leggi QUI il 2° episodio di Allenare i bambini in Cina

leggi QUI il 3° episodio di Allenare i bambini in Cina

 

 

 

Il mio primo incontro con il basket cinese avviene una sera di ottobre. Corre l’anno 2014. Mi trovo nella città di Chengdu, capitale del Sichuan, nella Cina centrale; città famosa per tre cose: Hot food (nel senso piccante), hot ladies (in quell’altro senso…) e Panda…

Sono in viaggio da circa tre mesi. A giugno mi sono licenziato e, agli inizi di agosto, zaino in spalla, sono partito con l’intenzione di arrivare in Australia senza prendere aerei. Vivevo a Milano e facevo: “l’operatore sportivo”, o almeno così c’era scritto sulla mia carta di identità. Il lavoro più bello del mondo… diviso tra personal trainer alla mattina ed allenatore minibasket e basket al pomeriggio e alla sera.

Chengdu intanto promette bene, sembra una città viva e, con alcuni ragazzi conosciuti all’ostello, decidiamo di esplorare la movida notturna cinese, non tanto per l’hot food, quanto piuttosto per le hot ladies…Capitiamo presto nella discoteca più affollata della città. Un assembramento di occhi a mandorla ubriachi che mai avevo visto prima. Tra una birra e l’altra noto un gruppo di ragazzi di colore, probabilmente afroamericani, attorniati da una dozzina di donzelle cinesi che così belle non le avevo mai viste. Sembrano “frequentatori assidui” del posto e così penso subito a cosa diavolo ci facciano lì a Chengdu. Traggo due rapide e meschine conclusioni…O sono giocatori di basket, o vendono erba…

Aiutato dalla quarta birra, prendo lo slancio necessario e mi avvicino al fratello con la faccia meno incazzata e, con una titubanza che mi fa vergognare di essere nato, gli chiedo se …“lavorano in zona” … Il fratello con molta calma ma sempre senza sorridere mi risponde: ”Man..We are Ron Artest’s friends…Do you want some weed?”…La serata decolla…

Torno in ostello qualche ora dopo…senza hot food…senza hot ladies (prevedibile!) … ma almeno ho trovato gli amici del Panda…

Chengdu

Il viaggio continua…Raggiungo l’Indonesia via terra in sei mesi, poi, a corto di soldi e dopo aver perso la carta di credito, compro un volo aereo per l’Australia, dove mi fermo un anno a lavorare. Caricare camion e smontare frigoriferi sono le principali mansioni ma trovo anche tempo di fare gli allenamenti con alcune squadre Minors locali nella città di Adelaide. Il basket in Sud Australia viene dopo: il football australiano, il nuoto, il rugby ed il calcio. Il concetto di Minors è talmente Minors che il campionato si chiama “Social activity” ed infatti più che l’allenatore, mi sembra di fare il volontario in un centro di recupero per ex tossico dipendenti e cardiopatici. Ogni tanto salta fuori qualche slavo, nipote di immigrati degli anni cinquanta, unica gioia in una fauna di aborigeni rissosi ed asiatici sottodimensionati. Finita l’esperienza in Australia, inizio il viaggio di rientro in Italia. Volo a Singapore e poi da lì faccio autostop fino a Milano. Impiego dieci mesi per rientrare a casa. Dieci mesi di scoperte ed avventure incredibili.

Il 10 dicembre 2016 arrivo a Casa. Ricomincio subito ad allenare. Sono in debito PAO di almeno venti crediti, così senza poter andare in panchina, collaboro come vice e preparatore fisico con una squadra femminile di Milano, militante nel campionato di Serie B. Ragazze stupende. Vinciamo la Regular season ma perdiamo in semifinale playoff. Curioso, con le regole di quest’anno saremmo saliti in A2.

Finito il campionato ricevo diverse offerte di lavoro, tutte interessanti e stimolanti ma l’idea di dovermi rimettere a fare quello che già facevo prima di partire, nella stessa città in cui lo facevo e nella quale lo farò probabilmente fino alla morte (non credo vedrò mai la pensione, come molti altri impiegati nel settore sportivo…) non mi convince. Capisco che le due cose che più mi piacciono al mondo, hot ladies di Chengdu escluse, sono: la pallacanestro e viaggiare… Decido quindi di allenare all’estero. Penso immediatamente alla Cina per tre motivi: il basket è lo sport più popolare (ed essere lo sport più popolare in una nazione che ha il 15-20% della popolazione mondiale garantisce una discreta quantità di praticanti), l’economia vive una crescita mostruosa e pagano bene ed in ultimo ho attraversato la Cina durante il mio viaggio, da Nord a Sud e da est a Ovest, letteralmente innamorandomene.

