Arrivando a ogni nuova città,

il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d’avere:

l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti.

Italo Calvino, “Le Città Invisibili”

 

Non ho la presunzione di ergermi a novello Marco Polo che, come nell’opera di Calvino, trasporta l’imperatore Kublai Kan in un viaggio immaginario tra le città che ha incontrato nella sua vita. Il viaggio che vi propongo attraversa città “visibili”, scorge i canestri che spuntano tra i grattacieli e prova a farvi guardare l’America seguendo il filo rosso dell’amore che, se siete qui a leggere, ci lega nel profondo: il basket.

8000 chilometri, 80 ore di auto, 8 tappe. Un viaggio realizzabile più in linea teorica che pratica, ma che magari potrà essere uno spunto se e quando l’Oceano Atlantico lo varcherete sul serio o anche soltanto per scoprire storie ed angoli della culla del basket.

Enjoy!

P.S.: non è una guida Lonely Planet, abbiate pietà!

 

1° tappa: Chicago

To leave all we’ve ever known

For a place we’ve never seen

Maybe things will be better in Chicago

Tom Waits, “Chicago”

 

Chicago è la città del vento. E non perché si faccia riferimento al suo clima. La sua storia politica è pittoresca e i suoi politici, noti come “palloni gonfiati” poiché sono pieni di “aria calda”, danno a questa città il suo soprannome.

Chi però ha cavalcato il vento di Chicago è Sua Ariosità, Michael Jordan, che per oltre un decennio ha legato la sua grandezza a quella di una città che continua a portare i segni del suo passaggio.

Meta di pellegrinaggio per ogni devoto di MJ è ovviamente “The Spirit”, la statua che, dal 1994, è posizionata davanti allo United Center, fuori dal Gate 4. L’opera, realizzata dai coniugi Omri e Julie Amray, fu commissionata dall’allora owner dei Bulls Jerry Reinsdorf dopo il primo ritorno di Jordan nel 1993. Dodici artisti presentarono la loro proposta ma, a gennaio 1994, venne scelta quella della coppia di origine ebrea e la statua, che raffigura MJ nella sua posa più famosa, è stata svelata al mondo pochi mesi dopo l’apertura della nuova arena chicagoana, che non a caso viene chiamata “la casa che Jordan costruì”. Alla base della statua trova posto il lungo elenco di riconoscimenti ricevuti da His Airness nella sua irripetibile carriera e una frase, tratta dal film di Robert Redford “In mezzo scorre il fiume” aggiunta dopo il suo secondo ritiro, nel 1998:

In quel momento capii chiaramente che stavo assistendo alla perfezione. Lui si fermò davanti a noi, sospeso sopra la terra, libero da tutte le sue leggi come un’opera d’arte. E io capii, con la stessa chiarezza, che la vita non è un’opera d’arte e che quel momento non poteva durare.

Vi ricorda qualcosa?

The Spirit
The Spirit

Se dopo tutta questa poesia vi viene fame, Air in persona può cucinare per voi bistecche e patatine e servirvi del buon whiskey alla “Michael Jordan Steak House”, ristorante di proprietà dello stesso MJ. E magari, se vi resta qualche spicciolo, potete acquistare la piccolissima tenuta che si trova a 37 chilometri da Chicago, ad Highland Park: 56 mila metri quadrati, 15 bagni, un campo da basket regolamentare, campo da tennis, buca da golf e pure la stanza per fumare i sigari. Fatevi un giretto virtuale, intanto…

 

 

2° tappa: Indianapolis

I’m comin home It’s plain to see
I still got Indiana soul in me

Jackson 5, “Goin’ Back To Indiana”

Se esistesse una “Indiana soul”, di sicuro sarebbe a spicchi. Nello stato degli Hoosiers (il termine sembra provenire dal saluto tradizionale con cui i primi pionieri accoglievano i visitatori: Who’s here?), il basket è praticamente una religione. E se il basket è una religione a Indianapolis, la capitale dello stato, il suo tempio è sicuramente l’Hinkle Fieldhouse.

