Tra 30 anni, quando gli Springfield Isotopes vinceranno le prime 25 partite della stagione e stabiliranno il nuovo record per la miglior partenza in NBA, strappandolo dalle mani dei Golden State Warriors 2015/16, i nostri figli o nipoti andranno a rileggere sui siti specializzati o sugli almanacchi (sempre che esistano ancora) il roster e i numeri di quella squadra destituita dalla storia dopo anni di leggenda, proprio come noi abbiamo fatto con gli Houston Rockets del 1993/94. Si stupiranno dei numeri di Stephen Curry e torneranno a cercare un po’ di suoi highlights, scopriranno delle triple doppie di Draymond Green, rimarranno sorpresi dalla percentuale da tre punti o dallo scarto medio sugli avversari e ricorderanno con rispetto coach Steve Kerr, capace di condurre quella squadra al titolo al suo primo anno in panchina e di compiere una tale partenza l’anno successivo, diventando anche il coach più vittorioso della storia nelle prime 100 partite di regular season della propria carriera da allenatore, con ben 85 vittorie a fronte di 15 sconfitte. Già, perché nelle statistiche dei libroni e dei server all’Olympic Tower la grande partenza dei Warriors nell’autunno del 2015 rimarrà sempre legata al nome di Steve Kerr. Pochi invece si ricorderanno come in realtà Kerr, durante quella storica striscia di vittorie che sembrava non dovesse finire mai, in panchina non ci fu neanche.

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Così come invece a livello di numeri non rimarrà traccia di questa striscia di vittorie nel conto carriera di Luke Walton, il primo allenatore di sempre a vincere il titolo di Coach Of The Month senza di fatto vincere neanche una partita. La NBA, per una questione di “comodità statistica”, assegna le vittorie degli interim coach al conto carriera dei loro head coach. E’ per questo motivo, per esempio, che nel momento in cui Ettore Messina comincerà (come speriamo tutti) una carriera da capo allenatore in NBA, il suo record partirà da 0-0, mentre le due vittorie ottenute l’anno scorso contro Indiana e Memphis sono già state inglobate nel mare di W raccolte in carriera da Gregg Popovich, di cui faceva le veci in quelle due partite. Però la Lega apre a chiunque figuri nello staff tecnico, quindi anche gli assistenti allenatori, la possibilità di essere considerati per riconoscimenti individuali. Ecco perché Luke Walton è diventato protagonista di qualcosa di fin qui unico e probabilmente irripetibile: vincere un premio come miglior allenatore senza essere considerato dalla NBA, in meri termini statistici, neppure un allenatore. Quando dopo qualche vittoria ci si è iniziati a rendersi conto che davvero i Golden State Warriors avrebbero potuto infilare una striscia da record, in parecchi hanno cominciato a domandarsi se la Lega avrebbe fatto un’eccezione, vista la straordinarietà del caso, assegnando queste vittorie e l’eventuale primato al legittimo proprietario. La striscia record alla fine è arrivata, l’amnistia della NBA no: proprio ieri, poche ore prima di annunciare ufficialmente Walton come scontatissimo coach del mese per la Western Conference, dalla Olympic Tower hanno confermato definitivamente che qualsiasi vittoria o sconfitta raccolta dall’ex giocatore dei Lakers verrà reindirizzata verso il bottino di Steve Kerr.

