Articolo di Valerio D’Angelo
Copertina di Emanuele Venturoli
Fotografie Giovanni Mafrici

 

Londra è vicina. Londra, terra di bevute e di voli low cost, è terra di speranza. Essa, infatti, costituisce la possibilità, per chi non ha modo di avventurarsi in America, di assistere ad una partita della beneamata
National Basket Association dal vivo. Londra tutto sommato è a portata di mano ma, per un motivo o per un altro, non ci si riesce ad andare mai. Il 20 di Ottobre, infatti, i biglietti per gli NBA Global Games 2018 sono andati polverizzati in 52 minuti e, per citare Adamo Argento, avrebbero potuto esaurirsi in molto meno, non fosse stato per le limitazioni fisiche del dover inserire i dati delle proprie carte di credito a sistema da un punto di vista tecnologico. Quest’anno, però, il caso ha voluto che a Londra mi ci fossi trasferito solo qualche mese prima e, pur non essendoci ancora stato a causa di trasferte di lavoro, ho fatto in modo di esserci tassativamente per quell’11 Gennaio tanto caro a noi malati di pallacanestro. Eccovi allora un racconto di getto, come sempre non canonico, di ciò che è stata questa notte di basket a stelle e strisce nella city.

La O2 Arena è una… cittadella. La scelta della sede europea in cui portare una vera e propria partita di
regular season, e che a detta del commissioner è anche seriamente considerata per un futur(istic)o All Star Game oltreoceano, non è affatto un caso. Simile per concetto alle grandi arene NBA ma diversa nella sua implementazione, all’interno delle sue mura, la venue londinese offre una miriade di opportunità di rifocillamento ed intrattenimento prima di compiere il vero e proprio ingresso al gate.

Nel pre-partita è Adam Silver a parlare, rispondendo con pazienza alle domande dei cronisti o presunti tali
(come nel nostro caso) che domandano a gran voce il ritorno della NBA in una città piuttosto che un’altra (Parigi, Berlino, Istanbul per citarne alcune).

Il commissioner sfoggia la sua ‘espressione #CiaoPovery’ – foto Giovanni Mafrici

Alcuni spunti sono interessanti: si è espresso in maniera favorevole e soddisfatta rispetto alle sponsorizzazioni sulle canotte ed al contempo si è mostrato quanto meno dubbioso sull’operazione BBB (famiglia Ball) in terra lituana. Similmente degne di nota sono state le considerazioni relative alle enormi difficoltà logistiche (viaggi interminabili già durante il primo turno dei playoffs) che verrebbero poste da un’eventuale abolizione delle Conferences (si dovesse solo ragionare in termini di record di vittorie, dalla prima alla sedicesima), stesso vincolo che si pone per ciò che concerne la possibilità di giocare più di una gara in Europa per le squadre ospiti una volta trapiantate momentaneamente in questo continente. Infine, il commissioner conferma che il “draft” dei capitani dell’All Star Game non verrà mostrato al pubblico che non avrà modo di conoscere l’ordine di chiamata, spiegando che non si tratta di “draft” dal momento che in quest’ultimo si sceglie in prospettiva futura, contrariamente a quanto accadrà per la parata delle stelle che ha quella componente di immediatezza e di relativa chimica di squadra. Finito di ascoltare il grande capo, ci si dirige a passo svelto verso la media room dove, come da consuetudine, la calca si forma a ridosso del muro su cui è stata affissa la mappa coi posti.

Surprise surprise: l’organizzazione ha elargito credenziali a mezzo mondo, ma il numero di posti a sedere nell’arena è su per giù un ventesimo rispetto agli aspiranti partecipanti… Sulla lista il mio nome (giustamente considerata la caratura degli altri presenti) non c’è. La prospettiva è quella di tornarsene con la coda tra le gambe in media room e guardarsela su di uno schermo li. Che cazzo fare?

Le opzioni classiche sono l’aggirarsi a bordo campo in maniera del tutto lecita (come previsto dal pass
fieramente appeso al collo) senza mai fermarsi fino all’inizio della palla a due, per poi, come i bambini che fanno il gioco della sedia alle feste di compleanno, tuffarsi sul primo sedile utile e sperare,

oppure fare i vaghi e piazzarsi da qualche parte (stampa o meno) preventivamente, sperando di non essere cacciati a pedate.

