Il draft 2016 è riconosciuto da chi ne sa (non noi) come uno dei più interessanti degli ultimi anni per quantità di talento e numero di potenziali giocatori di alto livello in un futuro prossimo. Il dualismo in fasce Simmons-Ingram, sensation collegiali come Buddy Hield, l’ondata di giocatori internationals con Dragan Bender in testa… Ecco due dritte sulle nuove star che si preparano a prendersi la Lega.

 

Lo strano caso di Benjamin Simmons

2016 NBA Rookie Photo Shoot

Ben Simmons è nato a Melbourne da madre australiana e padre americano: quest’ultimo di lavoro faceva l’All Star nella National Basketball League australiana. È stato lui a spingere Ben alla pratica sportiva fin da giovanissimo: rugby, pallacanestro e pure aussie rules football, lo sport nazionale australiano che, come potete immaginare, raggiunge picchi d’ignoranza paragonabili solo a quelli del calcio gaelico.

Dopo un’ardua scelta tra gli ultimi due, Simmons ha infine puntato sulla pallacanestro, fortunatamente per i fan di Philadelphia. Salvo imprevisti, infatti, Ben ha tutte le doti per diventare la pietra angolare dei 76ers post-Hinkie: atleta straordinario, possiede un’eccezionale visione di gioco, un ottimo ball-handling ed è devastante nelle situazioni di isolamento. Racchiudendo queste abilità in un involucro di 210 centimetri scarsi e il peso di 108 chilogrammi, e considerando che tutti gli indizi portano a pensare che giocherà da point guard, otteniamo il primo esemplare di una nuova generazione di trattatori di palla, che coniuga strapotere fisica, velocità di mani e occhio per l’uomo libero. Roba da avere i brividi.

Non mancano, tuttavia, i dubbi, perché il suo gioco è ancora manchevole dal punto di vista mentale. In primis la poca fiducia nel tiro da fuori: “Just shoot!” gli urlava a ripetizione l’assistant coach dei 76ers Lloyd Pierre durante la Summer League. Anche perché se tira poi canestro lo fa anche:

Poi ci sarebbero i cali d’intensità in difesa (specie nella marcatura off ball) e generalmente una competitività spesso messa in dubbio anche per il fatto di non essere riuscito a fare della modesta Louisiana State una squadra da torneo Ncaa. Dimenticando, però, il fatto che Ben è stato l’ultimo giocatore negli ultimi vent’anni, tra quelli dei college di Division I, a timbrare una partita da almeno 40 punti, 10 rimbalzi, 5 assist e 5 recuperi: quella da 43+14+7+5 contro North Florida:

Altra cosa che ci si dimentica spesso è che parliamo di ragazzi di vent’anni (scarsi, nel caso specifico), che a volte non hanno ancora nemmeno finito di aggiungere peli in faccia. Non gli manca un atteggiamento talvolta arrogante, al punto da contrariare persino il mite Tracy McGrady: pare abbia qualche modo mancato di rispetto a lui e a suo cugino, uno sconosciuto dal nome di Vince Carter, durante una partita delle Finals.

Sembra aver accettato senza remore il suo ruolo di Chosen One, scegliendo di farsi rappresentare dallo stesso agente di Lebron James, cui persino Shaq (con il quale condivide l’alma mater) lo ha paragonato. Ha suscitato anche qualche critica la sua scelta di non unirsi all’avventura dei Boomers alle Olimpiadi di quest’anno, dove avrebbe potuto davvero essere un fattore chiave (brutto un quintetto “small” con Delly, Mills, Ingles, Simmons e Bogut?), per la legittima motivazione di volersi dedicare completamente alla preparazione per il suo anno da matricola.

Tutto questo e, forse, anche una sana dose di invidia – la sua maglia numero 25 è già nella top 10 delle canotte NBA più vendute – lo hanno reso inviso ai suoi colleghi rookie, che lo hanno votato solo terzo nelle previsioni di Rookie Of The Year e quarto in quelle di Best Career. “Haters Gonna Hate”, per quanto possa suonare stonato se riferito alla superstar designata della franchigia della città dell’Amore Fraterno. Sicuro è che Simmons regalerà sensazioni che non provavamo dai tempi di Penny Hardaway, ben condite dal grande atletismo che caratterizza la moderna Nba e ad una capacità polarizzante (quasi) degna di Lebron.

