illustrazione grafica di Paolo Mainini
racconto di Alessandro Piscitelli

 

 

 

Estate 2013 – o meglio – quasi estate 2013.

Come ogni venerdì alle ore sedici e trenta, Federico era appena uscito dalla banca dove lavorava e respirò profumo di weekend. Erano gli ultimi giorni di maggio e, già da una settimana, la temperatura non scendeva mai sotto i venti gradi. Ora che la sua relazione con Ginevra era finita aveva in programma di passare il sabato al mare a rilassarsi ma, a dire il vero, non si era ancora del tutto ripreso e anche il basket, sport di cui era appassionato fino al midollo, era scivolato indietro nelle sue priorità.

Federico aveva appena scollinato i trenta, non giocava più da quando aveva fallito l’impresa di portare la squadra della sua vita in serie D, tre anni prima, e da allora aveva iniziato ad allenare: i bambini, poi i ragazzi Under 18 e finalmente la squadra senior dove aveva sempre militato al fianco dei suoi amici più veri. La sua prima stagione da coach era stata positiva: si era conclusa alla terza gara di un’equilibrata serie di semifinale del torneo di Promozione ma, poi, i primi scricchiolii con Ginevra e l’inevitabile epilogo avevano finito per allontanarlo dal “suo” sport e dal contatto quotidiano con gli amici di sempre.

Il basket era stato una parte molto importante della sua vita e nella città dove viveva, Bologna, era praticamente impossibile non schierarsi da una parte o dall’altra. Proprio in quegli anni, però, Basket City attraversava uno dei suoi periodi più bui, con la Virtus relegata nelle posizioni di fondo classifica e la Fortitudo alla disperata ricerca di sé stessa. Anche ciò aveva contribuito a fargli perdere interesse nella palla a spicchi e si era oramai ridotto a buttare solo un occhio distaccato di là dall’oceano per aggiornarsi sui risultati dei playoff NBA, giunti alle finali di conference. San Antonio ad Ovest e Miami ad Est sembravano avviate verso le Finals per il titolo.

Quel venerdì di fine maggio, mentre beveva uno spritz in compagnia del suo vicino di casa, Federico ricevette una telefonata inattesa ma fu felice di sentire la voce squillante del suo vecchio amico Costantino – detto Tino.

«Ehi Fede, come te la passi?»

«Sto bene, grazie. A te come va?»

«Alla grande! E’ da un po’ che non ci sentiamo, volevo chiederti se possiamo vederci. Dovrei parlarti di una cosa…»

«Certo. Lunedì sono libero.»

«Perfetto, vediamoci alla baracchina davanti alla nostra palestra. Buon weekend coach, stammi bene!»

Tino era il capitano della squadra dove lui aveva prima giocato e poi allenato e sentirsi chiamare coach gli aveva fatto tornare in mente la magia di quegli splendidi anni in cui il basket riempiva le sue giornate. Per tutto il weekend si era domandato di cosa volesse parlargli il suo amico.

 

Finalmente fu lunedì sera: Federico si presentò puntuale all’appuntamento con Tino, attese una decina di minuti dopodiché, non vedendolo arrivare, lo chiamò. Il cellulare squillò a vuoto ma, all’improvviso, vide avanzare verso di sé un gruppo compatto di ragazzi. Per via della sua miopia non riuscì subito a metterli a fuoco però, man mano si avvicinavano, riconobbe tra loro i suoi ex compagni di squadra: Leo, Simo, Checco, Cesare – detto Ce’ –, Luca, Teo, Pippo, Mauri e il Bomber. Quel soprannome – Bomber – era sempre presente in un gruppo di amici. Infine, nascosto dietro alle alte sagome di quei ragazzoni, comparve poi anche Tino che, con un breve scatto, superò tutti e corse ad abbracciarlo. Non si vedevano da mesi e, tranne qualche sporadica telefonata, non si erano praticamente mai sentiti.

Dopo aver salutato i regaz, Federico si allungò al bancone della baracchina ma Tino lo anticipò ordinando un giro di birra che Jenny, la ragazza che gestiva il chiosco, servì dopo qualche minuto insieme ad un vassoio pieno di patatine, arachidi, salatini e tranci di piadina con prosciutto crudo e formaggio. Federico si sentì catapultato indietro di qualche anno e si scoprì nuovamente felice insieme ai componenti della sua ex squadra. Inevitabilmente, tutti riuniti, iniziarono a parlare di basket e, in particolare, della gara 7 che Miami doveva vincere con Indiana per raggiungere gli Spurs alle Finals. Discussero di come LeBron fosse obbligato a dare un’ulteriore prova della sua forza per essere annoverato tra i più grandi di sempre e mentre ognuno diceva la sua, il primo giro di birre finì in fretta. Leo ne ordinò subito un altro poi, a sorpresa, Tino richiamò su di sé l’attenzione per spiegare a Federico il motivo di quella rimpatriata.

«Fede, senza troppi giri di parole, dobbiamo chiederti un favore: ci alleneresti al playground di San Lazzaro?»

