grafica di Isaiah Thomas di Paolo Mainini
articolo di Davide Romeo

 

 

 

Una delle tante particolarità del campionato NBA è l’estrema volatilità degli status sociali. Ad un giocatore basta una serie di partite ben giocate per diventare una sensation, così come basta una stagione ad alti livelli per essere etichettato come stella.

Allo stesso modo, tuttavia, è facile tornare ad essere another brick nel vastissimo wall di comparse che popolano il campionato più prestigioso del mondo cestistico: basta un infortunio di troppo, un cambio di allenatore, una serie di playoff persa, una trade.

Questo è quello che rischia di accadere ad Isaiah Thomas.

 

Antefatto

Finora la sua carriera ha seguito una narrativa impeccabile: scelto all’ultimissima chiamata del Draft 2011 dai Kings, si è guadagnato un posto da titolare grazie al proprio talento e alla propria determinazione; dopo essere stato nuovamente sottovalutato  durante il breve periodo ai Suns e scaricato dopo mezza stagione, ha guidato i Boston Celtics ad una delle migliori stagioni degli ultimi anni, in cui hanno vinto tanto e giocato una splendida pallacanestro. Tutto filava liscio, secondo i canoni della classica favola sportiva.

Isaiah ha trascinato i Celtics anche durante gli scorsi playoff, con la squadra che si è stretta attorno a lui dopo la scomparsa prematura della sorella, alla quale hanno dedicato le vittorie. Sono arrivati alle finali di conference contro una delle squadra favorite per il titolo, i Cleveland Cavaliers del King in persona: Lebron James, probabilmente il miglior giocatore degli ultimi quindici anni. Se c’è una cosa che i film ci hanno insegnato, è che in queste occasioni sono gli underdog ad avere sempre la meglio.

Chi più underdog dei Celtics? Una squadra di onesti mestieranti che vincono grazie al grande lavoro in difesa – leggasi impegno, garra, hustle – e ad una sapiente tattica basata sulle letture offensive e sull’ IQ cestistico, farina del sacco di coach Stevens. Una squadra col leader più underdog, appunto, presente al momento nella lega: un play nano di 175 cm, come quelli della serie B italiana, dotato del talento e della creatività per mettere in ritmo i compagni ed essere un scorer completo. Si trattasse di un film, trasmesso in una pigra domenica pomeriggio mentre si sonnecchia sul divano, potremmo già cambiare canale: il finale sembra già scritto. Ma la vita è molto più simile ai plot twist di Game Of Thrones che non ai finali dei film per famiglie della domenica pomeriggio, e tutto può andare a rotoli molto presto.

I Celtics perdono le prime due gare, Isaiah Thomas riporta un serio infortunio all’anca a metà di gara 2 che finisce 130-86 per i Cavs. Una faticosa vittoria di 3 punti in gara 3 ha salvato l’onore per la franchigia del Massachusetts, che avrebbe altrimenti subito uno sweep senza attenuanti. I Celtics, tuttavia, sembravano avere ancora fiducia nella loro point guard, visto che hanno scambiato la prima scelta al draft: in sostanza cedendo uno tra Markelle Fultz e Lonzo Ball, entrambi playmaker come IT, in cambio della terza scelta che sarebbe diventata Jayson Tatum.

Questo forse ha esaltato Thomas, che credeva – a ragione – di essere il pilastro della franchigia e dichiarò che i Celtics avrebbero dovuto presentarsi con un furgone portavalori quando inizieranno le trattative per il rinnovo del suo contratto. Non si tratta di un’iperbole di chi vi scrive, ma delle esatte parole usate dal giocatore, che riteneva di meritare il massimo salariale consentito una volta che fosse scaduto il suo contratto con i Celtics.

A questo punto il general manager Danny Ainge si deve essere chiesto se fosse disposto a dare 150 milioni in 5 anni ad un playmaker di 28 anni con grossi limiti difensivi di difficile correzione perché dovuti soprattutto al fisico, e con abilità offensive di livello alto ma non straordinario.

Che risposta si fosse dato il dirigente dei Celtics fu chiaro quando a fine estate Thomas fu spedito senza troppe cerimonie ai Cavs per Kyrie Irving, in un accordo che ha coinvolto anche Jae Crowder. Una mossa che Isaiah non si aspettava: di colpo si ritrovava nella squadra rivale, scambiato per il giocatore scelto al primo turno dello stesso Draft in cui lui era stato selezionato all’ultimo.


Cosa è andato storto?

