“Dedico questa Final Four a mio padre, scomparso lo scorso dicembre”
A volte non ci pensiamo troppo quando uno sportivo pronuncia parole come queste in una sala stampa. Non sono rare, non sono originali. Sono semplici ma hanno il peso di un macigno che si smuove dalla bocca dello stomaco. Chissà se sarà stata questa la sensazione provata da Georgios Bartzokas a pochi minuti dalla clamorosa impresa coronata dal suo Lokomotiv Kuban circa 7 mesi fa: portare a Berlino un’outsider poco considerata ad inizio stagione e andarsi a giocare una Eurolega.
Mai come nel caso dell’allenatore greco, infatti, quella frase ha il senso di un legame viscerale, che affonda le radici nella storia recente di un popolo, di una famiglia, di una città. Quando l’attuale allenatore del Barcellona nasce, l’11 giugno 1965, suo padre non è nella sala parto a tenere la mano alla moglie che sta dando alla luce il suo primogenito. Non per sua volontà, o meglio, per non tradire mai le sua volontà: è rinchiuso in un carcere a Corfù.
Il suo crimine è quello di essere se stesso.
La Grecia degli anni Sessanta è un campo di guerra (fredda), gli Stati Uniti foraggiano l’impetuoso boom economico ellenico con il Piano Marshall ma l’Unione Sovietica, a sua volta, soffia forte sull’insurrezionalismo dei partiti di estrema sinistra. Un bel casino insomma, ma che c’entra tutto questo con la famiglia Bartzokas? Il KKE, il partito comunista greco, ha tra i suoi leader più “oltranzisti” un certo Andreas Bartzokas.
Se Georgios ha ereditato da papà due tratti caratteriali saranno stati sicuramente il senso di appartenenza ed il coraggio nel portare avanti le proprie idee. Idee per le quali papà Andrea ha messo in gioco la propria vita e pure la possibilità di conoscere suo figlio, con il quale si è potuto ricongiungere solo nel 1974, alla caduta della Dittatura dei colonnelli.
Coraggio, dicevamo. Coraggio, sportivamente parlando, è quello di dire basta quando, ancora 27enne, Bartzokas junior, ala non più promettente di un Maroussi che veleggia senza particolari ambizioni tra seconda e terza serie greca, decide di svestire i panni del giocatore e di indossare quelli dell’allenatore dopo una carriera breve e martoriata dagli infortuni. E decide di farlo partendo proprio dalla squadra del sobborgo di Atene nel quale è nato e dove ha scoperto la palla a spicchi: Maroussi, appunto.
Dal paesotto a nord di Atene non si vede il mare. Siamo una decina di chilometri oltre il colle del Partenone, nella sconfinata periferia ateniese dove i palazzoni popolari si susseguono uno di fila l’altro. Ma Georgios ha lo sguardo volto verso sud, verso il mare d’Attica, verso le navi che spruzzano schiuma bianca sulle banchine del Pireo. Quel Pireo al quale si è sentito legato sin da piccolo da un filo (bianco)rosso che lo ha portato da subito a sentirsi vicino ai colori dell’Olympiacos, nonostante a pochi isolati dalla casa natale sorga Oaka, il tempio degli acerrimi rivali del Panathinaikos.
Chissà se gli occhi con i quali nell’estate di quattro anni fa arrivò finalmente su quelle banchine erano gli stessi con i quali papà Andreas guardava lontano l’orizzonte, inspirando libertà a piene narici mentre cospirava nella sua cella a Vourla, il terribile carcere a due passi dal porto ateniese nel quale venivano rinchiusi i prigionieri politici. Eretto sul finire dell’Ottocento, Vourla era diventato il più grande bordello di Grecia, frequentato da marinai e scaricatori di porto prima che, negli anni ’30, il Governo decidesse di farne l’Alcatraz ellenica. Fu qui che finì nei primi anni Cinquanta anche Bartzokas senior, uno dei leader di quel Partito Comunista che, in piena guerra civile, era stato messo fuori legge.
Nel 1955 la guerra è appena finita, ma i comunisti, per i fragili governi filoamericani, stanno comunque meglio nelle patrie galere. Il KKE, da parte sua, non appoggia propositi di fuga dei propri adepti, ma il soffio di libertà che viene dal mare è troppo forte, Andreas inala a pieni polmoni e partorisce la pazza idea: evadere. Mesi e mesi a scavare un lungo tunnel sotterraneo e il 17 giugno il piano si compie: in 27 scappano da Vourla, anche se solo in 11 riescono a completare l’impresa, mentre gli altri vengono riacciuffati dalla polizia, mobilitata con ben 23 mila uomini. Quanto valgono le proprie idee, la propria identità, la propria libertà? Lo spiega Andreas in pochissime parole: “La prima cosa che abbiamo fatto una volta fuori da Vourla è stata andare in un bar e farci una birra ghiacciata tutti insieme”.