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La Hinkle Fieldhouse

Quando venne inaugurata, nel 1928, era il palasport più grande d’America, con i suoi 10 mila posti (roba che in Italia facciamo ancora fatica a vedere). Nacque col nome di Butler Fieldhouse, proprio perché casa dei Bulldogs, prendendo il nome attuale solo nel 1971, quando si decide di intitolare il palazzo a Tony Hinkle, storico coach che per 41 anni guidò la squadra universitaria.

La Hinkle Fieldhouse fa parte dell’Historic National Landmark, la lista degli edifici storici di livello nazionale stilata dal governo. E lo deve anche al “Milan Miracle”, raccontato dal celeberrimo film “Hoosiers – Colpo Vincente”. Nel 1954, la minuscola Milan High School (162 iscritti) fu il più piccolo liceo a vincere il campionato dello stato dell’Indiana. Al ritorno nella minuscola cittadina (1.500 abitanti) a 130 km dal capoluogo erano in 40 mila a festeggiare l’impresa che, nel 1986, ha ispirato il film interpretato da Gene Hackman. Il film ha utilizzato l’Hinkle Fieldhouse stessa e la voce dei suoi speaker ufficiali, Hilliard Gates e Tom Carnegie, in alcune scene cruciali della pellicola.

Se siete di strada, fermatevi a Milan (pronuncia esatta: Mailan) e fatevi un giro all’Hoosiers Basketball Museum, dove sono conservate le canotte della squadra che compì l’impresa ma anche cimeli delle avversarie dell’epoca e molto altro. Anche gli Indiana Pacers sono in piena Hoosiers-mania, volete resistergli voi?

George Hill con la canotta "Hickory" che indosseranno i Pacers quest'anno
George Hill con la canotta “Hickory” che indosseranno i Pacers quest’anno

 

 

3° tappa: Thompson

The beauty that the sun creates is something that words cannot describe.

To me, one of the great satisfactions of living in the country is that you can get the real beauty of the sun,

without the obstruction of the smoke.

Maurice Stokes

Sulla strada che porta a New York, dobbiamo fare un paio di deviazioni. La prima ci porta all’estremo nord degli Appalachi, sui monti Catskill, a circa 200 chilometri dalla Grande Mela. A Thompson, paesino di poche migliaia di anime meta principale del turismo degli ebrei newyorchesi, sorgeva il Kutsher’s Hotel. Negli anni ’50, grazie all’attività di Milton Kutsher, era diventato punto di ritrovo dell’alta società e delle stelle dello sport. Red Auerbach (che fu direttore dell’area sportiva del residence) e Wilt Chamberlain erano di casa, Muhammad Alì si ritirava spesso da quelle parti ad allenarsi e negli ampi saloni del resort non era raro imbattersi in concerti di Duke Ellington e Louis Armstrong.

Wilt Chamberlain e Milton Kutsher
Wilt Chamberlain e Milton Kutsher

Fu questa fama a spingere Jack Twyman, nel 1958, a contattare Kutsher proponendogli di realizzare un All Star Game di beneficienza per reperire i fondi per aiutare Maurice Stokes, star e compagno di squadra ai Cincinnati Royals costretto in un letto d’ospedale per colpa di un’encefalopatia. Un campo di asfalto e Wilt ad anticipare le meraviglie che avrebbe fatto vedere tra i pro negli anni successivi. Ma anche Bob Cousy, Bill Russell e John Havlicek.

Un successone.

Stokes restò in vita fino al 1970 grazie alle cure finanziate con il match che, negli decenni successivi, progressivamente andò sgonfiandosi insieme alla fame dell’hotel che ispirò il film “Dirty Dancing”. Clyde Drexler fu Mvp della partita, che continuò ad avere scopo benefico, nel 1988 e nel 1999, quando Chamberlain morì, l’iniziativa si concluse.

L’hotel è stato chiuso e venduto ad un magnate indiano che vuole costruirci sopra un centro yoga. Andate e meditate, gente…

 

4° tappa: Springfield

One day you might look up and see me playing the game at 50.

