illustrazione grafica di Paolo Mainini
articolo di Donatello Viggiano

 

 

1984, Coppa dei Campioni, Roma.

Le coordinate vi stanno portando tra le braccia di Grobbelaar, del suo balletto ipnotico contro il quale si infransero i sogni di gloria dei giallorossi del calcio.

Ma qui non siamo all’Olimpico, non c’è l’erba tagliata corta, non c’è il Liverpool in mezzo al campo. Siamo a Ginevra, sulle canotte dei ragazzi c’è scritto Banco di Roma: ci stiamo andando a giocare il titolo di campione d’Europa di basket contro il Barcellona.

Claerence Kea (scudettato nel 1983, richiamato ad inizio stagione al posto di Jim Chones) e Larry Wright le stelle di un gruppo plasmato dalla sagacia tattica e le qualità morali del “Vate” Bianchini (seconda Coppa dei Campioni, dopo quella conquistata con Cantù, oltre ai tre scudetti con Roma, i brianzoli e Pesaro) e del suo vice Paolo Di Fonzo, tradotto in campo dai vari Sbarra (che ora che allena si emoziona per una doppia promozione in C Silver come e più di allora), Gilardi, Polesello oltre al compianto Marco Solfrini, uomini di sport capaci di trasmettere il proprio spirito ed una sconfinata passione anche alle generazioni successive.

Il “folletto nero” Larry Wright: 343 partite e 6 stagioni in NBA, compreso l’anello vinto con i Washington Bullets nel 1978.

Non è vero che ancora oggi se ne parla perché in 30 anni nessuno ha più vinto lo scudetto. Se ne parlerebbe allo stesso modo anche se altri fossero riusciti nella stessa impresa, ma una squadra diversa difficilmente avrebbe vinto a Ginevra, – si legge su “Il Romanista” esattamente 30 anni dopo quel trionfo – forse neanche ci sarebbe arrivata, perché il Banco dopo le sconfitte con Barcellona, Cantù e Bosna Sarajevo era spacciato, invece vinse le ultime sei partite (cinque della poule più la finale) del girone finale e si conquistò la finale contro il Barcellona di San Epifanio, Solozabal, Sibilio, Starks e Davis, pivot americano che aveva già giocato nel Bancoroma tra il 1978 e il 1981”.

I giocatori simbolo di quella squadra provenivano dalle zone più disparate di Roma. Io da Monteverde, Gilardi da Testaccio, Polesello da San Giovanni –racconta Stefano Sbarra, grande protagonista della finale di Ginevra– più che dei quartieri, delle vere e proprie piccole città, in cui molti di noi erano partiti dai campetti all’aperto della parrocchia fino ad approdare in giovanili importanti e poi esordire in Serie A. Per questo motivo, anche attraverso il passaparola, la gente si identificava facilmente in noi, perché in quei contesti ci si conosce tutti e poi i risultati aiutano, nonostante la Roma calcio non riuscì a replicare, nella finale persa col Liverpool, la doppietta che avevamo centrato con gli scudetti dell’anno prima”.

Ma il cammino verso la finale fu tutt’altro che privo di ostacoli per il Banco campione d’Italia, ma debuttante in Coppa.

(la sfida decisiva nella finale scudetto contro il Billy Milano)

Vinto il titolo italiano nel 1983, ancora prima che iniziasse la nuova stagione, Roma aveva richiamato Clarence Kea al posto di Chones, ma l’infortunio di Wright alla seconda giornata di campionato, per un riacutizzarsi di un problema al ginocchio avvertito in un torneo prestagione al Circo Massimo, aveva costretto il club a decidere: intervenire col secondo ed ultimo taglio disponibile, o proseguire? Si optò per la seconda decisione, con Kea successivamente avvicendato da Lockhart in campionato e rimasto a giocare solo la Coppa al fianco di Larry ed il resto del gruppo degli italiani.