Il murale a pochi metri dal playground di San Lazzaro (opera di Fabieke)

Dopo quella domanda calò il silenzio e ognuno della squadra trattenne il fiato in attesa della sua risposta. Federico diede una corposa sorsata alla birra davanti a sé, fissò Tino con aria divertita e disse: «Ma no, io… io non alleno più e… ma perché dovrei allenarvi per un torneo estivo?»

Tino, a nome di tutti, prese ancora la parola: «Perché abbiamo bisogno di qualcuno che ci guidi. Altrimenti, lo sai, dopo cinque minuti dalla prima palla a due verrebbe fuori un gran caos e poi… poi tu sei un vero coach, uno capace, uno che sa cosa serve alla squadra e quando. Dai Fede, non farti pregare, che ti costa?»

Federico, seppur perplesso, iniziò a fantasticare su quell’idea e si sentì gratificato dalla richiesta dei suoi ex compagni. Però tentennava, aveva mille dubbi legati più che altro a sé che alla cosa in sé, si sentiva una persona oramai insicura e fragile e non era certo di avere ancora la capacità di imporre le sue scelte, sebbene stessimo parlando di un semplice playground estivo tra amici. Si passò le mani tra i capelli, finì la birra, guardò i ragazzi e, finalmente, rispose a Tino: «Il nome della squadra l’avete?»

«Bolognina Boys.»

Scoppiò in una risata fragorosa e a quel punto riuscì a dire solo una cosa: «Okay! Con un nome così non posso che accettare!»

Tino si alzò dalla sedia e lo soffocò in un abbraccio più che affettuoso; Federico, dopo aver scambiato un cinque alto con tutti, ordinò il suo giro di birra e brindò, felice, al suo ritorno come coach.

 

La data d’inizio del torneo era fissata per il 14 giugno e il calendario era già stato deciso. I Bolognina Boys erano stati inseriti nel gruppo B insieme agli HL Performance, ai Figli di Bacco e agli Occhi Aperti. La formula del playground era molto semplice: quattro gironi da quattro squadre, le prime due classificate di ogni gruppo ammesse ai quarti di finale e da lì in poi gara secca fino alla finalissima. Ovviamente – tranne Tino – nessun’altro della squadra sapeva quali giocatori avrebbero affrontato, così Federico si rivolse al suo capitano per avere qualche informazione in più.

Nel frattempo LeBron e i suoi Heat avevano eliminato i Pacers vincendo gara 7 con uno scarto di ventitré punti e nella serie di finale contro gli Spurs erano sul 2-2 in attesa della quinta gara sul parquet texano dell’AT&T center. Il match si disputò nella notte italiana tra domenica e lunedì e fu San Antonio ad avere la meglio con il punteggio di 114-104: 3-2 per gli Spurs e serie nuovamente a Miami per i capitoli conclusivi di una delle Finals più incerte di sempre.

Foto Bleacher Report

Prima del trasferimento in Florida ci fu l’esordio dei Bolognina Boys e gli avversari di quella sera furono gli HL Performance. Tino aveva anticipato a Federico che avrebbero sfidato un gruppo di ragazzini militanti nel campionato di Prima Divisione e, almeno tecnicamente, non erano troppo temibili. Giocavano però insieme da tempo e Govoni, in particolare, – quello che si era presentato con la canotta numero 1 di Penny Hardaway – aveva un velenoso arresto e tiro.

I Bolognina Boys, con le canotte bianche bordate di blu e i soprannomi di ognuno in bella vista sulla schiena, erano al gran completo. Dei dieci che avevano incontrato Federico alla baracchina non si era tirato indietro nessuno e il coach fu orgoglioso di loro ancora prima che scendessero in campo. Il gruppo aveva più o meno la stessa età, tranne Ce’ – oramai verso i 37 – e Luchino, 24. Quei ragazzi amavano stare insieme per giocare a basket ma anche, soprattutto, per fare baldoria. Dopo gli allenamenti del venerdì sera, durante l’anno, si trovavano infatti sempre tutti – o quasi – al bar di un amico poco distante dalla palestra e da lì decidevano poi dove andare a divertirsi: sui colli alla Capannina, al Matis, in giro per i locali del centro o, talvolta, nella discoteca in provincia frequentata per lo più da Milf. La scelta del luogo non era però così importante, ciò che contava davvero era stare tutti insieme. Spesso si aggiungeva a quel gruppo anche qualche wild card: Enri, Jack, France e, nelle serate speciali, addirittura il presidente Gianmarco – per tutti affettuosamente chiamato Pozz.

L’obiettivo dei Bolognina Boys era superare il girone e qualificarsi per i quarti di finale consapevoli che, poi, sarebbero caduti sotto i colpi di squadre meglio attrezzate, condite di giocatori appartenenti a categorie superiori.

L’incontro con gli HL Performance partì subito sotto i migliori auspici: al termine della prima sirena i ragazzi di coach Federico conducevano 23-13, all’intervallo erano sopra di otto ma, poi, com’era nelle loro corde, crollarono nella terza frazione. Gli HL rimontarono e, nell’ultimo quarto, a tre minuti dalla sirena conclusiva, erano avanti di sette lunghezze. Oramai con le spalle al muro i Boys tirarono però fuori la loro arma migliore – l’unità di gruppo – e incredibilmente prima Leo e poi Simo misero a segno due triple. A una manciata di secondi dal termine erano ancora sotto di due ma nell’ultima azione il Bomber subì fallo. Il numero dieci si presentò in lunetta sicuro e realizzò il primo tiro libero ma, poi, il secondo uscì in modo assurdo. Per fortuna le manone di Mauri raccolsero il rimbalzo e, appena un soffio prima della sirena, il pallone concluse la sua corsa nel fondo della retina: 75-74 per i Bolognina Boys e prima vittoria del torneo!