Dato l’ordine di magnitudine della cosa (davvero troppe le persone rimaste senza posto), nessuna delle due funzionerebbe. Ci vuole qualcosa di diverso: dietro le postazioni stampa appositamente adibite in parterre dietro il canestro della squadra ospite, c’è un piccolo ma prezioso spazio. Dietro le sedie dei giornalisti accreditati per davvero, e davanti la balaustra che separa gli spettatori da bordocampo, c’è infatti una provvidenziale buchetta o insenatura che, per quanto scomoda, potrebbe rivelarsi fondamentale. Senza pensarci più di tanto, con un guizzo degno di un lungo minors, mi tuffo proprio lì con l’intento di non farmi cacciare.

Istantanea che documenta il momento del mio tuffo nel mini-fossato

La postazione è stata presa, ora non resta che fingersi incapaci di intendere e di volere qualora qualche addetto ai lavori si prendesse la briga di disturbare i seri lavoratori ed i tifosi attorno a noi, scavalcarli ed ostruire la loro visuale, solo per farci levare le tende. Mentre la nostra postazione resiste (evidenze fotografiche qui sotto), uno dopo l’altro, vediamo doversi allontanare tutti gli altri malcapitati nella nostra medesima situazione: qualcuno viene invitato a tentare la fortuna in piccionaia, molti altri vengono invece scortati nella media room nei corridoi fuori dall’arena. Senza cantar vittoria troppo presto, ma la strategiasta funzionando!
La partita sta per cominciare ed i due giocatori più iconici (Joelone da una parte e Kyrie dall’altra) vengono
chiamati al centro del campo per fare un discorso di ringraziamento e di apertura.

 

Embiid chiude il suo discorso con un “[…] and… Trust The Process […]” che gasa la folla. Se la maggior parte dei partecipanti sembra infatti essere a sostegno dei verdi di Boston, Joel attira tantissime attenzioni e
simpatie, sia dal Bel Paese che non:

Palla a due, è iniziata: per ciò che posso vedere (e credetemi, non è un eufemismo stavolta!), le prime battute non sono memorabili. La prima metà di gara è decisamente a tinte Philly ed i 76ers vanno sopra forte: JJ Redick è particolarmente sugli scudi e macina triple una dopo l’altra,

foto Giovanni Mafrici

Dario Saric conferma di avere delle tempie molto importanti ed un baffetto estremamente sparviero

foto Giovanni Mafrici

e Ben Simmons visto dal vivo fa impressione per alcuni dettagli del suo gioco, come ad esempio il tatto con cui mette a canestro un paio di finger-rolls dopo esser partito dal post-basso. Davvero pazzesco vedergli dare l’effetto al pallone che gli permette di scrivere 2+2 a referto: uno studioso del gioco.

foto Giovanni Mafrici

All’intervallo goliardia (il video che avrete visto e rivisto in tutte le salse del malcapitato tifoso illuso di aver
mandato a bersaglio il tiro bendato) ma anche passerelle: ci sono infatti le NBA LegendsBob Parish, Dikembe Mutombo, Richard Hamilton, il sempreverde John Amaechi (presenza fissa nell’ormai consueta kermesse londinese) e quello che, a detta dello speaker, dovrebbe essere Andre Miller. Surreale come il primo, per quanto a tratti possa sembrare imbalsamato, sembri quasi più giovane e più in forma dell’ultimo.

“E quello sarebbe Andrè Miller? Ma nooo, che cazzo dici!”

Stazza davvero importante, accostamenti cromatici che lasciano pensare a quegli anni, scoppoletta di ordinanza e soprattutto baffo e moschetta di un certo livello: Andre Miller è praticamente Carlo Pistarino.


Dikembe, con un pantalone che è, da solo, più alto di almeno due terzi delle persone presenti, è il più acclamato di tutto il gruppo e risponde sornione con sventolate di dito, sorrisoni ed occhiolini.

“Mira el dito!”

Il tentativo di fargli fare la sua posa iconica (il dito indice in diniego) recitando un laconico “COL CAZZO!”, in
italiano, anzichè “NOT IN MY HOUSE!” purtroppo non è fattibile e non riesce… In compenso, però, il nostro accetta di sventolare il dito per tutti i suoi fan italiani, come potete vedere nella gif qui sotto. 