Nella fase preliminare l’incrocio con il Partizani Tirana mette di fronte Polesello e compagni a Spiro Leka, attuale coach di Ferrara, e Pjerin Bushati, papà di Franco ora a Torino in A2, ma soprattutto Edi Rama, dirigente accompagnatore del club ed ora primo ministro albanese. “A Tirana ci accolse un ragazzo che giocava a basket: parlava italiano e ci fece da interprete. Alto, bella presenza, sembrava uscito da un film sull’800: era Edi Rama – si legge nel ricordo di Valerio Bianchini condiviso al giornalista Luca Pelosi – Non mi mollò mai, sembrava volesse assorbire qualsiasi cosa dicessi. Quando venne il giorno della nostra partenza, passato il controllo passaporti, lui continuò a seguirci con lo sguardo: vi lessi una tristezza e una voglia di fuggire incredibili”.

Per la fase decisiva della Coppa, invece, si qualificano sei squadre, con gare di andate e ritorno che avrebbero qualificato le migliori due squadre alla finale di Ginevra: oltre a Banco e Barcellona ci sono anche Cantù, Bosna Sarajevo, Maccabi e Limoges. L’inizio proprio in terra francese è promettente (74-76 senza Wright, recuperando da -6 a 2.30’’ dal termine), ma seguono due battute d’arresto, una a Barcellona (81-74; “ma se dovessimo trovarli in finale, vinceremo la Coppa”; aveva sentenziato un profetico Paolo Di Fonzo), l’altra decisamente più beffarda, maturata in casa con Cantù (85-86), dopo aver sciupato anche 11 di punti di vantaggio, per mano di un canestro da centrocampo di Antonello Riva. Il Banco vince col Maccabi, ma perde a Sarajevo, perché “ci sono 5000 persone in un palazzetto che ne contiene 2500”, ed il Bosna, allenato da Svetislav Pesic (papà di Marko, a sua volta atleta della Virtus, e coach della Virtus 2005-06 uscita in semifinale con la Fortitudo campione d’Italia), in casa non perde mai. Non succede nemmeno stavolta, perché Sarajevo si aggiudica 86-77 un vero e proprio scontro diretto per non perdere contatto con la coppia di testa: Barcellona e Cantù 8, Bosna Sarajevo 6, Bancoroma 4, Maccabi e Limoges 2 è la classifica al giro di boa.

Servirebbe vincerle tutte, ma potrebbe non bastare.

Spalle al muro, il Banco non perde l’occasione di fare bottino pieno nelle successive partite casalinghe, battendo Limoges e soprattutto Barcellona, pur senza riuscire a ribaltare la differenza canestri che sembrava impresa alla portata sul +10 siglato da Sbarra, ma che il Barca arriva ad un passo dal recuperare del tutto (72-71) prima dei liberi decisivi di uno zoppicante Wright. Alle spalle di Cantù, ora sola a 10, c’è un terzetto con Bosna, Barcellona e Bancoroma con otto punti.

Così la trasferta in casa della capolista, replica europea a tre giorni dalla sfida di campionato giocata a Roma e vinta dal Banco, diventa uno spartiacque fondamentale per continuare ad alimentare i sogni di gloria: a causa del riscaldamento rotto del PalaEur, Marzorati si è preso la febbre, ma allo stesso tempo Wright ha sempre male al piede. E’ un continuo alternarsi al comando delle operazioni (7-0 Cantù, 48-57 Roma dopo un primo tempo da 17 punti di Solfrini , sui 22 complessivamente messi a segno), prima del pareggio e sorpasso dei brianzoli (63-61) ed il nuovo break, stavolta non più recuperabile, dei campioni d’Italia. Il sigillo è impresso dai liberi di Gilardi per il 79-71 finale, che decreta la prima sconfitta europea di Cantù, bicampione d’Europa in carica, in otto anni e l’aggancio alla vetta della poule, dove ora stazionano tutte le squadre a quota 10, ad eccezione di Maccabi e Limoges, ormai tagliate fuori dai giochi ad ottanta minuti dalla conclusione.