 

I Lakers vanno All-In(gram)

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Brandon Ingram ha visto la luce a Kinston, North Carolina, cittadina di 20.000 abitanti che ha dato i natali anche Charles Shackleford, idolo dell’anno dello scudetto in quel di Caserta. Il padre, Donald, in gioventù era un bel prospetto delle leghe semiprofessionistiche, ma come spesso accade la vita lo portò su un’altra strada e si ritrovò a fare prima il poliziotto e poi l’operaio. Non mancò, tuttavia, di frequentare i playground locali, e qui fece amicizia con un ragazzotto del luogo che si divertiva a giocare con gente più grande di lui: tale Jerry Stackhouse.

Crescere sotto la tutela cestistica di un padre appassionato e di una terza scelta al Draft ha sicuramente fatto bene al buon Brandon, che come Jerry ha una spiccata attitudine realizzativa. Ma quello che forse intriga di più sono le similitudini con Kevin Durant, il quale ha dichiarato che “Guardare Ingram è come guardarsi allo specchio”.

Le comparisons in questi casi ovviamente sono da evitare come il libro di Matteo Salvini in libreria, ma i Lakers sperano ardentemente che KD abbia ragione e di aver pescato da Duke il prossimo grande scorer, magari quello che possa contendere allo stesso Durant il titolo di capocannoniere.

Quel momento però andrà atteso con pazienza, perché per adesso la più grande similitudine tra i due è la corporatura: Ingram è molto magro, con gambe sottili e braccia lunghe, e c’è quindi il timore che soffra, soprattutto dal punto di vista della fisicità, il salto in Nba. Se già ora è in grado di mettere in difficoltà le difese avversarie, con un ball-handling da guardia, una grande abilità di crearsi tiri e un’ottima agilità e fluidità di movimento, possiamo solo immaginare che livelli potrà raggiungere una volta sviluppata una buona massa muscolare nella parte superiore del corpo e dopo aver lavorato bene sull’esplosività. Ricordiamo anche che, essendo cresciuto ben 8 centimetri in un paio d’anni, c’è la possibilità che cresca ancora in altezza.
In questa prima parte di stagione potrebbe essergli preferito il veterano Luol Deng – che in termini di gioco fisico potrà sicuramente dargli qualche consiglio utile – ma non c’è alcun dubbio che gli stia soltanto tenendo caldo il posto da titolare in modo che possa lavorare con calma sul suo fisico e sul suo gioco.

Potrà essere il degno erede di Bryant? No. L’unicità di Kobe lo proibisce. Però è decisamente il grande investimento dei Lakers. Sulle spalle di Ingram peserà la tradizione di una franchigia che ha sempre vinto tanto e che vuole tornare presto alle antiche abitudini, con Julius Randle e D’Angelo Russell – che si spera abbia buttato il cellulare – a fargli da scudieri in questa difficoltosa missione.

Un aspetto spesso sottovalutato è la sua grande etica del lavoro: Brandon è un tipo abbastanza silenzioso, quasi timido, che preferisce più allenarsi che dedicarsi alla vita mondana: questo sarà un fattore chiave in una città piena di distrazioni come Los Angeles (Swaggy P, lascialo stare eh), e potrebbe davvero permettergli di migliorare i suoi punti deboli e diventare la stella della squadra.

 

“Doc” Brown

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Se tutto andrà come deve, ammireremo anche le schiacciate di Jaylen Brown allo Slam Dunk Contest 2017. E sicuramente ci delizierà con qualche chicca in contropiede durante la regular season, ma la scelta numero tre dei Boston Celtics è decisamente un progetto da valutare sul medio-lungo periodo.

