illustrazione grafica di Paolo Mainini
articolo di Daniele Vecchi
Un carissimo amico, probabilmente il più grande fan dei Knicks che ci sia in Italia, il prossimo Natale andrà, come fa praticamente ogni anno, nella sua New York.
I suoi viaggi ripercorrono sempre tutti i luoghi incidentalmente collegati alla febbre cestistica della città e ai Knicks e alla loro storia, partendo da Rucker Park arrivando a Orchard Beach, ripartendo dalla St.John University e proseguendo per The Garden a Coney Island, fino ad arrivare a Queensbridge, ai vari locali di Walt Frazier, passando attraverso la Fordham University, The Cage e Booker T. Washington Playground.
Insomma un malato vero di basket newyorkese, nel senso più stupendamente positivo del termine.
Quest’anno una delle sue tappe sarà molto particolare e ricca di significato, a nord del JFK Airport, a South Jamaica, Queens, a far visita al “Rembrandt of Barbers”, ovvero Freddy Avila, uno dei barbieri più creativi e originali del mondo.
Il buon Freddy è stato anche incidentalmente il barbiere dove, fin dal 1990, Anthony Mason andava a creare e sviluppare i sui originali tagli.
Anthony Mason.
The Big Mase.
Mason morì il 28 febbraio 2015 a New York, per i postumi di un devastante attacco cardiaco, a soli 48 anni.
Un cuore immenso sul campo e fuori dal campo, un giocatore duro e puro, un fidato compagno in battaglia, un uomo con pregi e difetti, un uomo che rappresentava e rappresenta tuttora l’anima e la più fedele incarnazione della infinita periferia newyorkese.
Un cuore che ha cessato di battere quel maledetto 28 febbraio, lasciando un grandissimo vuoto tra i tifosi dei Knicks, tra gli abitanti del suo quartiere, South Jamaica, Queens, e tra tutti gli appassionati di basket nel mondo.
Il giorno del suo funerale, Pat Riley, che lo ha allenato per buona parte della sua carriera disse:
“Ho sentito molti dire che io ho reso grande Anthony Mason. Queste persone si sbagliano di grosso. E’ stato Anthony Mason a rendere grande me”
– Pat Riley –
Quello che Anthony Mason ha rappresentato per il quartiere di South Jamaica, Queens (più semplicemente conosciuta come “Southside”), è difficilmente descrivibile.
Nonostante famosi politici abbiano usato le loro “umili origini” dichiarando di essere nati e cresciuti in quella parte della città (come ad esempio Donald Trump o Mario Cuomo) probabilmente per meri scopi elettorali o economici, le radici popolari del quartiere rimangono sempre quelle da decenni a questa parte.
La gentrificazione infatti non ha (ancora) attecchito a Southside, e i residenti rimangono sempre della working class afroamericana (con alcune eccezioni, ad esempio un personaggio di culto per chi scrive, Scott Ian chitarrista degli Anthrax, still proud resident di South Jamaica), gente vera che vive la propria esistenza con sanguigna passione.
E Anthony Mason era uno di loro.
In silenzio, senza proclami o ricerche di mainstream o pubblicità, Mason ha sempre vissuto il suo quartiere, 365 giorni l’anno, vivendo in mezzo alla gente, alla sua gente, senza spocchia o senso di superiorità, e questo faceva di lui una persona speciale, agli occhi di tutti i residenti del quartiere.
Nato a Miami in Florida e trasferitosi in tenera età proprio a South Jamaica, Mason ha frequentato la Springfield Gardens High School nel Queens, dando grande sfoggio di atletismo ma senza impressionare in talento offensivo, riuscendo a strappare una borsa di studio per il basket universitario a Tennessee State, trascorrendo a Nashville i suoi quattro anni di college, distinguendosi come un grande difensore e lavoratore a rimbalzo, ma anche come ottimo realizzatore, totalizzando la media di 28 punti e 10.4 rimbalzi a partita nella sua stagione da senior, in una squadra però con poco talento e con un reclutamento di livello inferiore alle grandi università.
Infatti sono stati storicamente pochi i giocatori di massimo livello ad essere usciti da Tennessee State assieme a Mason, vi furono Dick Barnett, due volte campione NBA con i New York Knicks nel 1970 e nel 1973 (il suo Numero 12 è appeso al soffitto del Madison Square Garden), Truck Robinson, dura power forward degli anni 70 e 80, e Robert Covington, il giocatore su cui Sam Hinkie aveva puntato assieme a Joel Embiid e Ben Simmons per The Process a Philadelphia.
Mason era una dura power forward di 2.04 per 115 chili, un giocatore arcigno, spigoloso e totalmente dedito alla difesa ad oltranza sui big men avversari, uno stopper, un intimidatore senza fronzoli.
La difesa era la sua priorità.
In maglia Tigers, nonostante il buon bottino di punti e rimbalzi, Mason non riuscì però a farsi notare dagli scout NBA (tra l’altro non avendo ricevuto nessun award o selezione o menzione stagionale tra i migliori della NCAA), venendo scelto all’NBA Draft del 1988 alla chiamata Numero 53 al terzo giro dai Portland Trail Blazers, dietro a Derrick Hamilton e davanti a Jorge Gonzalez, due giocatori che non hanno nemmeno mai giocato nella NBA.