La terza vittoria in trasferta (nessuno c’era riuscita prima nella storia della Coppa) in terra d’Israele vale al Banco il matchpoint contro un Bosna Sarajevo reduce dall’indolore sconfitta serba a Limoges (107-88) e  consapevole di potersi giocare tutto nella decisiva sfida di Roma con passaporto per la finale svizzera. La squadra di Pesic, come detto, a Sarajevo è imbattibile, ma al contrario in trasferta, per risparmiare, ogni tanto tiene qualche giocatore a casa – si legge sempre nel libro – ma stavolta vuol giocarsela fino in fondo ed organizza perfettamente la trasferta con un volo charter. Non manca neanche un po’ di sana pretattica, di certo favorita dai minori mezzi d’informazione dei tempi, circa un presunto infortunio di Hadzic, che sarà invece regolarmente in campo e, come sempre, uno dei migliori dei suoi. Davanti ai 15mila del PalaEur, tornato gremito in ogni ordine di posto come ai tempi dello scudetto, incluse personalità del calibro del presidente del consiglio Craxi, di quello dell’IRI Romano Prodi, di Ancelotti, Panatta e Venditti, il Banco non riesce mai a scappare definitivamente, se non nel finale, quando la chiude 66-55 con 23 di Gilardi e 20 di Wright, compiendo una bellissima rimonta da cinque vittorie su cinque nel girone di ritorno e qualificandosi per la finale: col Barcellona i precedenti nella seconda fase sono in perfetta parità, nel pieno rispetto del fattore campo. L’unica preoccupazione, però, è la caviglia di Wright, che annuncia di voler partire per gli Stati Uniti allo scopo di curare la caviglia malconcia, lasciando trapelare pessimismo circa la sua possibile presenza nella finale di Coppa.

Ci eravamo concentrati e dedicati molto più sulla Coppa, che sul Campionato – ammette con sincerità Bianchini – perché era la prima volta, non avevamo ancora un grande nome in Europa e sapevamo potesse essere un’occasione irripetibile, compreso Larry, che si portava sempre dietro degli acciacchi ed in campionato non giocò quasi mai”.

Il Vate, Valerio Bianchini

Alla vigilia della partenza per la Svizzera, infatti, il Banco è distratto ed in campionato soffre tremendamente (è sotto di otto a tre minuti dalla fine) contro la Bergamo di Charly Recalcati, ultima in classifica, che viene piegata solo da un libero (73-72) di Fulvio Polesello. Ma Larry sull’aereo per la Svizzera ci sale (insieme a Valerio Bianchini, che nel frattempo sta per diventare papà, ma i cui bagagli, invece, restano a Fiumicino), ma movimenta la vigilia della gara con una intervista rilasciata ad Emanuela Audisio: la giornalista di Repubblica rivelerà di non  aver avuto nemmeno il tempo di formulare la prima domanda, anticipata dal fiume in piena nativo della Louisiana. Nel frattempo, con ogni mezzo, aereo, treno, pullman, macchina in 3000 si muovono da Roma alla volta di Ginevra, per “la più grande trasferta internazionale mai fatta per una squadra romana in qualsiasi sport che non fosse il calcio”.

Foto bancoroma.blogspot.com
Foto bancoroma.blogspot.com

Qui la gente gioca come se andasse a timbrare un cartellino al lavoro. Finita l’ora, finito il lavoro. Del risultato non gli importa. E sa perché? Perché firmato il contratto uno sta a posto tutto l’anno, non viene licenziato, al massimo sta in panchina ma lo stipendio arriva lo stesso. In America ci sono i tagli, se uno è improduttivo sloggia e c’è la fila per rimpiazzarlo. Bianchini? Buon allenatore, ma in America non durerebbe. Nessuno si farebbe urlare dietro le cose che urla lui. Ma lo capisco, deve fare scenate, altrimenti i ragazzi non lo capiscono. Io da casa me ne sono andato a 16 anni, questi invece… lasciamo perdere. Individualmente sono tutti bravi ragazzi, ma la testa, quella, è un’altra cosa. I miei compagni mi rispettano, non mi amano. C’è una sensibile differenza, deve esserci e io voglio che ci sia. In due anni a casa dei miei compagni sono andato tre volte, perché solo tre volte sono stato invitato. Spero che capiscano l’importanza di questa partita”, l’estratto principale di quell’intervista che Wright rilasciò a Repubblica alla vigilia della partita.