La gioia dei protagonisti in campo, unita a quella di Federico, fu indescrivibile e tutto il loro entourage – rimpolpato di amici e qualche fidanzata – andò avanti a brindare fino alle due di notte nel baretto situato di fronte al playground. Qualche ora dopo molti di loro erano attesi sul posto di lavoro ma a nessuno sembrò importare, tanto meno a Federico che, per la prima volta dopo un’infinità di tempo, tornò finalmente a sentirsi vivo. La pallacanestro gli aveva riconsegnato i suoi amici e, tra un bicchiere e l’altro, si rese conto di come gli avesse anche fatto ritornare il sorriso.

Due giorni più tardi, a Miami, andò in scena gara 6 delle NBA Finals e fu la più incredibile degli ultimi anni. Gli Heat erano oramai spacciati, sotto 2-3 nella serie e di tre punti a pochi secondi dalla fine. Gli Spurs pregustavano già il loro quinto titolo ma la tripla dall’angolo fuori equilibrio di Ray Allen, inspiegabilmente lasciato tirare dalla scelta di Gregg Popovich di non fare fallo, agganciò i rivali proprio ad un passo dalla festa. Overtime e successiva vittoria di Miami per 103-100, che avrebbe rimandato tutto a gara 7 sempre sullo stesso parquet.

 

Il titolo NBA, dunque, sarebbe stato assegnato nella notte di giovedì 20 giugno e qualche ora prima, in Italia, andava in scena il secondo incontro dei Bolognina Boys al playground di San Lazzaro. La banda di coach Federico affrontava i quotatissimi Occhi Aperti, team imbottito di gente che calcava i parquet della serie D con la ciliegina di un’aggiunta dal piano superiore della C Silver. Insieme agli Streetball Kings, gli Occhi Aperti erano i favoriti del torneo e tutti gli “esperti” presenti a bordo campo pronosticavano una finale tra quelle due compagini.

Poco prima della palla a due Federico notò che li allenava una donna. Doveva avere pressoché la sua età ma a colpirlo furono i lucidi capelli biondi lisci di lei, un fisico formoso e atletico e le splendide Air Jordan 4 rosse che indossava. Non aveva mai conosciuto quella ragazza e quando se la trovò davanti per la stretta di mano rimase piacevolmente folgorato dai suoi meravigliosi occhi azzurro mare. Si era presentato con un semplice «Piacere, Federico» e lei aveva educatamente risposto dicendo: «Piacere mio, sono Bianca».

Era stato solo un attimo, rubato all’adrenalina della partita che stava per iniziare, ma in quell’istante Federico provò qualcosa di molto simile ad un fatale colpo di fulmine. In vita sua aveva provato qualcosa del genere solo da ragazzino ma poi, soprattutto dopo la fine della sua storia con Ginevra, non pensava potesse ricapitargli. Era scombussolato, euforico, incredulo e non prestò quasi attenzione a ciò che andò in scena nell’asfalto di 15 metri x 28 davanti a sé. Gli Occhi Aperti massacrarono i suoi Boys con il punteggio finale di 89-57 ma anziché abbattersi, osservando le facce sorridenti e serene dei suoi giocatori, Federico capì che l’amicizia e la voglia di stare insieme di quel gruppo era più forte e tenace di qualsiasi avversario. Bisognava solo resettare e non pensare più a quella batosta; l’obiettivo, ora, era battere i Figli di Bacco e qualificarsi ai quarti di finale.

All’American Airlines Arena della baia di Biscayne, Miami, poche ore più tardi andò in scena gara 7 delle NBA Finals. Gli Spurs erano ancora frastornati per l’occasione gettata al vento due giorni prima e la posta in palio diede vita ad un match poco spettacolare ma equilibrato. All’inizio della frazione decisiva San Antonio era comunque avanti 65-64 ma la tripla di Mario Chalmers riportò sopra Miami. I texani, stremati, forzarono diversi tiri per restare a contatto con gli Heat ma sotto ai 37 punti di un martellante LeBron James dovettero alzare bandiera bianca. Il risultato finale fu 95-88 per i padroni di casa e il fenomeno di Akron conquistò il suo secondo anello consecutivo, entrando così di diritto nel club dei più grandi giocatori di sempre.