Inizio così una meticolosa ed estenuante ricerca di un impiego nella terra di Yao Ming (ma anche Whang Zhi Zhi…). Un ragazzo americano ed una ragazza bielorussa, entrambi insegnanti di inglese incontrati durante il mio viaggio in Cina, mi danno qualche dritta su come impostare la ricerca in maniera efficace. In particolare mi consigliano un sito con offerte lavorative nelle principali città cinesi… Mi si apre un mondo… Richiestissimi insegnati di inglese ma anche maestri di educazione fisica ed allenatore di basket e calcio. Stipendi che vanno dal buono al “mi gira la testa” e contratti lavorativi che includono: casa, spesa per il visto, assicurazione medica e volo di rientro al completamento del contratto. Trovo le offerte più vantaggiose ed inizio ad affinare la ricerca. La Cina ha un’estensione maggiore dell’Europa. Insomma una nazione dove a nord è come essere a San Pietroburgo mentre a sud a Palermo… Diciamo che potendo scegliere, una città sul mare con il clima mite e l’inquinamento basso mi piacerebbe molto di più di una grigia località industriale nelle regioni del nord, dove d’inverno si va a meno trenta facile (sia sul termometro che in partita). Mi ci vogliono cinque mesi e diverse rotture di scatole presso il consolato cinese a Milano prima trovare la soluzione migliore. A metà agosto ricevo dal mio datore di lavoro cinese un visto di ingresso per la Cina. Il 29 agosto parto con un volo di sola andata per Shenzhen, a sud della Cina. Città questa volta famosa per: soldi, import export ed immigrate russe ed ucraine(comunque meglio dei panda)…

Shenzhen

Arrivo in città il 30 agosto e vengo accolto da un omino della mia agenzia di nome Wayne, che mi parcheggia in un albergo in centro, pagato da loro, nell’attesa che mi venga assegnata l’incarico. Causa la scarsa organizzazione cinese passano tre settimane prima di avere il primo colloqui nella scuola dove andrò ad insegnare. Giusto il tempo di ambientarmi in città e fare nuove amicizie con altri insegnati ed “espatriati”. Incontro la direttrice e tutti i suoi scagnozzi in un ufficio enorme, al quinto piano di una scuola elementare che, sebbene sia pubblica, vanta due campi di calcio a 7 in erba, un campo da basket all’aperto, un palazzetto, un teatro e la mensa per i docenti. Solo la capa della sicurezza parla inglese e traduce tutta la conversazione. Stanno cercando un allenatore di basket che faccia lezioni di basket durante le ore scolastiche ed alleni la squadra della scuola, cioè i sedici-venti migliori prospetti, selezionati dal mio “futuro assistente”, sui 1500 studenti della scuola. Faccio finta di essere contrariato all’idea di non aver potuto scegliere io i giocatori ma in realtà in quel momento, nel mio cervello, i miei neuroni stanno ballando la Samba. Ho sette ore di lavoro settimanali con quarte e quinte elementari e quattro allenamenti pomeridiani con la squadra della scuola. Per un totale di dodici ore lavorative settimanali. In Italia per quello stipendio dovevo lavorare dodici ore al giorno.

Le ore scolastiche procedono lisce con la sfilza di giochi ed esercizi imparati dal Prof. Mondoni ed ai clinic di Cremonini, questa volta però spiegati inglese e mai realmente capiti dai miei piccoli alunni, molto più concentrati a ripetere ogni cosa che dico. Purtroppo mi scappa anche qualche “What a fuck” ogni tanto, puntualmente ripetuto dalla secchioncella della classe, che probabilmente pensa sia una esclamazione di incoraggiamento. Da un paio di settimane cerco di incazzarmi in italiano infatti. La squadra di basket invece, tutt’altra storia. Lì mi sento proprio nel mio habitat e poi devo gestire solo sedici giocatori a confronto di una classe cinese che generalmente conta da quarantacinque ai cinquanta bambini.

Il campo d’allenamento

Mi presento al primo allenamento in largo anticipo, voglio vedere i ragazzi e parlare con Mr Cheng, ex allenatore della squadra, nonché mio nuovo assistente. Mi allunga due fogli con l’elenco dei giocatori, tutto scritto in cinese e mi dice subito di chiamarlo “G” (una roba del genere) che si tradurrebbe in “Zio”, in quanto ha una decina di anni più di me. Io continuo a chiamarlo coach, non riesco proprio a chiamare una persona con una lettera.

L’elenco dei giocatori

Svolge lui il primo allenamento mentre io guardo i ragazzi. Vengo immediatamente assalito da forti emozioni di malinconia e gioia. Mi mancava allenare il settore giovanile. Mi mancavano quelle giovani facce così determinate e vogliose, realmente innamorate della palla. Desiderose e sognanti di diventare giocatori professionisti. Ragazzi che giocano con un sogno e per un sogno. Li adoro già… Non sembrano tanto diversi dai ragazzi che allenavo in italia; c’è quello grassoccio con la mano buona, il lungo scoordinato, il nanerottolo che sguscia via a tutti, quello indietro nello sviluppo che però diventerà buono e quello coi baffi (per la verità pochi in Cina) e i muscoli che sembra abbia sette anni più degli altri.