Una storia incredibile, che ha fatto la storia di un Paese e che ha ispirato il film “The Great Escape” con Steve McQueen e che Andreas ha raccontato nei dettagli pochi mesi prima di morire in un documentario (qui il link alla trascrizione della sua testimonianza: è in greco, ma con l’aiuto di Google Translate dovreste farcela).
La fuga dal Pireo era invece decisamente lontana nei piani di Georgios. Anche perché quando arriva al porto di Atene nel 2012 non lo fa certo in manette, ma anzi con tutti gli onori del caso: da allenatore della squadra di basket che adora e che è fresca campionessa d’Europa. È il compimento di un sogno, la chiusura di un cerchio aperto da papà 57 anni prima. Tutto troppo bello, ben più di una birra ghiacciata vista mare. Ma, si sa, tale padre, tale figlio: i propri valori al di sopra di ogni altra cosa. E così, il 10 ottobre 2014, Bartzokas lascia la panchina del team biancorosso dopo una bruciante sconfitta nel primo derby stagionale col Pana conclusosi così sul campo:
[Ci manchi Dimitris, ora e sempre]
Così fuori, con l’aggressione da parte di un gruppo di “tifosi” dell’Oly fuori da Oaka:
[Qui i supporters greci nel passaggio nel quale danno indicazioni sulla difesa match-up a Bartzokas]
E così sui social network:
How one person can destroy a CHAMPIONSHIP TEAM!! Heads up @olympiacosbc !! We have two more trophies to attack!! Trilos gia panta..
— Pero Antic (@antic12pero) 10 ottobre 2014
[Doveva averla presa bene Pero la scelta dell’anno prima di Bartzokas di non confermarlo]
“Credo di essere stato il primo allenatore nella storia dell’Olympiacos a dimettersi – racconta in una lunga intervista dello scorso anno da fresco neo coach del Lokomotiv Kuban – ma era in gioco la mia dignità. Qualsiasi cosa succede tra Pana e Oly non è una competizione, è una guerra. Metà della nazione ti odia, l’altra ti supporta. Ma quanto i miei fan si sono rivoltati contro di me ho semplicemente dovuto lasciare per rispetto di me stesso. Ho rescisso il contratto, nonostante potessi reclamare tanti soldi da lì a fine stagione. Ma per me i soldi non sono mai stati più importanti di ciò in cui credo”.
Non era e non è mai stata una questione di soldi per Georgios, esattamente come non lo era per suo padre. È questione di come si affrontano le avversità che la vita ti para davanti. Come a Larissa, nel 2009, quando sul finire del terzo anno sulla panchina dell’Olimpia esplosero i problemi economici. “Poche parole, potevo solo dare l’esempio – rivela in un’intervista al periodico spagnolo Gigantes del Basket – dissi ai ragazzi che chi voleva poteva andarsene, ma io sarei rimasto fino alla fine. Lasciare sarebbe stato più facile, però è nelle difficoltà che si genera il carattere. Mi sentivo obbligato nei confronti della società che mi aveva dato la prima opportunità di allenare in A1”.
È infatti propria a Larissa, dove approda nel 2006 dopo un triennio da vice di Giannakis a Maroussi nel quale aveva svezzato un tale di nome Vassilis Spanoulis, che si fa conoscere al mondo guidando una squadra di giovincelli di belle speranze (do you know Georgios Printezis?) alla prima qualificazione nei playoff di Esake della propria storia. Lo conoscono bene, invece, a Maroussi, dove nell’estate del 2009 ritorna entrando dalla porta principale prendendosi la panchina di head coach della squadra della sua cittadina, che si affaccia per la prima volta nella sua storia in Eurolega. E lo fa da underdog senza paura, come il suo condottiero: prima butta fuori Aris e Alba nel Qualifying Round, poi vola alle Top 16, fermandosi ad una tripla di Billy Keys a fil di sirena contro il Panathinaikos dalla clamorosa qualificazione ai quarti di finale a scapito del Partizan.
Il sussurro del destino chiama due estati dopo, quella seguente un biennio al Panionios dove si conferma Re Mida. L’amato Olympiacos gli affida una missione impossibile: pilotare la squadra fresca di titolo europeo ad un back-to-back che sarebbe ancora più clamoroso del successo firmato in calce dal beffardo semigancio di una delle sue creature: Giorgios Printezis.
In una sera di novembre di quella stagione 2012/2013 iniziata un po’ in sordina, il telefono di Bartzokas squilla. È un sms, sullo schermo appare il nome di Panagiotis Angelopoulos, il presidente dell’Oly. È alla O2 Arena di Londra per il concerto dei Rolling Stones. Anche il suo coach ne è fan, ma non gli sta scrivendo per quello: “A maggio saremo qui insieme a celebrare il titolo dell’Eurolega”.
