i suoi pari età, ha firmato con una squadra di Eurolega, ha addosso gli occhi degli scout di mezza NBA ed è pronto a fare il suo debutto anche nell’Eurobasket dei grandi. Forse anche l’Islanda ora è pronta a sfornare grandi giocatori, con la particolarità tutta sua di farli sbucare da una fattoria sommersa dalla neve in mezzo al nulla.

(Calendario Islanda 31/8 vs Grecia, 2/9 vs Polonia, 3/9 vs Francia 5/9 vs Slovenia, 6/9 vs Finlandia)

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About Author

Mario Castelli

Classe (poca) 1988, saronnese, ex giocatore. Ma molto più ex che giocatore. Non so scrivere presentazioni, anzi non so scrivere e stop. Mi domando da tempo perchè i video dei Kings del 2002 e degli Spurs del 2014 non si trovino su Youporn, ma non riesco a darmi risposte. Vivo per guardare partite, guardo partite per poter mangiare e mangio per vivere. Ma anche vivo per mangiare, mangio mentre guardo partite e guardo partite per guadagnarmi da vivere. Maledetti circoli viziosi.

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