Figlio più giovane del boxeur Marselles Brown, un veterano recentemente tornato dal ritiro per vincere il titolo WBU, è un tipo decisamente lontano dagli standard del ghetto: molto introverso e studioso, era capitano della squadra di scacchi alle medie, suona la chitarra acustica e ha impressionato i professori del College con la sua curiosità accademica. Non è un unicum nella storia della lega: ricordo infatti un giovane dinoccolato che suonava il violino, leggeva molto e sognava di diventare medico – Pau Gasol. “Ogni volta che si deve prendere una decisione, bisogna assicurarsi di avere il tempo adeguato per valutare tutto da cima a fondo ed essere certi di fare quella giusta”. Parole sagge, soprattutto se proferite da un diciannovenne appena entrato nella lega dominata da animi impetuosi e avventati: Brown dimostra di essere un ragazzo maturo per la sua età e dotato di una grande personalità – fa specie che abbia dichiarato di essere contento di essere stato draftato a Boston perché vicina ad Harvard – e probabilmente ha fatto la scelta giusta dichiarandosi eleggibile al draft già quest’anno.

Ma lui è stato la scelta giusta per i Celtics?

[Jimmy Butler approved]

Le sue grandi doti atletiche, se ben incanalate, possono trasformarlo in un giocatore estremamente completo in entrambi i lati del campo. Il suo talento, seppur grezzo, è indubbio, ma dovrà essere coltivato con la stessa cura di un pomodoro pregiato. Fa ben sperare il fatto che Boston per i giovani sia l’equivalente di Pachino per i pomodori, vista lo spazio e la cura che coach Stevens dedica ai suoi giovani talenti.

Ha anche la fortuna di trovarsi due buoni compagni di reparto a fargli da mentore: Jay Crowder, un all-around in grado di dare il suo contributo in ogni zona del campo, e Gerald Green, spettacolare nelle schiacciate e letale nello scoring quando è nella serata giusta. Se riuscisse a implementare le giuste caratteristiche da ognuno, potrebbe essergli molto utile nel suo percorso di maturazione come giocatore.

Una cosa è certa: il bambino che ad un clinic gli ha detto “Ben Simmons è più bravo di te” avrà bisogno di psicanalisi dopo quel crossover. E magari potrà fornirgliela lo stesso Jaylen, viste le sue doti intellettuali.


[Lo farà anche ai grandi, non temete]

 

Non quel Bender

Phoenix Suns v Portland Trail Blazers

Il draft 2016 è, ad ora, quello che più si è avvicinato ad una inversione di tendenza che avrebbe del clamoroso: il sorpasso del resto del mondo sugli Usa per numero di scelte selezionate. Quest’anno siamo arrivati a 28, 16 delle quali europee, ed il trend è ben chiaro:

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A capitanare la truppa, quest’anno, è Dragan Bender. Nei mesi precedenti il draft, praticamente tutti i siti specializzati lo davano come lottery pick di primissimo livello, subito alle spalle del duo Simmons-Ingram. Non siamo più negli anni ’70, un sette piedi con quella mano, quella mobilità, quel talento non passano certo inosservati. Eppure, moltissime delle maggiori testate sportive americane usavano la parola mystery al fianco del nome del ragazzone scelto alla numero 4 dai Phoenix Suns.

Mini rassegna stampa:

  • 7’1″ Dragan Bender Is the 2016 NBA Draft’s Biggest Mystery”, Bleacher Report, 19 maggio 2016
  • The mystery of Dragan Bender”, Espn, 26 maggio 2016
  • Dragan Bender: What you need to know about the draft’s Croatian mystery man” – SB Nation, 22 giugno 2016.

Andate su Google e troverete titoli simili in abbondanza.

È legittimo avere dubbi, incertezze, titubanze e criticare di conseguenza, ci mancherebbe. Ma come si può, nel 2016, parlare di MYSTERY per un giocatore che ha già calcato i parquet di Eurolega e che ha impressionato in tutte le competizioni internazionali di categoria?

No, amici americani. Bender non è né l’erede di Jonathan l’Airone di Cristallo né (per fortuna e speriamo non lo diventi) un ubriacone vistosi affibbiare tale nomignolo in onore del robot di Futurama.