Foto Nba

 

Prima della decisiva gara contro i Figli di Bacco, Federico organizzò una serata con i suoi amici solo per il gusto di stare insieme. Si trovarono in un’osteria della periferia bolognese con i tavoli all’aperto, dove più che una vera e propria cena venne servito il più informale apericena. La birra scorreva a fiumi e il basket non fu quasi mai nominato; c’era solo voglia di fare baldoria e di godersi il clima estivo e gioioso che aleggiava. I dieci Boys finirono per ubriacarsi, compresi Tino e il Bomber – i leader nemmeno tanto silenziosi di quel fantastico gruppo. Federico, anche lui visibilmente alticcio, pensò che l’indomani per battere i Figli di Bacco e passare il turno sarebbe servita una vera e propria botta di culo e si diede dell’irresponsabile per aver organizzato quella serata ventiquattrore prima del match decisivo. Se avessero perso per colpa sua non se lo sarebbe mai perdonato ma dopo un attimo sorrise di quei pensieri: aveva ritrovato la felicità e il calore dei suoi amici, dai quali si era allontanato senza un vero motivo per via di una delusione d’amore, e di vincere una semplice partita di basket capì che gli importava il giusto. Però gli importava. Sarebbe stato bello, magari, vincere di uno con una bomba di tabellone e mentre camminava verso il suo scooter pensò che avrebbe voluto rivedere almeno un’altra volta Bianca, l’allenatrice degli Occhi Aperti.

Mise in moto il suo motorino, l’aria umida di luglio aveva lasciato spazio al fresco della notte, e mentre guidava tra le vie silenziose della città si stupì di come le parole per lui più importanti di quel periodo iniziassero tutte con la lettera B: Basket, Birra, Baldoria, Bologna, Bolognina Boys, Bomber, Botta di culo, Bomba, Bianca.

Illustrazione di Paolo Mainini

Sorrise per quella curiosa associazione e si convinse che l’alcol aveva avuto effetti devastanti nella sua mente.

Il giorno dopo, svestiti gli abiti da bancario, si recò al campo di San Lazzaro con un’ora d’anticipo. Non prendeva in mano un pallone da basket da diverso tempo e decise di fare qualche tiro per allentare la tensione. Quando ancora giocava aveva una buona mano da tre punti ma, ora, la ruggine degli ultimi anni si faceva sentire. Realizzò il suo primo canestro al decimo tentativo e poi ci prese gusto: continuò a tirare in una sorta di trance agonistica per almeno mezzora e si interruppe solo quando vide arrivare gli arbitri e i suoi giocatori.

 

Quella sera aveva indosso la canotta più venduta di tutti i tempi: rossa, con il numero 23 dei Bulls. L’aveva scelta perché in un modo o nell’altro Jordan voleva sempre e solo vincere ed era ciò che doveva trasmettere ai suoi ragazzi. Era stata una specie di mossa psicologica per dare più fiducia al gruppo e per buona parte dell’incontro si rivelò giusta. I Bolognina Boys mantennero una decina di punti di vantaggio sino all’intervallo ma, poi, come nella prima gara, a tre minuti dalla sirena conclusiva si ritrovarono sotto di quattro nel punteggio.

Tino, coadiuvato da Leo, cercò allora di caricarsi la squadra sulle spalle e con una tripla tenne a contatto i suoi. I Figli di Bacco non mollarono di un centimetro e più che un torneo estivo sembrò di assistere ad una vera e propria serie playoff di qualche campionato Minors. C’era un tifo assordante da un lato all’altro del playground e anche se le birre della sera prima si facevano sentire nelle gambe dei Boys, gli incitamenti di Federico e degli amici intorno fungevano da sesto uomo in campo. Nell’ultimo time-out, a venti secondi dal termine sotto di due punti, il coach disegnò uno schema che prevedeva una penetrazione del Bomber con possibilità di scarico all’altezza della lunetta a Tino o a Leo per un buon tiro o, in alternativa, per raccattare un fallo. Prima che il quintetto tornasse in campo, Federico mostrò loro la canotta di MJ e disse di pensare solo a vincere. Nient’altro.

Bomber ricevette palla da Leo, attese qualche secondo e si lanciò con decisione sulla sua destra per penetrare a canestro. Vedendosi raddoppiato indietreggiò di qualche passo, scaricò il pallone verso Tino che, chiuso da un avversario, glielo restituì immediatamente. Mancavano quattro secondi, Bomber si ritrovò nuovamente con il pallone in mano e sentendo il countdown dei suoi compagni e degli amici dietro lui tirò quasi ad occhi chiusi. La traiettoria di quella parabola sembrò completamente fuori obiettivo, troppo lunga per andare a segno ma il suono sordo del tabellone bianco centrato in pieno tenne tutti con il fiato sospeso. Durò il tempo di un decimo di secondo che, però, a Federico sembrò eterno. Il pallone con la scritta Molten in evidenza fu come stoppato dal quadrato nero del tabellone e cadde privo di energie all’interno del cotone bianco. Game, set and match – come diceva Flavio Tranquillo – e previsione di Federico rispettata: vittoria di uno con bomba di tabellone e grandissima botta di culo del Bomber. Sempre tutte parole con la lettera B…

 

La festa che seguì quella vittoria fu incredibile. Il bar di fronte al campetto venne preso d’assalto dai Bolognina Boys e dagli amici che li avevano seguiti: la birra fu spillata in continuazione, ci furono diversi momenti di baci e abbracci collettivi, cori inventati sul momento e ancora una volta, l’ennesima, tutti tornarono a casa piuttosto alticci ma felici. La magia della pallacanestro dentro a quel gruppo aveva compiuto il suo miracolo anche quella sera e adesso che si erano qualificati per i quarti di finale tutto era possibile.