La partita riprende, e nella sua seconda metà la musica cambia: i cori ritmati “Let’s go Celtics!” si fanno
sempre più forti e frequenti mentre i verdi acciuffano i rivali e poi prendono vantaggio.

Kyrie Irving mostra sprazzi di ciò che può fare e, quando va in lunetta, l’arena intona il coro “MVP, MVP!

Quando ormai il verdetto della partita sembra ormai segnato, un accenno di rissa a regalare un ultimo
sussulto se tale si può definire,


prima di lasciare spazio al garbage time spinto, con le riserve delle riserve a calcare il parquet, sul quale verrà sancito un risultato finale di 113 a 104 per i Celtici in rimonta.

A fine partita, a bordo campo e nei pressi del parquet, la calca si forma accanto alle numerose stelle o presunte tali dell’universo Premier League. Noi, vantandocene, non ne riconosciamo nemmeno una! A dirla tutta una sì, in parterre c’è Sir Alex Ferguson ma, tolto lui, nonostante di Spurs si tratti, non sono in grado di riconoscere giocatori del Tottenham.



In compenso però, tre grosse figure (letteralmente, non solo da un punto di vista di importanza cestistica) si
stagliano nei pressi del parterre e si aggirano nella sbalorditiva indifferenza generale: trattasi di Dinone Radja (qui sotto sorpreso in un caloroso colloquio con The Chief), Stojko Vrankovic ma soprattutto Arvidas Sabonis, contento di essere riconosciuto come la squadra sotto di 30 quando il coach avversario chiama time-out a pochi secondi dalla fine.

Robert Parish con Dino Radja
Arvidas entusiasta per la foto

Nella conferenza post-partita non ci sono grossi sussulti: domande piuttosto standard, frasi di circostanza sul tifo, sull’esito della gara, sugli obiettivi stagionali.

Kyrie, che quando risponde guarda in un punto non ben determinato nel vuoto come a leggere da uno script mentale, schiva le domande su LeBron e sulla finale ed accenna alla fisiologica stanchezza per il viaggio.

foto Giovanni Mafrici

La tentazione di domandargli se il fatto che la Terra sia da considerarsi piatta abbia influito o meno sulla pesantezza del viaggio è tanta ma, (s)fortunatamente, non c’è tempo.

Sorridente anche Joelone, che risponde alla prima domanda in francese, ma al contempo si dice piuttosto
deluso, da giocatore internazionale quale è, di “aver fatto schifo” stasera. Per lui la domanda avrebbe potuto essere fatta ricollegandosi al discorso selezione squadre dell’ASG da parte dei capitani, discusso in dettaglio con Silver prima della palla a due, ma anche qui il tempo è poco e la voglia di buttarsi all’after da parte dei giocatori è tanta.

foto Giovanni Mafrici

Lasciato il “palazzo” si percepisce ancora quell’atmosfera unica, e ci sono davvero tanti ma tanti appassionati, tra i quali si distingue questo signore che ci tenevo a far comparire nel pezzo.

La folla si avvia verso la tube ed inizia a disperdersi, le persone di un certo livello guadagnano il loro accesso al party post-partita, e anche questa pagina è stata scritta.

Di rapina, di baruffa, di gazzarra… Ma c’eravamo anche noi, sperando, nel raccontarvi questo evento in maniera non convenzionale, di avervi strappato qualche risata.

Saluti da London.

#GLOBALGAMESTIPO #LABUCHETTA #SALUTIDALONDRA
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About Author

Valerio D'Angelo

Ingegnere romano malato di palla a spicchi. Lavoro a WhatsApp (ex-Google, ex-Snap, ex-Facebook) e vivo a Dublino, in una nazione senza basket, dal 2011. Per rimediare ho scritto il libro "Basket: I Feel This Game", prefazione del Baso. Ho giocato a calcetto con Pippen e Poz, ho segnato su assist di Manu Ginobili, ho parlato in italiano con Kobe in diretta in una radio americana e mi e' stato chiesto un autografo a Madrid pensando fossi Sergio Rodriguez.

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