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Walton in queste settimane ha detto di non essere assolutamente infastidito da questo cavillo che lo priverà di un record che ha conseguito con pieno merito sul campo e del primato di striscia più lunga di vittorie per un coach esordiente, che rimarrà invece saldamente nelle mani di Lawrence Frank (nel 2003/04 subentrò a Byron Scott alla guida dei New Jersey Nets a gennaio e li guidò da 22-20 a 35-20 con 13 vittorie consecutive). Ha sempre ripetuto che la cosa importante fosse che la squadra continuasse a vincere e a crescere, e addirittura ha trovato il modo di scherzarci su in più di un’occasione: dopo la vittoria in casa dei Clippers, uno dei capolavori di questo inizio di stagione, una giornalista gli ha chiesto se questa cosa lo infastidisse o meno e Walton ha risposto ridendo che per lui era ok che le sue vittorie andassero a beneficio di Steve Kerr, a patto che però Kerr gli pagasse le multe dei falli tecnici che lui prendeva facendone le sue veci. Parlando più seriamente però Walton ha sempre considerato giusto che i meriti venissero tributati, anche statisticamente, a Steve Kerr: «A me va benissimo così, questa è la sua squadra, tutto questo l’ha messo in piedi lui, io sto solo godendo i frutti del suo lavoro. E poi, con tutto quello che Steve ha fatto per me, mi sembra il minimo che queste vittorie vengano assegnate a lui. A volte è un po’ amara come sensazione: mi sento quasi colpevole, perché noi siamo lo staff che lui ha messo assieme e stiamo solo mandando avanti la macchina che lui ha costruito, e se ci stiamo divertendo così tanto e stiamo avendo tutto questo successo e riconoscimento è solo grazie a quello che lui ha fatto prima, sono meriti che dovrebbe avere lui».

Uno dei motivi del grande feeling e della perfetta sintonia che unisce Walton e Kerr è la stessa ironia che li contraddistingue: «Per un po’ di partite ho ricevuto un sms a fine match da parte di Steve con scritto “Thanks for another one”, oppure se era presente al palazzo ci diceva “Andate a vincermene un’altra ragazzi” prima che entrassimo in campo per il prepartita». Ma una volta messe da parte le battute, Kerr è il primo ad essere convinto che questa regola attuata dalla NBA non sia giusta: «Credo sia ridicolo. Io sono seduto nello spogliatoio a vedere la partita in tv e non viaggio neppure per gran parte delle partite in trasferta. Luke sta facendo tutto il lavoro assieme al resto dello staff, perciò è la regola più idiota che abbia mai visto, ad essere onesto non la capisco neppure».

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Steve Kerr ha creduto ciecamente in Walton come suo sostituto, prendendosi un periodo sabbatico per curare i propri problemi alla schiena dopo le operazioni subite in estate, ancor più di quanto Walton stesso credesse in sé. «Quando ho ricevuto l’incarico ho pregato e sperato che Steve tornasse il più presto possibile. Nelle prime partite ero completamente ansioso, poi sono passato ad essere solamente nervoso, ora sono molto più tranquillo e a mio agio, grazie anche ai ragazzi. E’ una sfida enorme, sei costantemente sotto pressione ed è un compito completamente diverso da quello dell’assistente, sei chiamato a prendere tantissime decisioni e in pochissimo tempo». Ma Kerr, che aveva accolto Walton nel suo staff quasi per caso nell’estate del 2014 nonostante non avesse quasi esperienza, non era stato l’unico a vedere la stoffa dell’allenatore nel figlio del grande Bill. La cosa peraltro non risultava particolarmente difficile anche vedendolo giocare: intelligente, altruista, con visione di gioco e buona tendenza a prendere la scelta giusta. Anche Kobe gli aveva pronosticato un grande futuro in panchina: «gli dicevo che sarebbe diventato il prossimo Phil Jackson». Lo stesso “Maestro Jedi”, come lo chiama Walton, aveva notato in lui la stoffa del grande allenatore: «Nel 2009/10 quando ho avuto problemi cronici alla schiena Phil mi vide depresso e mi convocò ad una riunione degli allenatori assieme a lui e al suo staff. Mi prese da parte e mi disse che una cosa simile era accaduta anche a lui, e che aveva iniziato ad allenare fino a quando non ha superato i suoi problemi fisici. Quindi ho iniziato ad aiutare Phil con alcuni giochi fino a quando sono rimasto fuori. E’ stato lì che ho realizzato che sarebbe stato qualcosa di divertente da fare una volta che i miei giorni da giocatore fossero finiti».