Oh don’t laugh.

Never say never.

Because limits, like fears are often just an illusion. 

Michael Jordan, discorso alla cerimonia di inserimento nella Hall of Fame

 

Continuiamo a veleggiare nell’entroterra e sbarchiamo in Massachusetts, non lontano da Boston. Springfield, la culla della basket, il luogo dove mosse i primi passi a partire dalla prima, storica partita data 1891.

E non poteva che trovare posto a Springfield il Naismith Memorial Basketball Hall of Fame, il museo che celebra le più importanti personalità del basket mondiale. Nato nel 1959, dopo vari cambi di sede nel 2002 è arrivato nell’edificio attuale, che, non a caso, sorge in Hall of Fame Avenue. Il nuovo edificio comprende al centro una enorme struttura semisferica argentata che si sviluppa su diversi piani. 40 mila metri quadrati di immersione totale nella storia del basket, con angoli interattivi, cimeli, narrazioni e pure piccoli campetti dove fare due tiri.

Il sacro tempio.

https://www.youtube.com/watch?v=HXcAkqtTtQ4

 

 

5° tappa: New York

Its early fall
There’s a cloud on the New York skyline
Innocence dragged across a yellow line
These are the hands that built America

U2, “The Hands That Built America”

 

Ci abbiamo girato intorno per un po’. Ma finalmente eccoci a New York. La città-simbolo, quella delle mille contraddizioni e delle mille opportunità, quella dei Knicks e dei Nets, di Harlem e Coney Island, di Rucker Park e The Cage.

Il basket, in quanto elemento che penetra nella cultura popolare americana, permea tutti gli angoli della Grande Mela. Dalle luci che illuminano il Madison Square Garden, il “teatro” del basket a stelle e strisce, fino a scendere nei vicoli bui di Harlem.

 

Rucker Park
Rucker Park

Harlem. Rucker Park ne è l’anima. Il campo all’angolo tra la 155esima e Frederick Douglass Boulevard non è un playground. È IL playground. Il suo nome viene da Holcombe Rucker, che negli anni Cinquanta era direttore dei playground per il New York Department of Parks and Recreation. Rucker si inventò un torneo per aiutare i ragazzini più sfortunati a tenersi lontano da guai. Ragazzini che, negli anni successivi, diventarono i Jabbar, gli Erving, i Manigault e molti altri.

Armatevi di coraggio, prendete il pallone e provate a fare due tiri con qualche ragazzino. Chissà che non vi imbattiate nel futuro Kevin Durant…

https://www.youtube.com/watch?v=ZDlMc64gsOo

 

6° tappa: Durham

We’re the Red and White from State,
And we know we are the best.
A hand behind our back,
We can take on all the rest.
Go to hell, Caroline.
Devils and Deacs stand in line.
The Red and White from N.C. State,
Go State!

“Red and White Song”, inno di North Carolina State University

 

North Carolina, North Carolina State, Duke, Wake Forest. Quattro college di primissimo livello nel mondo del basket collegiale che si affacciano tutti sulla Interstate 40. E tutti nel raggio di una quarantina di chilometri.

Conseguenza? Le rivalità più accese dello sport americano.

La chiamano “Tobacco Road” (dal libro omonimo di Erskine Caldwell), ma non la troverete sulla mappa. O forse ne troverete tante. Più che un luogo fisico è un modo per connotare la sfida più accesa tra le “Big 4”: quella tra i Tar Heels da Chapel Hill e i Blue Devils da Durham, i cui atenei sono divisi da meno di 10 chilometri elettrici.