Dragan Bender è il vostro prossimo amore.

[Alla Summer League di Las Vegas si è presentato con il tipico movimento del pivottone di Promozione]

Ricordo di aver visto per la prima volta lo spilungone nato di Čapljina (cittadina bosniaca a due passi da Medjugorje, ma lasciamo stare invocazioni divine) ma trascinato di peso da Nikola Vujcic a Spalato nel 2014, seguendo gli Europei Under 18 in Turchia. Era con la Croazia di Ante Zizic e Nik Slavica, Marko Arapovic e Lovro Mazalin. E Ivica Zubac (altro bosniaco saccheggiato dai croati…) a casa in pantofole. Insomma, il talento non mancava di certo. Avevo letto ottime referenze su questo prospetto che ha impresso col fuoco il marchio di garanzia della ex Jugoplastika e alla seconda giornata della manifestazione c’è la sfida alla Lituania di Domantas Sabonis. Aspettavo in primis il figlio del Principe del Baltico, che aveva già fatto capolino nelle rotazioni di Malaga anche in Eurolega. Ma Bender aveva altre idee: 34 punti, 13/19 dal campo, 14 rimbalzi e Sabonis tenuto a 2 punti con 1/8 dal campo. Un’iradiddio.

[Quel coast to coast al minuto 2:43 mi fa dimenticare anche la colonna sonora del video]

C’è già tutto in quella prestazione: le mani dolcissime, la fluidità con la quale corre il campo, la visione di gioco. Ma se fino ad allora era considerato “soft” (cit.), la prestazione stampata in faccia ad uno che soft non lo è di certo fu il salto di qualità ulteriore.

Ciò che non si vede nel video di cui sopra sono l’attitudine e la mobilità difensiva del nostro. Rapidità di piedi, leve lunghissime e capacità di leggere il gioco con un secondo di anticipo, tipica dei grandi campioni, possono essere un mix mortale. Per gli avversari. Chiedere all’ex sassarese MarQuez Haynes:

[Quando Bender salva sulla sirena in quella maniera il Maccabi, ha sulle spalle appena 60’ complessivi giocati in Eurolega]

 

Buddy & buddies

Entriamo nel campo degli azzardi.

Partiamo da Kris Dunn, nuovo innesto dei Timberwolves. Un ragazzo cresciuto senza padre, con la madre a fare dentro e fuori dalla galera e con lui e suo fratello costretti a procacciarsi da vivere giocando a dadi e sfidando gente poco raccomandabile nei campetti del Connecticut. Ecco, qua di scacchi nemmeno l’ombra. Per i suoi colleghi, nel tradizionale sondaggio tra i rookie di inizio stagione, il prodotto di Michigan State sarà miglior giocatore, miglior playmaker, miglior difensore e giocatore più divertente da vedere. Gli ultimi a dominare così in un rookie survey furono Blake Griffin e John Wall, per dire.

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Buone doti realizzative e tanta fantasia, grande potenza e rapidità, sarà sicuramente a suo agio in un sistema giovane e veloce come quello dei Wolves, e avrà Ricky Rubio a fargli da mentore – speriamo non per quanto riguarda il tiro, che è un aspetto da migliorare. Al suo debutto in Summer League ha realizzato 24 punti, 7 rimbalzi, 3 assist e 2 stoppate: seppur il livello della competizione sia pari a quello di un Csi uberatletico, sono cifre che danno l’idea del potenziale del ragazzo.

 

Chavano Hield in arte Buddy, è uno degli outsiders che può seriamente contendere a Simmons il titolo di Rookie Of The Year. Poco considerato fino alla scorsa stagione, è esploso durante la March Madness, dove ha trascinato i mediocri Sooners di Oklahoma alle Final Four a suon di trentelli: prendetevi sette minuti per dare un’occhiata ai 46 punti che ha fatto piovere sulla ben più quotata Kansas lo scorso anno.