Foto bancoroma.blogspot.com

Feci finta di non sapere nulla e non aver letto quella intervista – sorride ancora oggi il “Vate” Bianchini – anche perché il nostro compianto Mimmo Massaro giocò d’anticipo su tutti, comprando tutte le copie di Repubblica in vendita a Ginevra quel giorno, per fare in modo che nessun altro potesse leggere quelle parole ed evitando che Wright potesse essere multato”.

La partita di Ginevra, tuttavia, raccontata magistralmente da un meravigliosamente ironico Aldo Giordani nella versione italiana di cui ringrazio infinitamente Luca Pelosi (autore del libro “Banco! L’urlo del PalaEur” e del blog bancoroma.blogspot.com da cui sono tratte tutte le maggiori vicende raccontate in questo pezzo), non comincia bene, perché Davis (ex di turno) e Starks chiudono ogni varco dentro l’area (in un basket d’altri tempi con due tempi da venti minuti e senza tiro da tre, oltre ad una serie di regole non sempre intuibili a distanza di trentasei anni), pronti a scatenare in contropiede Solazabal e San Epifanio (top scorer della sfida con 31 punti), per il primo break significativo (13-4).

Entrammo in campo con la testa completamente sballata, anche perché nella riunione prepartita il presidente Timò, che mai si sarebbe sognato di disturbarci, mortificato bussò alla porta dello spogliatoio perché il presidente del CONI voleva dire due parole”, ricorda coach Bianchini.

Il Banco tuttavia non si scompone e con qualche iniziativa personale (passo e tiro di Solfrini per il 13-8, canestro di Wright per il 21-18), prova a tenere botta, pur venendo sistematicamente ricacciato indietro da un Barca che sembra in controllo prima di tutto mentale della sfida. Stefano Sbarra, ventiduenne play di riserva, a dispetto dell’età sembra il meno intimorito dalla portata emotiva della contesa (25-22), ma i prematuri quattro falli di Solfrini e Gilardi e la zona di Serra scavano, stavolta sì, un parziale che, nonostante il quarto di Davis, alimenta più volte fino a +13 (42-29), con un bel flash di Ansa, il massimo vantaggio dei campioni di Spagna. Roma soffre a rimbalzo e fatica tremendamente al tiro (30% scarso a metà gara), ma con la penetrazione di Wright (otto punti alla pausa lunga), sembra trovare uno spiraglio soprattutto psicologico per non perdere definitivamente ed anticipatamente contatto con la sfida e con la Coppa: dopo 20’ San Epifanio e compagni conducono 42-32.

Nessuno pensa che ce la possiamo fare, sono il leader della squadra, sento di dover fare qualcosa. Negli spogliatoi dico al coach e ai compagni– ha raccontato Larry Wright sempre al giornalista Luca Pelosi – di fidarsi di me: ce la faremo, saremo campioni d’Europa. Dobbiamo rientrare in campo e non commettere più gli errori del primo tempo. L’esperienza del college mi ha insegnato che una partita di basket non è mai finita. L’opera non finisce finché non canta la cicciona, cioè il soprano. Bisogna correre,  fino a quel momento l’abbiamo fatto male. Quella era una squadra che sapeva di avere bisogno del contributo di tutti”.

Larry Wright – foto ilmessaggero.it

Le parole scuotono la squadra, perché dopo la pausa lunga la partita sale magnificamente anche di qualità tecnica, ma nemmeno tra i catalani mancano gli interpreti di alto livello. San Epifanio è già a quota 24 dopo 22’ (48-36) e neanche gli episodi, apparentemente, premiano gli uomini di Bianchini, che perdono Enrico Gilardi lanciato per il contropiede del -7 a causa di un doppio fallo che Aldo Giordani fatica in un primo momento a riconoscere: “Cosa vuol dire quel gesto lì? E’ una segnalazione che non ho afferrato”, ammette in diretta tv. Ricacciata nuovamente a -11 (54-43), Roma trova uno squillo orgoglioso da Marco Solfrini, che prima segna dalla media e poi corregge a rimbalzo un suo stesso errore (54-47), mentre Starks e Davis diventano i principali riferimenti offensivi dei catalani quando San Epifanio è a riposare in panchina per qualche minuto. Senza essere troppo appariscente, Wright sale in cattedra (già otto punti nel secondo tempo), mentre la solita tonnara a rimbalzo, nata da un errore al tiro di Sbarra, stavolta è favore del Banco e genera il quinto fallo di Davis: Kea, dalla parte opposta, lo converte con un 2/2 dalla lunetta che porta i suoi, nel frattempo, a  quello che, ai giorni d’oggi, sarebbe un solo possesso pieno di distanza (56-53).