Spesso in assenza di pettorine si gioca con la divisa della scuola, che generalmente viene usata tutta la settimana

Tra malinconia e riflessioni varie vedo che il livello sembra essere davvero basso e già a metà allenamento capisco il perché. Il primo tremendo esercizio di Mr Cheng è un 10 minuti di corsa intorno al campo palleggiando. Roba che se lo vede Cuzzolin, gli spara direttamente per estinguerne la specie. Io mi mordo la lingua e non intervengo ma chiedo a Mr Cheng quantomeno di fargli usare anche la sinistra. Il secondo esercizio è una roba tipo cento addominali e cinque minuti in posizione di squat. Le facce dei ragazzi sono determinate ma i goccioloni di sudore che gli scendono lungo le guance sono direttamente proporzionali all’acido lattico che stanno accumulando nei quadricipiti. Qualcuno invoca pietà, altri continuano con orgoglio. Il terzo esercizio è un tic tac a due terminato in terzo tempo (generalmente sbagliato o viziato da infrazione di passi) ad una intensità vergognosamente bassa ma comprensibile dopo cinque minuti di squat statico.

L’allenamento finisce col botto, mezz’ora di cinque contro cinque con le squadre che difendono a zona. Mr Cheng mi spiega con orgoglio il suo sviluppato senso tattico dicendo che non avendo nessun “BIG MAN” ci conviene difendere a zona. Io sorrido pensando che in Italia la zona è vietata nella categoria esordienti. Cosa posso rispondergli? Parla inglese malissimo ed io in cinese so dire solo: Ciao, Grazie e quanto costa? Come posso spiegargli che è una stronzata micidiale? In più il mio programma di insegnarli le corrette partenze in palleggio nei primi mesi è appena saltato in quanto mi accorgo che nessuno fischia passi di partenza. Sarebbe controproducente insegnargli una corretta partenza.

L’allenamento finisce con la mia presentazione ufficiale. Tutti sorridono ma nessuno mi guarda negli occhi a parte quello coi baffi, che ovviamente sarà il capitano. In ultimo facciamo l’urlo di squadra. Un impronunciabile scioglilingua cinese che si traduce in un tremendo: “Orgoglio e libertà!!!” (orgoglio ok… ma libertà… in Cina poi).

Il secondo allenamento è roba mia. Il primo obiettivo è scoprire i nomi, in quanto dall’elenco scritto in cinese riesco a leggere solo il mio. Man mano che arrivano inizio a chiedergli come si chiamano. Fortunatamente hanno quasi tutti un nome inglese, a volte deciso dai genitori a volte da loro stessi in base al gusto o alla somiglianza con quello cinese. Il baffetto si chiama Billy, il nano malefico Mike, il lungo scoordinato ancora non lo sa e mi fa capire che me lo comunicherà al prossimo allenamento (si chiamerà Jackson), poi ci sono Tom, Dany, Bobby, un raccapricciante Lochtar (chissa dove diamine l’ha preso…), Jimmy.

Little Mike: l’anello di congiunzione tra Pozzecco e gli occhi a mandorla
Lochtar & Billy: il 95% dei punti di squadra

Uno non sa come farsi chiamare allora decido di chiamarlo Eddy perché da come gioca, mi ricorda un ragazzino che allenavo anni fa di nome Edoardo. Poi ci sono i miei due lunghi panzoni. Non sanno come chiamarsi. Penso subito a qualche possibile nome da dargli: Tom & Jerry, Cip & Ciop, Goku & Vegeta ma alla fine opto per un più solenne ed imponente: Yao & Ming. Yao è evidente che non supererà il metro e sessantacinque, mentre Ming sorridente mi dice spesso: ”My fathel vely tall!!!”, quasi a rassicurarmi di avergli scelto il nome giusto.

Yao & Ming

L’allenamento procede alla grande tra esercizi sui fondamentali e qualche giochino divertente per rallegrare l’atmosfera militaresca. Mr. Cheng capisce che in un’ora di allenamento si possono fare più di tre esercizi. Mentre i ragazzi scoprono che ci si può anche divertire. Io invece mi ritrovo ad allenare in inglese. A dover dimostrare gli esercizi molto di più che in passato perché quello che dico è capito solo al 10%. Invento nuovi approcci comunicativi. Il tono della mia voce risulta ancora più importante, la gestualità fondamentale, la mia mimica facciale è imprescindibile. “Usain Bolt” è la parola chiave per fargli capire di andare più veloce. “Write Hand” vuol dire destra, visto che left e right proprio non gli entra in testa. Sento che tutto questo, mi sta insegnando molto di più di quanto mi immaginassi. Potrei scrivere alla federazione e chiedergli di abbonarmi i punti PAO persi quest’anno.

Finiamo l’allenamento con un nuovo urlo. Il serio e triste “Onore e libertà” viene sostituito da un più sobrio: “One Two Three… Mamma Miaaaa!!!” urlato con passione e divertimento da tutti i ragazzi. Mr Cheng si complimenta con me e poi mi dice che tra novembre e dicembre dovremmo partecipare ad un campionato tra scuole locali… Non potevo sentire frase più bella di quel: “Novembel, decembel, MATCH!!”

Abbiamo tantissimo da lavorare ma sinceramente non vedo già l’ora del prossimo allenamento.

La mia squadra al completo
scritto da Claudio Piani

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