Parliamo di una guardia dal tiro mortifero che potrebbe ritrovarsi a giocare tanti minuti a causa dell’assenza forzata di Jrue Holiday e che può dare un gran contributo già da subito. Il suo punto forte è sicuramente la sua personalità, che potremmo definire in quello che è un po’ diventato il suo mantra: quel Hey Mon, don’t worry be happy condito da un sorriso a trentadue denti.

NBA: NBA Draft

Un sorriso contagioso, che non lo abbandonava nemmeno quando da bambino era costretto a vivere sul pavimento della casa che condivideva con madre e sei fratelli. Sorridere e lavorare, non necessariamente in questo ordine. Sono le lezioni che porterà con sé a New Orleans.

 

Niente slums né genitori in galera a casa di Jamal Murray, nuovo compare del Gallo a Denver. Solo tanto kung-fu: come raccontato in un insolita confessione a The Players’ Tribune, papà Murray era fan sfegatato di Bruce Lee e delle arti marziali e questo ha influenzato anche il modo di allenare il piccolo Jamal, costretto a bizzarri esercizi di tiro bendato. Risultati? Secondo freshman più prolifico della storia della Ncaa al tiro da tre (113 triple segnate, 9 in meno del recordman Steph Curry…), grande versatilità (può giocare sia da play che da guardia), oltre alle sue grandi abilità realizzative è dotato di una grande creatività, si tratti di orchestrare lo schema o di affrontare l’avversario in isolamento. Promette grandi cose, e di certo non gli manca l’ambizione: ha recentemente dichiarato che crede di essere il miglior prospetto del Draft, “Non per offendere qualcuno ma per tutto il lavoro che ho fatto e per la mia abilità di adattarmi a nuove situazioni”.

Subito è arrivata la risposta del già citato Buddy Hield, durante un Q&A con i tifosi in cui, stuzzicato sulla questione, ha replicato di essere un miglior giocatore di Murray, il tutto mentre sorseggiava del succo di mango (?) per intimidire.  Una rivalità in the making? Iniziamo a prendere i pop corn.

 

L’altro futuro Suns Marquese Chriss, invece, viene da tutt’altro sport: il football. Il giovane natio di Sacramento era una discreto prospetto, ma un giorno, verso i 14 anni, cade male e si rompe la clavicola. Mamma Shawntae sentenzia: “basta football, è troppo pericoloso. Gioca a basket, sei fatto per quello”. E Marquese esegue gli ordini, che una delle cose che più lo fanno apprezzare dagli allenatori: “Tu gli dici una cosa e lui la fa”, dice Nate Bjorkgren, assistant coach dei Suns. Vabbè, poi ci sarebbero i 208 centimetri di altezza e i 7 piedi abbondanti di apertura alare con una mobilità di piedi da guardia e tiro da fuori in evoluzione.

2016 NBA Rookie Photo Shoot

Un progetto tutto da costruire, se si pensa che gioca seriamente a basket da meno di un lustro, ma che ha fatto vedere grandi cose già nella passata stagione a Washington.

Mi sa che avevi ragione, mami.

[Le origini, però, non si dimenticano]

 

Anche Jakob Poeltl viene da uno sport lontano dal basket, ma decisamente diverso: la pallavolo. L’austriaco volante, infatti, è figlio di due ex Nazionali di volley e quello doveva essere anche il suo destino. Beata la mancanza di settori giovanili strutturati nei dintorni di Vienna, in questo caso. Ce n’era uno di basket e anche piuttosto valido, quello degli Arkadia Traiskirchen Lions, che occhio per il talento ce l’hanno sempre avuto, pur maneggiandone in quantità ridotta: è la stessa squadra che accolse un adolescente Nemanja Bjelica appena scartato dal Partizan Belgrado. “Provai per caso, ma mi innamorai subito del basket e non guardai più indietro”, ha raccontato di recente. Ma come ci arriva un ragazzo delle campagne austriache alla Nba?

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Nel radar dei college americani Jakob ci entra giocando un maestoso Europeo Under 18 Division B, quello 2013 di Strumica (Macedonia) chiuso a 15,3 punti e 12,8 rimbalzi di media. Ok, si giocava tipo contro Scozia e Lussemburgo, ma il dominio è stato così netto che l’università di Utah non ci ha messo molto a segnare il nome in agenda e portarselo a Salt Lake City l’anno seguente. Due anni con gli Utes e l’ultima stagione le cifre hanno detto 17,2+9,1. Somigliano a quelle di tre anni fa, no?