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In realtà Walton ha poi assaggiato la vita da allenatore prima ancora di ritirarsi. Durante il lockout del 2011, mentre alcuni giocatori andavano a giocare all’estero o aspettavano allenandosi la fine della serrata, l’allora giocatore dei Lakers si è fatto assumere come assistente allenatore in NCAA, a University of Memphis, dove allenava Josh Pastner, suo ex compagno all’università ai tempi di Arizona. Dopo aver concluso la sua carriera da giocatore a Cleveland, due anni fa è diventato “players’ development coach” nei Los Angeles D-Fenders, squadra abbinata ai Lakers in D-League, e contemporaneamente analyst part-time in tv. L’estate successiva, dopo qualche colloquio per diventare assistente di Derek Fisher ai Knicks, ha chiesto a Phil Jackson il numero di Kerr e di fargli da mentore, e dopo qualche scambio di chiamate si è ritrovato nella Baia. Dopo solo un anno di esperienza da allenatore, era già entrato a far parte di uno staff tecnico NBA, con cui poi a fine stagione avrebbe vinto il titolo, lui che ne aveva già vinti due anche da giocatore. E ora, a soli 35 anni, ovvero meno ancora di quanti ne avesse Brad Stevens quando venne presentato a Boston con la meritata etichetta di “giovane fenomeno” della panchina, si trova ad essere parte attiva di una delle più incredibili strisce vincenti nella storia della Lega dopo aver già guadagnato il rispetto di tutti i suoi giocatori. In preseason, con Walton fresco di nomina di interim coach, Golden State aveva perso 4 delle 7 partite giocate, alcune anche con scarti larghi. In tanti erano pronti a disintegrarlo al primo passo falso in una partita ufficiale. Eppure al momento di fare sul serio si è trovato pronto. «E’ merito di Steve: se fosse uno di quegli allenatori che vogliono fare tutto da soli adesso sarei completamente perso. Un sacco di allenatori non amano dare troppo potere ai propri assistenti, ma Steve ci sempre dato un sacco di poteri e di responsabilità, cercando di coinvolgerci il più possibile». Per questo motivo Steve Kerr può pensare senza pressioni a guarire bene e con calma, sapendo che la sua squadra è in ottime mani.

Voci dicono che l’allenatore titolare dei Warriors potrebbe rientrare al suo posto a inizio del 2016, altre ancora rimandano un suo ritorno addirittura a dopo la pausa dell’All Star Game. In quel caso, se Golden State dovesse continuare con ritmi simili, Luke Walton -pur continuando a passare tutte le vittorie e le sconfitte sul conto di Steve Kerr- potrebbe addirittura diventare un serio candidato per il titolo di Coach Of The Year. Così tra 30 anni, quando ancora si parlerà della striscia di vittorie dei Warriors di coach Kerr, si potrà raccontare anche la storia di Luke Walton, colui che diventò coach del mese, e forse dell’anno, senza vincere una singola partita.

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Mario Castelli

Classe (poca) 1988, saronnese, ex giocatore. Ma molto più ex che giocatore. Non so scrivere presentazioni, anzi non so scrivere e stop. Mi domando da tempo perchè i video dei Kings del 2002 e degli Spurs del 2014 non si trovino su Youporn, ma non riesco a darmi risposte. Vivo per guardare partite, guardo partite per poter mangiare e mangio per vivere. Ma anche vivo per mangiare, mangio mentre guardo partite e guardo partite per guadagnarmi da vivere. Maledetti circoli viziosi.

6 comments

  1. Forse non è proprio il sito più adatto ma mi pare che non compaia su nessun annuario del basket italiano e ve la voglio raccontare. Nel 1958 una partita di Serie A (si chiamava così) a Roma fra Stella Azzurra e Varese fini dopo quattro tempi supplementari a due contro due, come su un campetto di periferia fra amici, perché erano usciti per cinque falli otto giocatori per parte. Vinse il Varese (Storm ?) in cui restarono in campo Tonino Zorzi e Nesti. Nella Stella Azzurra due ragazzi uno dei quali mi pare fosse Volpini e l'altro naturalmente l'ultimo della panchina.

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