A maggio, in effetti, i due a Londra ci arrivano. E non da spettatori.
L’Olympiacos si presenta alle Final Four da campione in carica ma ancora una volta con i gradi di mina vagante che parte dalle retrovie. In semifinale c’è un Cska che brama vendetta dopo la beffa di un anno prima firmata. No way: stavolta i biancorossi fanno ancora meglio, spingendo i russi sempre più giù nella maledizione spezzata solo la scorsa primavera. Tra Bartzokas e il tetto d’Europa c’è un Real che ha pennellato basket per tutta la stagione. E continua a farlo fino alla fine del primo quarto, quello in quale si abbatte come una mareggiata sulle spiagge basse di Paleo Falirou. Bartzokas sembra non trovare soluzioni per placare il ritmo infernale imposto da Llull e Fernandez e l’Oly si ritrova in un battibaleno sotto per 10-27 dopo 10’.
E poi? E poi l’oracolo… “Non ho conservato quel messaggio perché ho cambiato telefono – spiega Bartzokas – ma lo tengo nella mia testa. Allora, ovviamente non potevo sapere se quella profezia si sarebbe realizzata, ma mi è piaciuto molto l’atteggiamento che c’era dietro. Non lo dimenticherò mai”. Come difficilmente dimenticherà il secondo tempo di uno dei suoi allievi prediletti, Vassilis Spanoulis, nel secondo tempo di quella finale che lo porta in cima all’Olimpo del basket europeo:
La grande forza del Bartzokas allenatore è sicuramente la capacità di tirar fuori dal materiale umano a disposizione il massimo possibile, creando squadre capaci di tenerti a 52 punti un sera (come in quella semifinale contro il Cska) e di fartene 100 due giorni dopo (citofonare Real). L’Olympiacos del back-to-back non era offensivamente la squadra più scintillante d’Europa e non era neanche una saracinesca dietro (pur con mastini per attitudine e fisico come Kostas Papanikolau, Kyle Hines, Joey Dorsey ed Acie Law). Ma controllava sempre il ritmo ed era funzionale ai suoi punti di forza. Il principale, ovviamente, era Kill Bill. L’attacco dell’Oly Bartzokas edition si generava primariamente mettendo in ritmo il suo creatore di gioco, armandolo nella situazione che gli è più congeniale: il pick’n’roll centrale dinamico. Con vicino lunghi come Powell, Printezis, Dorsey (e Shermadini, ad onor di cronaca) a rollare dentro o Antic ad aprirsi per il tiro da 3: fare una scelta netta per la difesa avversaria diventava complicatuccio.
Copia e incolla nello sbarco al Lokomotiv Kuban? Manco per sogno. Il grande e grosso Olympiacos lascia strada al leggero e versatile Loko, dove si gioca sì a ritmo basso ma si aggredisce tutti i portatori di palla e si cambia sempre su tutti i blocchi. Ne escono esaltate le qualità di lettura delle situazioni di Delaney, che diventa lo Spanoulis di Krasnodar tanto nel saper inventare per sé quanto nell’armare i vari Janning e Broekhoff. Ma anche le collaborazioni tra i tre lunghi, Claver, Singleton e Randolph: tutti esterni adattati al gioco interno, tutti capaci di giocare dentro e fuori, fino all’estremo di giocarsi il pick’n’roll tra di loro per tirar fuori il pivottone di turno. Chiedete a Tomic e Samuels se è piacevole inseguire fuori dall’arco “Il Puma”, l’ultimo dei tanti giocatori cui Bartzokas ha plasmato un talento ancora informe:
Alle Final Four di Berlino, però, dopo quella incredibile serie di quarti di finale contro il Barcellona, il Lokomotiv non è riuscito a ricalcare le orme di quell’Oly. Anche se stavolta sarebbe stato giusto inneggiare al miracolo. “Ad essere sincero, sono stanco di questa idea tutta europea per la quale se vinci sei dio ma se perdi sei una nullità. Guardate cosa succede nel mondo ogni giorno: c’è gente che combatte l’una contro l’altra, non ha niente di cui vivere e niente da mangiare, nazioni intere vanno in disgrazia. Il basket dovrebbe darci due ore per dimenticare tutto questo ed essere ispirati a ricominciare tutto daccapo una volta a casa. Sì, sono un professionista e sono responsabile per i risultati che ottengo. Ed è certamente importante. Ma non dobbiamo dimenticarci che tutto questo lo facciamo per due ore di intrattenimento per i nostri fan”.
La libertà di essere ciò per cui si è al mondo è un atto semplice come bere una birra ghiacciata in un bar del Pireo. O sulla panchina della tua squadra del cuore.