Abbandonare una casa è un lutto o può diventarlo. Alcune case respirano, sono persone. I muri ti ascoltano e sostengono, il soffitto proietta i pensieri. Poche settimane fa ho salutato la casa di famiglia, quella che mai avrei pensato di chiudere per non tornarci. Ci son luoghi che generano ricordi per poi custodirli, consegnarli a chi verrà dopo e sceglierà se ignorarli o accoglierne l’anima. Sono state giornate tristi e struggenti e proprio nel mezzo di un pomeriggio qualunque di quel lungo addio ho letto che John Havlicek, che Hondo non c’era più.

In tempi come questi in il cordoglio in rete è quasi un obbligo formale, ho subito cercato una foto di Hondo cui appiccicare le mie parole di circostanza. Ne ho trovata una che ricordavo bene, con ogni probabilità scattata poco prima di un tiro libero.

La maglia verde, le spalle larghe, il volto concentrato e quel numero 17 che ora penzola dal soffitto del TD Garden e che Hondo ha indossato per 1442 partite, un numero di maglie che se le metti tutte insieme, una sull’altra ci puoi costruire una casa.

Hondo è stato una casa, una certezza, un uomo dalle pareti solide.

Hondo ha generato ricordi, costruito la memoria di almeno tre generazioni di tifosi e stabilito una linea diretta, aperto un conto corrente emotivo con molti di noi, una bilancia che pendeva sempre dalla sua parte.

John Joseph Havlicek era un figlio dell’Ohio contadino e della terra mangiata dall’acciaio, figlio di immigrati cecoslovacchi in cerca del sogno, orgogliosi del loro general store e di quel figlio amato da tutti. Figlio, padre di famiglia, compagno di squadra ideale. Bill Russell ha scritto che veder morire le persone con cui ha riso, pianto e vinto è molto difficile ma che nel caso di Hondo la cosa diventa davvero insopportabile, perché quel ragazzoè stato la sua famiglia. Lo stesso Russell che tanti anni prima lo definì il miglior all around player della lega, il migliore e il primo a dire la verità. Ci vuole intelligenza e amore per il gioco per rinunciare ai riflettori, ce ne vuole ancora di più per riprenderseli con il sacrificio, con la corsa e la dedizione. Hondo ha passato gli ultimi istanti della sua vita formidabile in Florida, lontano dalle estati calde e secche di Martins Ferry, un paese di seimila anime che ha prodotto eccellenti giocatori di football, baseball e basket ma anche un meteorologo di fama nazionale e un Premio Pulitzer. L’America è così, il talento a volte nasce lontano dai riflettori, nell’angolo meno in vista dello schermo e dopo percorsi misteriosi si svela, esplode. Nel 1973 io nascevo e Hondo si avvicinava alla fine di una carriera così vincente che a raccontarla tutta ci vorrebbero centinaia di pagine, troppo tempo anche solo per elencare i successi. Dopo quell’anno vinse altri due titoli NBA ma se leggesse questa frase, se potesse farlo la prenderebbe male perché per Hondo in campo i verbi si coniugavano al plurale. I Celtics vinsero anche nel 1974 e nel 1976, gli ultimi due titoli di un’epoca irripetibile, di una squadra scolpita nel granito, impossibile da dimenticare. La squadra di Russell e di Cousy, che vincevano ma non si capivano, separati dal grande dramma silenzioso del razzismo subìto da Russell e mai condannato da Cousy. La squadra di quella grande anima che fu Red Auerbach, allenatore e padre, il capofamiglia che di Hondo disse: “Dovessi disegnare un figlio, inventarmelo, lo vorrei come John Havlicek”.

dal Washington Post

Certo era un altro basket, certo era un altro gioco, ma 8 resta un numero impressionante e in ogni anello Hondo mise il suo cesello, la firma di un giocatore così moderno e intelligente da sacrificarsi per costruire la gloria del gruppo.

Su Hondo sono state scritte pagine di leggende, una delle più divertenti porta la firma e la voce di un altro Red, coach Holzman che dalla panchina dei Knicks lo definì una dinamo umana.

Ala piccola di un metro e novantasei, talento atletico enorme che lo fece scegliere sia dalla NFL che dall’NBA, Hondo amò entrare e uscire dal cono d’ombra per stupire tutti.