La vita di Federico e dei suoi amici proseguì come quella di ogni giorno: lavoro, ora di sport per chi se la sentiva, aperitivo-cena e puntata in baracchina per due chiacchiere, una birra e, se si era fortunati, per approcciare qualche piacevole conoscenza. Sembrava il solito tran tran ma fu solo apparenza. Ognuno di loro pensava a quel torneo, alla voglia di stare ancora tutti insieme, di condividere un obiettivo, un sogno, uno scopo. Era come stare in famiglia e, sebbene prima della partita contro i Summer 2013 – nei quarti di finale – ci fosse davanti il weekend, tutti erano concentrati sulla serata di lunedì.

I Summer 2013 erano la formazione di casa. Molti dei loro giocatori, infatti, militavano nella squadra locale di serie D ed erano certamente meglio attrezzati dei Bolognina Boys. Avevano vinto senza troppe problematiche le tre partite del girone A classificandosi come primi, ma Federico e i suoi ragazzi erano comunque fiduciosi, spensierati e senza nulla da perdere. Poco prima di scendere in campo, il coach fece un discorso motivazionale ai suoi ribadendo quanto fosse orgoglioso di loro e quanto desiderasse solo andare a bere una birra tutti insieme al termine dei prossimi quaranta minuti di asfalto. Aveva caricato il gruppo al punto giusto facendo sentire importanti sia quelli che sarebbero scesi in campo per primi, sia i subentranti dal prato verde posizionati di fianco a lui.

Contrariamente al solito, i Boys andarono subito sotto nel punteggio: 21-14 alla prima sirena e 46-33 dopo la seconda. Barbieri, Lolli e Malaguti erano incontenibili per i ragazzi di coach Federico e la differenza fisica si faceva sentire tutta. Durante l’intervallo c’era poca fiducia nei volti dei Boys e, per la prima volta dall’inizio del torneo, Federico capì di doverli incoraggiare. Come, però, non ne aveva idea. Poi, all’improvviso, vide sfilare davanti a sé Bianca – l’allenatrice degli Occhi Aperti che avrebbero giocato dopo di loro – e con espressione del viso inebetita, dopo averla salutata a distanza, trovò la soluzione. Chiamò i ragazzi, li rincuorò con pacche sul culo e cinque alti e, senza pensare troppo alle parole, disse: «Sentite, ho un problema: mi sono innamorato dell’allenatrice degli “Open Eyes” – come erano soliti chiamarli – e vorrei che mi aiutaste».

Tino, pensieroso, si mise davanti a lui e domandò: «Okay, ma come?»

«E’ semplice: dovete vincere questa partita! Se lo farete, andrò da lei e le dirò che dopo la nostra vittoria in finale dovrà uscire con me.»

Tutti – Tino compreso – guardarono il coach come fosse un pazzo. Erano sotto di 13 punti, stavano subendo in ogni zona del campo e comunque, anche se avessero vinto, bisognava poi giocare una semifinale dal pronostico impossibile e la successiva finale. Bomber, Simo e Leo presero a ridere ma il più silenzioso del gruppo, Cesare, ad un tratto intervenne: «Okay Fede! Vinceremo questa partita, la prossima e anche la finale. Alzeremo quella coppa, te lo prometto, ma poi sarai tu a dover vincere per noi!»

Il resto della squadra rimase in silenzio fin quando Tino iniziò ad applaudire il discorso di Ce’ – il più vecchio e saggio del gruppo. A lui si accodarono Bomber, Simo, Leo, Mauri e via via tutti gli altri. Federico, al limite della commozione, iniziò inconsciamente a farsela sotto pensando di dover andare da quella splendida ragazza per chiederle di uscire. Non sapeva nemmeno se fosse fidanzata, se il suo ragazzo fosse qualcuno degli “Open Eyes” o se, magari, fosse già sposata.

I Bolognina Boys tornarono in campo super motivati e, nonostante la supremazia tecnica degli avversari, la voglia di vincere li portò a rimontare punto su punto. Alla terza sirena il punteggio recitava 62-57 in favore di Summer 2013 ma l’inerzia era tutta dalla loro parte.

Quando mancavano sessanta secondi al termine dovevano ancora recuperare tre punti ma la bomba del capitano Tino impattò sul 77 pari. Rimaneva un possesso per squadra e Lolli, il playmaker avversario che nel primo tempo aveva realizzato diversi arresti e tiri, perse palla palleggiandosi su un piede. Il cuore dei Boys era andato oltre l’ostacolo e il gioco a due tra Leo e Pippo permise alla banda di Federico di segnare il canestro del +2 a dieci secondi dal termine.

Non era ancora finita però. Bisognava difendere forte e stare attenti agli accoppiamenti ma, nonostante le raccomandazioni del coach, Simo perse il suo uomo che andò ad appoggiare il più facile dei layup. Il pallone accarezzò il tabellone e si avviò indisturbato verso la retina ma a distogliere l’attenzione di tutti fu il fischio arbitrale proveniente dall’altro lato del campo. Silenzio irreale e solo una parola: «Passi».