Saltare il training camp, cambiare ambiente, cambiare tattiche non è mai facile.
È ancora più difficile se ad agosto non riesci ancora a correre e il tuo esordio arriva a gennaio;
Se l’ambiente in cui ti trasferisci ruota e vive in funzione degli umori di LeBron James;
Se passi dalla 5 out di Stephens, rodata e funzionante, in cui sei tu il direttore d’orchestra, ad un’identità tattica da definire in corso d’opera;
Se devi sopperire alla partenza di Irving, uno dei giocatori storici della franchigia, e sei un giocatore tecnicamente e fisicamente inferiore a lui;
Infine, se sei in scadenza di contratto, hai ventotto anni, ed è l’ultima chance per ricevere un contratto di una certa ingenza finanziaria – perché, banali moralità a parte, tutti vorrebbero avere la possibilità di sistemare economicamente sé stessi e i propri cari per più generazioni possibili. Queste sono le premesse con cui è iniziata la stagione di Thomas quest’anno. È facile giocare bene a pallacanestro in NBA con queste circostanze? Probabilmente no. Se a tutto ciò aggiungi delle incompatibilità tecniche e tattiche, la frittata è fatta.

Le ultime due stagioni ci hanno insegnato che Isaiah Thomas è un giocatore che ha bisogno di gestire tanti palloni per esprimersi al meglio, ma che non può non fare affidamento sui compagni sia in attacco che in difesa.

Può prendersi tanti tiri ed essere un realizzatore affidabile, ma preferisce il gioco a due alle situazioni di isolamento che spesso lo pongono in situazioni di mismatch. Va però detto che spesso è in grado di essere efficace anche in 1vs1 grazie al cambio di passo e all’abilità nel leggere la posizione del proprio marcatore. Queste caratteristiche tecniche rendevano difficile già in partenza il suo inserimento in un contesto come quello dei Cavaliers, dove i possessi offensivi sono dominati da due giocatori (James e Love) e sono giocati soprattutto in transizione oppure cercando di creare un tiro veloce sugli scarichi.

Il cavallo di battaglia di Thomas è sempre stato il pick & roll, grazie alla combinazione di pazienza nel gestire la palla e ad un ottimo primo passo che lo pone in grado di crearsi spazio per il jumper con molta facilità. Tuttavia, nonostante Cleveland abbia implementato più giochi di pick & roll dal suo ritorno, la mancanza di profondità di questi schemi (non si finalizzava quasi mai con il rollante), e la ridotta esplosività di Thomas hanno reso meno efficaci queste situazioni quando si affrontavano difese competenti.

Sul lato difensivo, per quanto Thomas sia certamente carente, è difficile attribuirgli grandi colpe. Cleveland era una delle peggiori difese anche senza Thomas, concedendo agli avversari 110 punti su 100 possessi, e se il playmaker ex Boston fa fatica di suo a difendere il pick & roll, non può certo far bene in una squadra che consente ai rollanti avversari di tirare con oltre il 60% dal campo.

Avere un giocatore che vuole (deve) gestire un gran numero di possessi ma non riesce a produrre efficacemente e non ha modo di far girare i compagni è un grosso minus per la squadra, ed è probabilmente la motivazione più grande che ha portato allo scambio di IT. Di certo non ha aiutato l’ambiente, rispetto agli scorsi anni ben meno coeso ed estremamente sotto pressione: a Cleveland servivano risultati per sperare di riuscire a trattenere Lebron, ed evidentemente non c’era nemmeno il tempo di aspettare per più di quindici giorni un giocatore che è stato fermo per dieci mesi. Già, dieci mesi: l’infortunio di Thomas, tecnicamente definito “conflitto femoro-acetabolare”, si verifica quando il femore, l’osso posto all’interno della coscia, non ha abbastanza spazio per muoversi all’interno del suo collegamento articolare col bacino, causando difficoltà nei movimenti con l’anca e dolore in tutta la zona.

Già di per sé abbastanza complesso, è stato ulteriormente aggravato dal fatto che Thomas avesse le cartilagini dell’anca piuttosto consumate e ci abbia giocato sopra per diverso tempo: una condizione dalla quale è difficile guarire a pieno, e che ha più volte posto fine a carriere illustri – Iverson, ad esempio, ai tempi del Besiktas non aveva più cartilagini all’interno del ginocchio.

Non risulta difficile comprendere come mai nelle prime gare dal suo ritorno in campo, abbia un po’ smarrito il suo caratteristico cambio di passo, e come ciò abbia influenzato negativamente la sua produzione offensiva.