E sembrava questo il futuro anche di Mason, pure per lui si prospettava infatti un futuro da journeyman mestierante del basket in giro per il mondo, e così è stato, per qualche anno.
Dopo essere stato immediatamente tagliato nel’estate 1988 dai Portland Trail Blazers, i tre anni successivi di Mason furono in giro per il mondo, una stagione all’Efes Pilsen in Turchia, una stagione ai Marinos De Oriente in Venezuela, poi ai Tulsa Fast Breakers in CBA, e ai Long Island Surf in USBL, esperienze intervallate da alcuni contratti decadali nella NBA (13 partite con i New Jersey Nets a 1.8 punti di media, e 3 partite con i Denver Nuggets, 3.3 punti a gara, per un totale di 129 minuti giocati e 47 punti segnati).
Il problema di Mase sembrava essere sempre quello, per gli scout NBA, troppo piccolo per essere un centro dominante, e troppi pochi punti nelle mani per essere una power forward d’impatto.
Insomma l’uomo da South Jamaica non sembrava essere né Shaquille O’Neal né Rasheed Wallace, anche se fisicamente e difensivamente sarebbe riuscito a marcarli e a limitarli considerevolmente, nonostante la statura ridotta.
Eppure Mason era un guerriero.
Un guerriero vero.
Grandissima etica del lavoro, grandissimo impegno e un agonista con pochi eguali, Anthony aveva solo bisogno di una occasione VERA.
E l’occasione arrivò nel 1991, grazie a Pat Riley, che lo volle ai New York Knicks.
Durante la Summer League che avrebbe portato i Knicks a Las Vegas, l’ex coach dei Lakers vide in lui quello che pochi altri avevano visto.
In una squadra di duri con Patrick Ewing e Charles Oakley, Mason avrebbe trovato il suo habitat naturale, se poi a questi duri si andavano ad aggiungere altrettanti duri ma più talentuosi come John Starks e Derek Harper, gli ingredienti per una contender c’erano tutti.
La prima stagione, 1991-92, fu subito la sua breakout season, Mason divenne immediatamente un punto fermo per Pat Riley venendo dalla panchina, portando energia, durezza e dedizione, senza mai fare scemare la intensità della arcigna difesa dei Knicks, vero marchio di fabbrica dei newyorkesi targati Riley.
Purtroppo per i Knicks quelli erano gli anni di Micheal Jordan del primo Three-Peat, e la vita nella Eastern Conference era dura ed impossibile per tutti.
New York fu eliminata nelle Semifinali di Conference nel 92 e in Finale di Conference nel 93 sempre dai Bulls, ma con il primo ritiro di Jordan nell’estate di quell’anno, per i Knicks la stagione 1993-94 sembrava essere l’occasione buona.
New York disputò una stagione entusiasmante, 57-25 il record, ai Playoff eliminarono i New Jersey Nets nel primo turno, i Chicago Bulls senza Jordan nel secondo, e gli Indiana Pacers di Reggie Miller nelle Eastern Conference Finals, andando ad affrontare gli Houston Rockets in Finale, nella più ghiotta delle occasioni per andare a laurearsi Campioni.
Quello fu il grande rammarico per i Knicks e per tutti i loro tifosi.
Quella finale si poteva vincere. Con Michael Jordan fuori dai giochi, con la maturità raggiunta dal gruppo sotto i dettami di Riley, con l’entusiasmo di una città intera (e si sa che risonanza può avere l’entusiasmo di New York, anche e soprattutto a livello mediatico) letteralmente impazzita per loro, quei Knickerbockers avevano veramente tutte le carte in regola per farcela.
Invece i Knicks, avanti 3-2 nella serie, subirono due sconfitte al Summit di Houston, e videro frantumarsi il sogno di diventare Campioni NBA, perdendo la finale 4-3.
Mason, assieme alla granitica front court dei Knicks, disputò degli ottimi Playoff, dimostrando a tutti di essere un giocatore che apparteneva al massimo livello, anche se gli episodi e le cattive percentuali in Gara 6 e Gara 7, condannarono New York.
Nella stagione successiva, sempre con i Knicks, Mason venne nominato Sixth Man of the Year, a coronamento del suo percorso di gavetta, sofferenza e dedizione.
Un giocatore che non si risparmiava mai, sempre al massimo in allenamento e in partita, un esempio per tutti, rookies e veterani.
Un duro, di certo non uno da abbracci e da frasi amichevoli, ma uno che sapeva come motivare i compagni.