Passi? Davvero l’arbitro aveva decretato la fine della partita di un torneo estivo fischiando infrazione di passi? Giocatori, allenatori, spettatori e occasionali che si erano fermati leccando un cono gelato si erano cristallizzati. I Bolognina Boys avevano vinto, come non aveva importanza, ma prima di poter fare festa assistettero indisturbati alla rissa che Barbieri e Malaguti scatenarono contro l’arbitro-killer. Volarono ceffoni e pugni da far-west, più che un torneo estivo sembrava la finale di Eurolega e fu necessario l’intervento di metà squadra dei Summer per evitare il peggio all’omino vestito di grigio.

La chiamata dei passi era stata una vera e propria ingiustizia ma aveva premiato l’orgoglio e il cuore dei Boys che, ora, avrebbero giocato un’insperata semifinale contro gli Streetball Kings – i favoriti del torneo, insieme agli Occhi Aperti.

 

Federico dovette tenere fede al patto che aveva fatto con i suoi. Tutti iniziarono a ricordargli la promessa ma il coach disse che avrebbe aspettato la fine della partita che gli Occhi Aperti stavano giocando. Nell’attesa bevve un paio di birre, uno short di Sambuca con il ghiaccio e quando, finalmente, gli “Open Eyes” conclusero il loro quarto di finale sul +25 si presentò in sordina davanti a Bianca per farle i complimenti. Poco più in là i Boys iniziarono ad intonare per lui un coro di incoraggiamento e Bianca, osservando la scena, disse: «Devono volerti davvero molto bene!»

«Chi… loro? Ah sì infatti è così, fanno gli scemi e…»

«Piacerebbe anche a me!»

«Certo. Senti… ecco, non so come dirtelo, io… vedi, ho fatto un patto con loro: eravamo sotto di tredici punti, volevo che reagissero, così gli ho detto che se vinceremo il torneo… ecco… gli ho detto che tu saresti uscita con me.»

Dopo le sue parole Federico restò immobile, imbarazzato davanti a lei. Bianca lo guardò dritto negli occhi, scoppiò in una risata fragorosa ma poi, con aria compiaciuta, rispose: «E perché gli hai detto proprio questa cosa?»

Federico, oramai rosso dalla vergogna, tentò di bofonchiare una frase incomprensibile ma Bianca fu più lesta di lui e concluse dicendo: «Okay, non importa… d’accordo: se vincerete il torneo uscirò con te. In bocca al lupo coach!» e se ne andò dandogli le spalle.

Federico la osservò allontanarsi con aria sognante, ai limiti della realtà e, appagato, tornò quindi dai suoi amici dicendo loro che, a quel punto, dovevano assolutamente vincere il torneo.

 

Tra i quarti di finale e le semifinali ci furono due giorni di pausa: era mercoledì e dopo essere uscito dalla banca Federico non aveva alcuna voglia di rintanarsi in casa. Bologna era avvolta da un’aria calda e umida ma dentro di sé sentiva scorrere l’adrenalina di quei meravigliosi giorni in cui aveva ritrovato il basket e la voglia di combattere per una donna. Era tremendamente vivo e per scaricare un po’ dell’energia che aveva accumulato andò di corsa fino alla basilica di San Luca. Percorse il porticato con gli scalini che collegava la città al colle e dopo circa venti minuti arrivò in cima stanco ma felice. Si riposò qualche minuto, bevve dell’acqua e completata la discesa si fermò ad osservare alcuni ragazzi che giocavano a basket nel campetto del Meloncello.

Anni prima ci passava interi pomeriggi ma ora, guardando da vicino quelle giovani leve, si sentì improvvisamente vecchio. Dentro di lui albergavano sentimenti contrastanti derivanti dalla carica che quel periodo estivo gli stava regalando e dalla consapevolezza che quando tutto sarebbe finito – forse domani sera – sarebbe probabilmente ripiombato nel suo stato quasi depressivo. Aveva ritrovato i suoi amici, la passione per la pallacanestro, ma sentiva che senza Bianca non sarebbe stato davvero felice. Pensò di chiamarla, a prescindere dai risultati del campo, ma c’erano due problemi: non aveva il suo numero e, in secondo luogo, sarebbe stato più bello uscire con lei perché aveva vinto.

Rimase ancora qualche minuto al campetto poi, pensieroso ma soddisfatto del suo allenamento, tornò lentamente verso casa e chiamò Tino per avere qualche delucidazione sugli Streetball Kings, i loro prossimi avversari.

Il giorno della partita non concluse praticamente nulla a lavoro: era troppo concentrato sul match serale, avrebbe rivisto Bianca e, dopo ciò che gli aveva riferito Tino, rimuginò diverse ore per capire come arginare Tolomei e Marchetti, le stelle di quella squadra che militavano in serie C Silver. Tolomei, in particolare, con i suoi due metri di altezza era impossibile da marcare a uomo ma mettersi a zona in un torneo estivo era da sfigati e Federico non aveva alcuna intenzione di applicare quella tecnica difensiva.

Lui e i suoi Bolognina Boys arrivarono al campo di San Lazzaro durante l’intervallo della prima semifinale; gli Occhi Aperti stavano dominando il loro incontro con venti punti di vantaggio. Federico si sedette sul prato per studiare il secondo tempo di quella sfida ma, tranne un breve sussulto d’orgoglio degli avversari, gli “Open Eyes” non ebbero particolari problemi a concludere la semifinale sul +15, guadagnando così l’accesso alla finalissima. Bianca, esultante, lo incrociò mentre lui prendeva possesso della sua nuova zona di prato e, improvvisamente, gli augurò: «In bocca al lupo coach! Spero di rivederti lunedì per la finale!»