Così Thomas ancora una volta si ritrova scambiato alla trade deadline, senza riuscire a terminare la prima stagione con una squadra dalla quale era stato appena ingaggiato: appena quindici gare disputate, una cifra inferiore anche a quelle giocate nel suo breve periodo a Phoenix. Gli innesti giunti nell’ultimo giorno di mercato, oltre che adatti a mantenere alcune delle qualità offensive di Thomas affidandole ad interpreti minori – George Hill è un grande regista offensivo con un solidissimo tiro da tre, Jordan Clarkson uno scorer in grado di crearsi il proprio tiro –  si integrano nella strategia di creare un roster più futuribile e competitivo nell’eventualità (ormai probabile) di un secondo addio di LeBron James. Si tratta di puro damage control, che ci fa intuire come tutta la strategia di mercato seguita dal front office, dalla cessione di Irving in poi, sia stata completamente sbagliata, e ora si stia cercando di correre ai ripari al fine mantenere intatte le speranze di contendere per il titolo.

 

Prospettive future

Con il suo contratto in scadenza quest’estate, appare abbastanza chiaro quale sia l’obiettivo di Thomas in questi ultimi due mesi di regular season: giocare il miglior basket possibile, recuperando lo smalto che non è riuscito a trovare nelle quindici gare disputate con i Cavaliers.

I Lakers hanno ancora una flebile speranza di strappare l’ottavo posto ad ovest, essendo in lizza con i Pelicans e i Clippers, squadre il cui assetto è ancora da verificare. La franchigia di New Orleans ha perso la propria stella – Cousins – per infortunio, mentre i “cugini” losangelini hanno rinnovato 4/5 del loro core storico nel giro di un anno e faticano a trovare costanza di risultati: ma i favoriti per quell’ottavo seed restano comunque gli Utah Jazz, al momento decimi, che stanno giocando un’ottima pallacanestro e non perdono da dieci partite.

A Thomas non sarà dunque chiesto di trascinare i Lakers ai playoff, ma di dimostrare di poter essere complementare a Lonzo Ball, l’indiscussa corner stone della franchigia. Tuttavia appare difficile che i Lakers abbiano interesse a rinnovare il contratto di Thomas a fine stagione, nè che al giocatore convenga legarsi a questo progetto: Magic Johnson, presidente della franchigia, ha dichiarato che la squadra è molto contenta di accogliere Isaiah a roster ma che Lonzo sarà certamente considerato il playmaker titolare. Non certo la situazione ideale per un due volte All Star in cerca di riaffermare il proprio valore nella lega. Quindi salvo sorprese inaspettate Thomas vestirà un’altra casacca la prossima stagione.

Il max contract che auspicava alla fine della scorsa stagione sembra più lontano che mai, ed è difficile anche ipotizzare una destinazione plausibile. Quelle ideali per le caratteristiche del giocatore sono squadre in grado di difendere efficacemente il pick & roll e in grado di consentirgli una certa libertà in attacco: vengono in mente i Grizzlies, i Clippers, i Jazz. Si tratta di franchigie che non hanno un particolare bisogno di acquisire Thomas, essendo già coperte nel ruolo di playmaker titolare o comunque dotate di backcourt piuttosto profondi.

Il rischio è che Thomas abbia già perso lo status di starter che si era conquistato nei due anni a Boston e che debba accontentarsi della posizione di sesto uomo per avere ancora un ruolo rilevante nella lega. In tal caso i contesti più interessanti potrebbero essere Washington o Toronto, due realtà competitive che sembrano essere sempre ad un buon giocatore di distanza dal fare il decisivo salto di qualità.

Un’ipotesi suggestiva, ma di quasi impossibile percorribilità, potrebbe essere l’Europa: in un contesto dove il gap fisico è molto meno evidente rispetto all’NBA, un giocatore dal talento e dalle qualità offensive di Thomas sarebbe probabilmente MVP dell’Eurolega. Appare comunque lontano dalla realtà che IT, dopo due stagioni da All-Star, decida di abbandonare ogni speranza di avere successo in NBA.

Solo questi due mesi a Los Angeles sapranno darci una chiara indicazione sul futuro del playmaker di Tacoma, in attesa di scoprire se riuscirà a recuperare pienamente dai suoi problemi all’anca o ne resterà permanentemente condizionato: resta il fatto che nel giro di un anno sia passato da candidato al titolo di MVP al ruolo di sesto uomo in una franchigia di livello medio-basso, quale sono i Lakers odierni.

A volte, come dicevamo, una singola stagione storta può cambiare tutto drasticamente.

Photo by Rocky Widner/NBAE via Getty Images
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Davide Romeo

Aspirante giurista, aspirante playmaker, la classe di Jerry West e il controllo palla di DJ Mbenga.

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