Krzyzewskiville (ho fatto copia e incolla, non posso aver scritto male)
Krzyzewskiville (ho fatto copia e incolla, non posso aver scritto male)

A Durham, però, il tabacco c’entra eccome. L’università privata di Duke la fondarono dei magnati dell’industria del tabacco. Ma oggi è il regno di Mike Krzyzewski, cui l’ateneo ha deciso di intitolare il campo dove giocano i suoi Blue Devils: il Coach K Court. Fare un salto nell’area sportiva del college prima delle partite della squadra di basket è un’esperienza mistica. L’hanno ribattezzata Krzyzewskiville: in pratica, nei mesi di gennaio e febbraio (quelli cruciali della stagione Ncaa), gli studenti dell’università si accampano con tende e sacchi a pelo fino al giorno della sfida contro North Carolina e danno man forte ai “Cameron Crazies”. Io mi procurerei un biglietto, se fossi nei paraggi:

Una tranquilla rimessa laterale per i Tar Heels
Una tranquilla rimessa laterale per i Tar Heels

 

 

7° tappa: El Paso

I see no changes. All I see is racist faces.
Misplaced hate makes disgrace to races we under.
I wonder what it takes to make this one better place…
Let’s erase the wasted.

2Pac, “Changes”

 

Da una costa all’altra per arrivare al punto in cui Stati Uniti e Messico si baciano. Solo un alto muraglione divide El Paso da Ciudad Juarez, una delle città più pericolose del mondo. E Glory Road, la stradina sulla quale si affaccia la locale università e che ha dato il titolo al celeberrimo film, è proprio a due passi dal confine.

Nel sud più profondo ha trovato humus favorevole l’incredibile storia degli UTEP Miners (nome che ricorda le origini minerarie della zona), che nel 1966 furono la prima squadra con un quintetto composto interamente da giocatori di colore a vincere il titolo Ncaa, battendo in finale la “bianchissima” Kentucky. È a tutt’oggi l’unico titolo nazionale conquistato dal college, la cui arena è intitolata proprio al coach che fu principale artefice dell’impresa: Don Haskins.

I Miners che fecero l'impresa
I Miners che fecero l’impresa

Al “The Don”, come viene chiamata comunemente l’arena, di recente ha trovato posto la collezione privata di Joe Gomez. Egli era studente a El Paso nel 1966 e amico di molti dei giocatori della squadra, così ha trascorso la vita a raccogliere cimeli e memorabilia di quella stagione che ha segnato la storia del sport americano. Visita obbligatoria, senza oltrepassare il confine…

 

8° tappa: Seattle

So welcome to the game
Ladies and gentlemen shout the name
Seattle SuperSonics
Are basketball bionic

The President of The USA, “SuperSonics”

Dalla fine degli anni ’80 alla metà degli anni ’90, Seattle doveva essere il paradiso per come lo intendo personalmente. Il grunge si formava nelle vie della città con Pearl Jam, Mudhoney, Nirvana, Soundgarden e tante altre band che avrebbero declinato un modo nuovo di interpretare la musica rock e contemporaneamente i SuperSonics entravano nel loro periodo d’oro pescando al draft nel 1989 Shawn Kemp e nel 1990 Gary Payton. Ovvero l’ossatura della squadra che nel 1996 contese il titolo a Sua Ariosità.

Sono passati vent’anni, il grunge si è sfilacciato da un pezzo, i Sonics se ne sono andati ad Oklahoma City nel 2008 e la città sanguina. Perché se c’è una città che era (ed è) legata alla sua franchigia è sicuramente Seattle. Le tracce sono ancora disseminate per la città. A due passi dalla Key Arena, la storica casa dei SuperSonics, il Floyd’s Place è una sorta di museo della Seattle dei canestri. Un bar che raccoglie lo spirito del team. E in fondo alla strada c’è Oskar’s Kitchen, il locale di proprietà di Shawn Kemp. “The Reignman” in persona è spesso a spillare birre, raccontando aneddoti dei bei tempi che furono. Ma che molti sperano di rivivere.

Shawn Kemp all'interno dell'Oskar's Kitchen
The Reignman all’interno dell’Oskar’s Kitchen

 

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Marco Pagliariccio

Di Sant'Elpidio a Mare (FM), giornalista col tiro dalla media più mortifero del quartiere in cui abita, sogna di chiedere a Spanoulis perché, seguendo il suo esempio, non si fa una ragione della sua calvizie.

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