Federico, imbarazzato, la ringraziò e le chiese: «Ti fermi a vedere la partita?»

«Forse un po’. Devo raggiungere degli amici e non rimarrò fino alla fine, ma mi terrò informata sul risultato! Faccio il tifo per voi comunque…»

 

Gli Streetball Kings erano più alti, più fisici e certamente più talentuosi dei Bolognina Boys. Avevano vinto tutte le partite sin lì giocate e, inoltre, erano guidati da un famoso allenatore delle giovanili Virtus. Obiettivamente i ragazzi di coach Federico non avevano troppe speranze ma l’agonismo e la voglia di lottare l’uno per l’altro fecero sì che all’intervallo lungo i punti da recuperare fossero solo 5. Quel risultato era un vero e proprio successo ma nel terzo quarto, come da pronostico, Tolomei salì in cattedra e, coadiuvato dall’altra stella Marchetti e da Giulini, portò i Kings sul +13.

Restavano da giocare gli ultimi dieci minuti, i Boys erano già andati oltre le più rosee aspettative e uscire per mano dei favoriti sarebbe stato meno doloroso di ogni altro epilogo. Federico concesse qualche minuto di riposo al suo quintetto titolare e, fuori da ogni previsione, furono due bombe di Cesare, il vecchietto del gruppo, e un layup di Luchino – il più giovane – a riportare in gara la sua squadra. A quattro minuti dal termine il punteggio era 69 Streetball Kings – 65 Bolognina Boys. Nessuno si aspettava quel finale e anche la maggior parte del pubblico, che fino a poco prima tifava per i più forti, ora scandiva il coro “Boys, Boys, Boys” sulle note della canzone vintage di Sabrina Salerno. C’era un’atmosfera da non credere e il cuore messo in campo dai ragazzi di coach Federico risultò commovente. Tecnicamente inferiori non si erano mai scoraggiati ed erano tornati a contatto con gli avversari grazie a protagonisti inattesi. Cesare, per ovvi meriti, era ancora in campo e mentre mulinava le braccia in un’azione difensiva ad un tratto sentì una fitta secca dietro al tallone. Si accasciò al suolo con un grido di dolore e subito prese a strillare come un neonato. Il piede destro non rispondeva più ai suoi impulsi e la diagnosi di un medico presente a bordo campo non lasciò alcun dubbio: rottura del tendine d’Achille e carriera di Ce’ praticamente conclusa.

Mancavano solo cinquanta secondi e i Boys erano sotto di due ma a quel punto volevano vincere a tutti i costi per dedicare il successo al grande protagonista di quella rimonta che, da bordo campo, incitava i suoi amici come Vincenzo Esposito nella decisiva gara 5 della finale scudetto Caserta-Milano stagione 1990-91.

Nonostante fossero distrutti dalla stanchezza Leo e Bomber confezionarono un perfetto gioco a due che portò la gara in parità ma l’ultimo tiro era nelle mani degli avversari. Mancavano cinque secondi e il loro coach, un guru della panchina, aveva chiamato time-out per disegnare l’ultima azione. Marchetti eseguì la rimessa per far arrivare il pallone a Tolomei ma Tino, il capitano, intuì le sue intenzioni e, agile come un gatto, rubò palla. Senza nemmeno guardare la lanciò in avanti dove Simo, indisturbato, appoggiò al tabellone il più semplice dei sottomano. Il canestro arrivò un istante prima della sirena e, nell’incredulità generale, i Bolognina Boys andarono per la prima volta avanti nel punteggio: 79-77 e finalissima del torneo conquistata.

La gioia dei protagonisti fu inspiegabile. Piovvero fiumi di birra, vennero servite piadine e pizzette dalle cameriere del bar di fronte ma, dopo nemmeno un’ora, l’intera squadra si trasferì all’Ospedale Maggiore per assistere il povero Cesare. La festa continuò nel pronto soccorso e due giorni dopo, addirittura, spuntò un trafiletto di quell’impresa sulle pagine sportive de Il Resto del Carlino, il quotidiano più letto a Bologna. I ragazzi di coach Federico erano stati eroici e ora, per coronare quella magnifica estate, rimaneva solo una partita da giocare e da vincere.

 

Al di là dell’uscita con Bianca, Federico voleva concludere il torneo nel migliore dei modi perché, ne era convinto, tutti i componenti della squadra se lo meritavano davvero. Contrariamente a tutte le altre partite, quindi, decise di fare un vero discorso ai suoi ma, non trovando parole particolari, disse che si sentiva come l’Italia Mundial del 1982 che, contro tutto e tutti, data per spacciata già nel girone eliminatorio, aveva poi sconfitto le favorite Argentina e Brasile e annientato la Germania Ovest in finale. Lui, ai tempi di quella gloriosa estate, era appena nato ma ora si sentiva un po’ Bearzot, un grande protagonista della panchina – anche se di un altro sport – il cui cognome iniziava con la lettera B. Pensò che non fosse solo una semplice coincidenza e dopo il suo monologo vide la squadra carica al punto giusto. Prima della palla a due, senza dire nulla, strinse la mano a Bianca e sorrise quando lei, gentilmente, apostrofò: «Chissà se ci sarà un dopo per noi…»

Capì di aver già vinto ancora prima che gli arbitri alzassero il pallone.