Le parole di Derek Harper, ex compagno di squadra e grande amico, furono eloquenti, nel descrivere Anthony Mason sul campo:
“Mase aveva il fisico da linebaker, ma aveva una impressionante velocità di piedi, poteva mettere la palla a terra ed era un ottimo passatore. Difensivamente poteva coprire quattro ruoli su cinque, era talmente forte e determinato che faceva sembrare più piccoli giocatori molto più grandi di lui. Nelle Finals del 94 fece un lavoro straordinario su Otis Thorpe, Robert Horry e soprattutto su Hakeem Olajuwon, pur essendo molto più piccolo di lui. Mason non riusciva a contestargli molti tiri, ma Hakeem non riusciva a muoverlo”.
– Derek Harper –
Ma per lui valeva il famoso motto “the sky is the limit”, che descrive le persone che hanno un grandissimo margine di miglioramento, e infatti, nelle stagioni successive, Mase si è scoperto anche realizzatore e rimbalzista, incrementando sempre di più le proprie statistiche, non concentrandosi solo sulla guardia delle star avversarie, ma migliorando anche a livello realizzativo e statistico.
Un’altra stagione ai Knicks e poi il trasferimento a Charlotte, dove Big Mase è andato a fare da contropartita per Larry Johnson, e dove Mason ha trovato le migliori statistiche della sua carriera. Nella stagione 1996-97 infatti Mason totalizzò una media di 43.1 minuti, 16.2 punti, 11.4 rimbalzi e 5.7 assist a partita, una stagione meravigliosa di fronte al pubblico più caldo della NBA, l’Alveare dello Charlotte Coliseum, stagione chiusa con 54 vittorie e 29 sconfitte ma con la sconfitta al primo turno di Playoff proprio per mano dei Knicks.
La seconda parte di carriera di Mason fu tutta su questa falsa riga di rendimento, sempre la solita durezza e dedizione difensiva, ma anche una ottima dote realizzativa e offensiva.
Mason trascorse altri tre anni con gli Hornets (saltando però tutta la stagione 1998-99 per un infortunio), fino ad arrivare all’approdo ai Miami Heat di Pat Riley nel 2000-01, guadagnandosi a 34 anni la sua prima ed unica selezione per l’All Star Game.
Erano degli Heat duri e spigolosi, assieme a Mason, Bruce Bowen, Alonzo Mourning e Brian Grant, ma che come accadde nelle stagioni precedenti non riuscirono ad avanzare nei playoff, eliminati al primo turno dagli Charlotte Hornets dell’ex dal dente avvelenato Jamal Mashburn.
Al termine della stagione Mason andò a Milwaukee, dove giocò le sue ultime due stagioni in NBA, sempre mantenendo un alto minutaggio, ben oltre i 30 minuti di media a partita, e il solito altissimo livello di intensità e durezza, marchio di fabbrica totale del modo di giocare di Big Mase.
Praticamente tutte le più grandi superstar e i più duri giocatori avversari erano suoi nemici giurati.
Hakeem Olajuwon, Reggie Miller, (e tutta la gang Pacers al seguito, Rik Smits, Derrick McKey e George McCloud, di pesarese memoria), Rodney Rogers, Buck Williams, James Worthy, Tom Chambers, Clyde Drexler e molti altri hanno avuto diverbi più o meno accesi con Mason, anche se su tutti forse il rivale più duro e rognoso era proprio Larry Johnson, con cui vi furono scintille soprattutto nella stagione 2001, infuocando se possibile ancora di più la acerrima rivalità tra Knicks e Heat.
Negli ultimi anni dopo il suo ritiro avvenuto alla fine della stagione 2003 giocata con i Milwaukee Bucks (come detto non una brutta stagione, conclusa con 7.2 punti e 6.4 rimbalzi di media a partita), la sua situazione fisica è andata peggiorando.
Mase negli anni ingrassò di 90 pounds (circa 40 chili), fino ad arrivare a pesare 165 chili, vedendo incidentalmente aggravarsi la sua situazione cardiaca.
Il resto purtroppo è storia.
Gli fu fatale un attacco cardiaco l’11 febbraio 2015, un attacco devastante.
Mason andò sotto i ferri alcune volte in quei 17 giorni di straziante limbo, subì anche una operazione a cuore aperto di 9 ore, ma alla fine, quel grande cuore smise di battere, lasciando un grande vuoto nei cuori dei tifosi del Knicks e di tutti gli appassionati di basket.
Sabato 11 giugno 2016, la 147th Street di South Jamaica, Queens, compresa tra Rockaway Boulevard e 123rd Avenue, è stata rinominata Anthony Mason Way, in onore suo.
Alla cerimonia ufficiale di rinomina erano ovviamente presenti tutti i familiari di Mason, anche la 92enne madre di Anthony non ha voluto mancare a questa toccante cerimonia, celebrata dal membro del Consiglio Cittadino Ruben Wills e dall’ex compagno di squadra e amico John Starks.
“Un uomo ricco di passione, che ha fatto tanto per lo sport, per il basket, e per la sua comunità” ha detto alla folla un commosso Starks durante la cerimonia.
Un uomo che ha sempre messo cuore passione e anima nel gioco del basket, un uomo che continua a mancarci, per la dedizione, l’intensità e l rispetto con cui ha sempre interpretato il nostro gioco.
Miss you, Anthony Mason.