 

Ben diversa la storia di Thon Maker. Fuggito dal natio Sudan in tenera età per sfuggire alla guerra civile, l’intrigante prospetto scelto dai Bucks ha trascorso infanzia e adolescenza tra Uganda, Australia, Louisiana, Virginia e Ontario.

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Ha già destato scalpore per la decisione di saltare il college per dichiararsi subito il draft (Jennings e Mudiay insegnano), nonostante i 216 cm per appena 100 kg e la poca esperienza ad alti livelli lo rendano un oggetto difficilmente inquadrabile in ottica futura. Non c’è dubbio però che l’upside di Maker sia estremamente intrigante: giocatore molto intenso, dal grande atletismo, dal footwork discreto, gli capita anche di mettere qualche tripla con sufficiente spazio. Le sue caratteristiche si sposano perfettamente con la strategia adottata dai Bucks negli ultimi draft, ma ciò non toglie che probabilmente avrà un minutaggio limitato durante questa stagione per potersi adattare ai ritmi della Nba e sviluppare meglio il suo talento, ad oggi ancora abbastanza grezzo.

E poi attenzione a star collegiali come Denzel Valentine, che cerca spazio nei rivoluzionati Bulls post-Rose, e Caris LeVert, che può incidere da subito nella desolazione di casa Nets. O alla scommessa Skal Labissiere, un anno fa dato tra i top della classe ed invece scivolato nel corso dell’anno fino alla fine del primo giro con la prospettiva di coprire le spalle a Cousins in casa Kings. E la steal of the draft? We’ll see…

 

Il principino del Baltico

Ok, Domantas Sabonis si sarà pur preso quella ripassata di cui sopra da Bender, ma non è certo materiale da buttare. Anzi. Come tutti i “figlio di”, Domas si trova a fare i conti con la pressione di chi ha il mirino puntato addosso sin dall’infanzia. Togliamoci subito il pensiero: non è e non sarà mai papà Arvydas. Non ne ha la stazza, non ne ha la paradisiaca visione per il passaggio. Ma si vede lontano un miglio che la stirpe è nobilissima. Certo non direste la stessa cosa guardando i fratelli maggiori Tautvydas e Zygimantas (entrambi dispersi nelle minors spagnole), ma forse al terzo tentativo al Principe del Baltico e all’ex miss Lituania Ingrida Mikelionyte l’esperimento è (cestisticamente parlando) riuscito.

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Nato nel 1996 a Portland, dove papà stava tardivamente predicando la sua poetica pallacanestro, il Principino si forgia però a Malaga, dove Arvydas piazza le tende una volta chiusa la sua carriera nel 2005. Male non gli è andata, dato che parliamo di uno dei vivai più importanti d’Europa. Il materiale è buonissimo e l’Unicaja fiuta l’affare, offrendogli un triennale da 630 mila dollari l’anno nell’estate 2014. Domantas rifiuta l’offerta e va avanti, optando per l’esperienza al college in terra americana. Sceglie Gonzaga e la maestria di coach Mark Few per affinare qualità che si intravedono ma che vanno plasmate.

Quel che invece ha già innata è la capacità di alzare il rendimento quanto la posta in gioco sale. Esempio lampante quello della stagione appena conclusa, la sua seconda in Ncaa. Con l’infortunio del centrone polacco Karnowski, la stagione dei ragazzi di Spokane sembra destinata a finire ben prima delle Elite Eight raggiunte nel 2015. Ma, fiutato l’odore del sangue, il lituano si carica in spalla la squadra e la trascina di peso (bastano 17,6 punti e 11,8 rimbalzi di media?) al torneo. Dove si ferma solo alle Sweet Sixteen contro la zona di Syracuse, non senza stampare 19 punti e 17 rimbalzi. Ah, qualche giorno prima aveva fatto ammattire così Poeltl, l’austriaco di Utah scelto un paio di posizioni prima della sua numero 11 nell’ultimo draft, che lo aveva portato ad Orlando salvo poi deviare verso Oklahoma City nello scambio imbastito tra le due franchigie.