Secondo violino di Lucas a Ohio State, terzo d’orchestra nelle sue prime esperienze ai Celtics, Hondo scelse sempre di considerare il grande disegno e non la gloria del momento.

8 finali giocate, 8 finali vinte e in tempi in cui tutti straparlano di Goat, di dominatori del gioco e di stelle polari, fa sorridere che nomi come quello di Hondo, di West, di Chamberlain e Russell vengano sistematicamente relegati alla coda delle classifiche, preceduti da santini costruiti in fretta e furia tra social e dichiarazioni roboanti.

Hondo faceva palare il campo, tanto che la cosa che tutti ricordiamo di lui l’ha strillata un altro, non ce l’ha consegnata la sua voce gentile e morbida ma quella di Johnny Most, commentatore storico dei Celtics.

Correva il 1965 e i Celtics giocavano la Finale di Conference contro i 76ers.

“Greer is putting the ball in play. He gets it out deep and Havlicek steals it! Over to Sam Jones! Havlicek stole the ball! It’s all over… It’s all over! Johnny Havlicek is being mobbed by the fans! It’s all over! Johnny Havlicek stole the ball!”

Il momento in cui Havlicek ruba la palla – Walter Iooss Jr./Sports Illustrated

Havlicek stole the ball, Havlicek ha rubato la palla, l’ha recuperata, l’ha riportata dalle linee nemiche. La più famosa radio call della storia dell’NBA.

Un attaccante fenomenale celebrato per un’intuizione difensiva, per un gesto di puro sacrificio e concentrazione. Siamo abituati male, consideriamo clutch solo chi esercita la propria professione in fase di attacco.

Errore.

Hondo è stato un clutchplayer diverso da tutti gli altri.

Miglior Sesto Uomo, miglior compagno di squadra, miglior difensore.

Il basket è uno sport intelligente, a volte si fatica a chiamarlo gioco.

Havlicek è un’immagine in bianco e nero che non si ferma mai, un algoritmo elegante che produce risultati e dati sconvolgenti solo se non lo guardi, se non lo capisci, se non entri nella testa di un ragazzo convinto che sport e lavoro non fossero due blocchi antitetici, che si potesse giocare seriamente.

da wptv.com

Il suo primo impatto con Boston fu terribile, detestava il rumore, la confusione e il ritmo della città, così diverso dai tempi dilatati di Martins Ferry. Guardava con curiosità e tristezza le persone chiuse e indaffarate, quel mondo alieno che lo fece diventare adulto ma non lo piegò.

Non cambiò la gentilezza, non diluì la determinazione e non rese meno buffo quel soprannome, Hondo, che John Havlicek doveva a un film di John Wayne.

Per tutti quelli che amano i Celtics Hondo è uno di casa, lo è stato.

Il campione dell’era di mezzo, quello che traghettò i Celtics dall’era di Russell quasi fino ai tempi di Bird, con un talento diverso ma con la stessa feroce dedizione. Ragazzi di campagna che han fatto grande la città più snob e fiera d’America.

Per quelli della mia generazione Hondo è stato un nome, una foto che non sbiadisce, tempo che non invecchia.

Il 25 aprile Hondo ci ha lasciati, quella sera i Clippers hanno giocato la quinta partita della loro serie contro Golden State.

Jerry West era seduto al suo posto quando sul grande schermo dello Staples Center è partito un video tributo a John Havlicek. Jerry West è stato un eroe dei tempi di Hondo, giocatore simbolo dei Lakers e avversario di una vita di Havlicek, che West ha definito miglior ambasciatore del nostro sport.

da Slam

Mentre le squadre si scaldavano, West ha guardato in alto e ha subito distolto lo sguardo, commosso. Ci ha riprovato ma di nuovo ha chinato la testa e si è chiuso nei suoi pensieri, nei ricordi.

Quelli come Hondo costruiscono la memoria di tutti noi, ci fanno pensare a dove eravamo quando lui rubava palla, ci fanno pensare che sarebbe stato belle essere lì, anche se quel tempo è lontano e ci ha preceduti.

Ho chiuso la porta di casa e ho salutato Hondo.

Dire due volte addio può essere doloroso, troppo. Per questo ho scelto di dire arrivederci, il tempo è un giro di vento, prima o poi ritroverò le chiavi, prima o poi Hondo ruberà un’altra palla.

Mike Lawrie/Getty Images
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