“What doesn’t kill you, makes you stronger” ovvero “Cio’ che non ti uccide, ti fortifica”.

E’ questo il motto di Mirza Teletovic.

Se non avete ancora capito il motivo, ripercorriamo la sua storia dagli albori.

Mostar, 1992: Mirza (classe ‘85) ha solo 7 anni quando la guerra bosniaca raggiunge la citta’ in cui vive, che verra’ assediata per 18 lunghi mesi.

Dovendo raccontare i suoi ricordi, ancora molto vividi, e le sue sensazioni legate all’avvento di accadimenti cosi tragici per la sua gente, Teletovic li descrive cosi:

“All’inizio viene a mancare il cibo. Poi iniziano a piovere le granate. La città inizia tutta a tremare, le persone iniziano ad urlare. Ogni giorno i tuoi genitori rientrano a casa annunciando tristi notizie: ‘Il vicino è morto’, ‘Un cugino è venuto a mancare’… Ogni giorno muoiono in tanti. Talmente tanti che un giorno chiesi a mia madre: ‘Mamma, c’è rimasto qualcuno di vivo?’”.

1992, Mostar, 113 mila abitanti nel sud della Bosnia. Una città mista con le componenti bosniaca-musulmana e croata ad equivalersi (35%) e una minoranza serba (15-20%). É uno snodo cruciale degli scontri della Guerra Jugoslava, ammantata dalla tesi degli odi etnici ma combattuta in nome dei soldi e del potere.

Mirza Teletovic ha solo 7 anni e mentre i suoi coetanei dall’altra parte dell’Adriatico, in Italia, vivono una vita serena fatta di scuola, amici e famiglia, lui ha già perso molti parenti ed amici negli scontri a fuoco, e la scuola è chiusa perché distrutta. “Di solito mi svegliavo presto, alle 6 di mattina, e mi fiondavo al campo da basket che era a 300 metri da casa mia, sia con le scarpe rotte, sia senza. Tornavo sempre dopo cena, a volte a mezzanotte. Avevo un patto con mia mamma: potevo stare al campo fino a quando volevo, ma appena udivo il suono delle sirene che segnalavano i bombardamenti, dovevo correre a casa per nascondermi.”

Questa straziante domanda puo’ render l’idea del tipo di infanzia da egli trascorsa, ed anche dell’inevitabile segno che abbia lasciato su di lui negli anni a venire.
In quel tragico periodo di guerra ed in una situazione cosi precaria, una sola era la via di fuga (per quanto possibile) per Mirza: la pallacanestro.

Il campo in cui si ritrovava con i suoi amici e pari era vicino a casa sua.

 

Avesse potuto, avrebbe trascorso li tutto il proprio tempo, ogni singolo secondo.

Non di rado, pero’, le loro sfide venivano interrotte dal suono delle sirene, che segnalavano l’inizio di un imminente bombardamento: il patto era che Mirza potesse trattenersi al campo ma, non appena udito quel suono, iniziasse a correre verso casa per rifugiarsi e nascondersi.
“If I have to die, I die. For basketball, I would do everything.” ovvero “Se devo morire, moriro’. Per la pallacanestro, farei qualsiasi cosa.”.

Quando, dopo aver accumulato dapprima esperienza in Bosnia (Sloboda Tuzla) ed in Belgio (Ostenda) ed essersi poi affermato in Spagna (6 stagioni al Saski Baskonia), Mirza mise per la primissima volta piede sul suolo americano all’eta’ di 27 anni insieme alla sua famiglia (la moglie Maja e i loro quattro piccoli) forte del contratto da free agent appena firmato con i Brooklyn Nets, fatico’ un po’ a capire come mai tutte le domande rivoltegli dalla stampa a stelle e strisce vertessero sul concetto di pressione.

Certo, passare dalla ACB all’NBA lo avrebbe esposto maggiormente, il tipo di palcoscenico sarebbe stato ancor piu’ prestigioso, etc. etc. … Ma, per quanto avesse potuto essere alta la posta in palio sportivamente parlando, non si sarebbe mai potuta neanche lontanamente avvicinare o paragonare a cio’ che Mirza aveva vissuto. Appena arrivato in NBA, nel 2012, i giornalisti americani gli ripetevano sempre le stesse domande che vertevano su quanto fosse enorme la pressione in NBA. Lui, con la faccia sorpresa, quasi basita, dava sempre la stessa risposta: “The real pressure is to survive”.

Tutto il resto e’ un gioco, che puo’ essere sì una ragione di vita, ma un gioco rimane.

Conoscendo la sua storia, potete comprendere il modo in cui egli approcci il professionismo e conseguentemente tanti suoi piccoli atteggiamenti sul parquet, che, per quanto irrilevanti, in America invece hanno sorpreso, come ad esempio la sua tranquilla ed impavida reazione a LeBron James che gli si scagli contro urlante in occasione di un suo fallo in campo aperto, sfociata persino con una risata che nel New Jersey e non solo e’ divenuta quasi virale (che gli é valsa il soprannome di “Fearza”).

Teletovic viene frequentemente ricordato per la sua eleganza nel tiro ed il suo rilascio nonostante la sua altezza e stazza fisica (qui tutte e 136 le sue triple nell’ultima stagione NBA), meno spesso si pensa pero’ alle sue altre doti, e per questa ragione vi propongo un video delle sue migliori schiacciate di sempre:

Tornando invece all’argomento delle dichiarazioni rilasciate menzionato in apertura, a voler trovare il pelo nell’uovo, si puo’ segnalare come il buon Mirza abbia fatto delle affermazioni o potenziali previsioni (“Jason Kidd e’ il nuovo Gregg Popovich !”) tanto affidabili quanto Franco Lauro quando battezzava il giocatore che ci avrebbe di li a pochi secondi inesorabilmente punito con il suo famigerato: “Non e’ un tiratore!”.

occccc

Fortunatamente non lo seguiamo perche’ faccia l’opinionista (ruolo per il quale almeno in Italia avrebbe un futuro, vista la montatura degli occhiali da vista che porta…), ma affinche’ ci delizi sul parquet.

Alla luce di quanto raccontato finora, avrete potuto immaginare come il legame con la sua Bosnia Herzegovina sia piuttosto forte, ed ogni qualvolta ci sia da difendere, sportivamente parlando, la bandiera nazionale, Mirza risponda presente.

E’ al momento impegnato infatti, cosi come i nostri azzurri, nelle qualificazioni per la prossima edizione di Eurobasket, nelle quali sta viaggiando a 26,3 punti, 6,7 rimbalzi e 2,4 assist ad allacciata di scarpe e nelle quali di recente ha impartito lezioni di tiro (mettendo su un vero e proprio clinic a riguardo) contro la Gran Bretagna:

Essendo uno che, pur di giocare a basket, metteva quotidianamente a rischio la propria vita, c’era da aspettarselo: per la pallacanestro, farei di tuttoMT3.

 

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Valerio D'Angelo

Ingegnere romano malato di palla a spicchi. Lavoro a WhatsApp (ex-Google, ex-Snap, ex-Facebook) e vivo a Dublino, in una nazione senza basket, dal 2011. Per rimediare ho scritto il libro "Basket: I Feel This Game", prefazione del Baso. Ho giocato a calcetto con Pippen e Poz, ho segnato su assist di Manu Ginobili, ho parlato in italiano con Kobe in diretta in una radio americana e mi e' stato chiesto un autografo a Madrid pensando fossi Sergio Rodriguez.

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