[Se quel tiro da tre inizia a metterlo con continuità… auguri]

Durezza mentale e capacità di aggiungere armi alla propria faretra anno dopo anno sono le chiavi con le quali guardare alla parabola tecnica di Sabonis. Che è sopraffino nel giocare di posizione, tanto per ricevere e giocarsi la palla dal post quanto per andare a rimbalzo. E fa entrambe le cose alla grande senza essere dotato dell’esplosività del classico centrone di colore o dell’apertura alare del Bender di turno. I 208 centimetri sono (teoricamente) pochini per fare a spallate nelle arene Nba, per cui senza un credibile gioco perimetrale (che attualmente è tutto da costruire) il rischio è che resti schiacciato nel limbo dei giocatori a metà: troppo poco fisico per giocare dentro, troppo lento e “spuntato” per giocare fuori. Alle Olimpiadi di Rio, con la maglia della Lituania, coach Kazlauskas l’ha voluto spesso in campo insieme a Valanciunas, col risultato che spesso finivano entrambi ad intasarsi l’area a vicenda e quindi a limitarsi. Il che, comunque, non gli ha per esempio impedito di salvare i suoi dalla rimonta furibonda del Brasile in questa maniera qua:

[Cojones ne abbiamo?]

Ma l’invasione degli international non si ferma a Dragan, Jakob e Domantas. Ci sono i fratelli spagnoli Hernangomez, Willy e Juancho, sulle tracce dei Gasol. C’è il croato Ivica Zubac, che proverà a ripercorrere le tracce di un altro grande centro slavo (seppur serbo) della storia dei Lakers come Vlade Divac. C’è il fenicotterone greco Giorgios Papagiannis, svezzato alla corte di Diamantidis. Ci sarebbero anche due star già affermate dalle nostre parti come Alex Abrines e Dario Saric, che non sono usciti dall’ultimo draft ma che si misureranno per la prima volta coi pro americani.

Uno sbarco in Normandia al contrario.

 

Chiudiamo con qualche curiosità sparsa:

  • Se, come pronosticano i suoi colleghi, vincesse Kris Dunn, i Timberwolves sarebbero la prima franchigia della storia ad avere in casa il Rookie of the Year per tre anni consecutivi.
  • Continua la sfida a suon di bigliettoni tra adidas e Nike per accaparrarsi i migliori testimonial. Nel draft di quest’anno l’hanno spuntata i tedeschi: in Top 10, sei atleti (Ingram, Brown, Bender, Dunn, Murray e Maker) saranno marchiati con le tre strisce e tre (Simmons, Hield e Chriss) con il baffone. Poi c’è Poeltl che, da buon austriaco, di ste cose se ne fotto e che, invece, pensa ad altro:

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  • DeAndre Bembry, scelto dagli Hawks alla 21, ha optato per la casacca numero 95 per il suo esordio tra i pro. Perché? Era l’anno di nascita di suo fratello Adrian, ucciso a colpi di pistola nei sobborghi di Charlotte appena 12 giorni prima del draft.
  • Joel Bolomboy, chiamata numero 50 degli Utah Jazz, sarà uno dei soli tre giocatori scelti negli ultimi cinque anni oltre la 50 a firmare un contratto garantito da almeno un milione di dollari. L’ucraino da Weber State ne riceverà 600 mila per il 2016/2017 e 905 mila nel 2017/2018, con 452 mila di questi garantiti.

 

Insomma, cari Kobe, Timmy e Kevin: noi ci si sta organizzando per non rimpiangervi troppo…

 

a cura di Marco Pagliariccio e Davide Romeo

La stupenda immagine di copertina, al solito, è stata realizzata da David Agapito

 

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Davide Romeo

Aspirante giurista, aspirante playmaker, la classe di Jerry West e il controllo palla di DJ Mbenga.

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