 

La finale fu combattuta e nervosa. Gli Occhi Aperti, chiaramente favoriti, tentarono subito di scrollarsi di dosso i Boys che, però, con grande agonismo e maniacale attenzione, ribatterono colpo su colpo. Tino – il capitano – spronò la squadra con grande fervore e, come in tutte le altre partite sin lì disputate, i ragazzi di coach Federico arrivarono agli ultimi due minuti punto a punto con gli avversari. Erano sotto di uno e tutta San Lazzaro, oramai, tifava per loro. Dovevano tenere alta la concentrazione per gli ultimi centoventi secondi, la tecnica e la tattica non contavano più, valeva solo il cuore e Federico sapeva che sotto quell’aspetto i suoi erano insuperabili.

Pregustava già l’uscita con Bianca e durante l’ultimo time-out pensò anche, per un momento, a dove l’avrebbe portata. Mancavano venti secondi e il tabellone luminoso segnava Boys 63 – Occhi Aperti 64. Palla nella mani di Leo, penetrazione sotto canestro e assist perfetto per il taglio di Mauri che, precedendo di un soffio l’intervento del lungo avversario, realizzò il +1 (65-64). Rimanevano nove secondi, attacco degli Occhi Aperti e per via della dura difesa dei Boys, con un fischio assolutamente chirurgico, l’arbitro più lontano decretò un fallo. Ma non un semplice fallo: antisportivo! Ciò significava due tiri liberi e ultimo possesso per gli avversari, con quattro secondi da giocare.

Le proteste dei cinque Boys in campo furono niente in confronto a quelle di Federico, che si scagliò letteralmente contro l’arbitro che aveva dato fiato al fischietto. Bianca assisté alla scena sorridendo sotto i baffi che non aveva e, proprio in quell’istante, capì quanto Federico tenesse a lei e alla loro uscita. L’arbitro l’aveva probabilmente appena mandata in fumo e lui non si dava per vinto. Venne allontanato dal campo, Malagoli prese posto in lunetta per chiudere il torneo ma, incredibilmente, sbagliò il primo tiro: almeno l’overtime era ancora a portata di mano. Secondo libero e con un beffardo giro sul ferro il pallone uscì di nuovo. 0/2 e Boys ancora a +1 con quattro secondi sul cronometro. Bianca era tesa come una corda di violino ma nessuno saprà mai se volesse vincere o perdere per poter uscire con Federico.

Rimessa, palla nelle mani di Malagoli per Zucchini che, raddoppiato, fu costretto a tirare da tre punti. Il tiro seguì una traiettoria perfetta e la parabola pareva giusta; tutti si ritrovarono con il naso all’insù, suonò la sirena e il pallone arancione colpì morbido il primo ferro. Federico si sentì svenire e nessuno dei ragazzi sul prato guardò: furono istanti drammatici, era solo un torneo estivo, ma quel tipo di adrenalina sapeva regalarla solo il basket, a tutti i livelli. Il pallone era ancora sospeso in aria poi, lentamente, raggiunse il tabellone e uscì di lato. I Bolognina Boys avevano vinto il torneo e, mentre un avversario tirò un calcio alla palla che beffardamente era tornata in campo, al centro del playground si formò una piramide umana di canotte bianche.

Federico, stremato, si lasciò cadere sul prato e pianse lacrime di gioia. La sua vita, in poco più di un mese, era stata stravolta e sorrise ricordando la telefonata di Tino. Mentre tutti festeggiavano, all’improvviso vide un’ombra sopra di sé: era Bianca e gli domandò dove intendesse portarla. Federico si alzò di scatto, la guardò per qualche interminabile secondo e, tirandola verso di sé, le stampò il bacio che avrebbe voluto darle la prima volta che l’aveva vista. I suoi Boys attesero la fine di quel gesto affettuoso, lo “rapirono” e lo lanciarono verso l’alto: lui urlò, un po’ per la paura ma tanto per la gioia.

Si era ripreso la sua vita, aveva ritrovato la passione per il basket, per allenare e si era pure innamorato. Non avrebbe mai dimenticato l’estate del 2013 e nemmeno l’importanza della lettera B: Basket, Birra, Baldoria, Bologna, Bolognina Boys, Bomber, Botta di culo, Bomba, Bianca… Bearzot. Ecco, si sentiva un po’ come il vecioche aveva guidato l’impresa sportiva italiana più grande di sempre. Era felice, incredibilmente felice e pensò che nulla fosse più importante di poter gioire con i propri amici, di avere il cuore occupato da una donna e, ovviamente, di sapersi lasciare trasportare dalle emozioni che solo la palla a spicchi sapeva trasmettere.

Poco dopo Tino alzò la coppa in mezzo ai suoi fratelli e quella fu l’immagine più bella di tutte, a dimostrazione che, talvolta, non vincono i più forti ma quelli che lo vogliono davvero.

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