Così, all’improvviso e tessendo silenziosamente la tela della rimonta, ancora l’ex campione NBA con i Bullets nel ’78, segna sei punti in fila che lo portano a quota 23 e danno il primo vantaggio della partita alla squadra del presidente Timò: 56-59 con dieci minuti da giocare. E’ il frangente che cambia in maniera definitiva il volto della partita, con il Banco capace di non voltarsi più indietro ed essere al massimo raggiunto, e solo in una circostanza, dai liberi di San Epifanio (29). La difesa capitolina è salita di tono, così come la presenza a rimbalzo, allora anche dall’altra parte diventa meno complicato trovare qualche spiraglio, con Solfrini che giganteggia e segna dopo un rimbalzo (58-61) e Polesello converte in bello stile l’assist di Sbarra nato da un ribaltamento di Bertolotti. San Epifanio, come detto, impatta dalla lunetta (63-63), ma Wright in contropiede, Polesello e Sbarra ai liberi, dopo il quinto di Solazabal, danno addirittura sei punti di vantaggio al Banco (63-69 al 35’), con lo stesso giovane playmaker che tiene vivo, a rimbalzo d’attacco, un pallone che Bertolotti prodigiosamente scaglia dall’angolo per il +4 (67-71) in risposta a De La Cruz. E’ un canestro di capitale importanza, perché dietro il Banco tiene e forza gli avversari ad una palla persa, mentre Wright completa un meraviglioso secondo tempo (19 dei 27 punti totali a referto dopo la pausa) segnando, di puro talento individuale, apparentemente senza ritmo e dopo lunghi palleggi, un paio di canestri (69-75) che gli valgono l’appellativo di “Falcao del basket” da parte del Maestro Giordani, che commenta, in maniera consapevolmente parziale, gli istanti decisivi della partita.

Ho seguito le partite del Bancoroma, soprattutto l’appassionante finale di Ginevra, mi piaceva soprattutto Larry Wright, so che molti lo hanno paragonato a me, è un grande campione, il riferimento non può che lusingarmi” ha rivelato Falcao in un’intervista concessa ad Ester Palma.

Non è, però, ancora finita, perché Polesello commette il quinto fallo e dal mezzo angolo il jumper di San Epifanio (73-75) prova a tenere ancora aperta la sfida, ma a 35’’ dalla fine un rocambolesco canestro di Kea, dopo aver arpionato l’ennesimo rimbalzo d’attacco della sua gara, ripristina le distanze in un modo decisamente più rassicurante di quanto non sarebbe adesso, in assenza del tiro da tre punti. Anche perché il Barca commette passi e Sbarra è un gigante, dopo l’errore di Tombolato, nel garantire un extrapossesso che lui stesso, con un glaciale 2/2, ha il merito di congelare dalla lunetta, dopo la scelta del “Vate” di battere i liberi, anziché riprendere con una rimessa in zona d’attacco. Tra il Banco e la Coppa c’è solo un ultimo poco velleitario attacco dei catalani, che un Aldo Giordani ormai coach aggiunto a Bianchini e Di Fonzo invita a tirare senza che la difesa la ostacoli, ed un ultimo interminabile secondo sul cronometro, giocato dopo un’attesa di qualche minuto dovuta all’anticipata invasione di campo dei tifosi giunti dalla Capitale.

Foto bancoroma.blogspot.com

Ma cosa ha ispirato questo 47-31 dopo l’intervallo a favore di Roma, che ha rovesciato un primo tempo apparentemente a senso unico? “Noi allenatori, seguiti dai giocatori, ci avviavamo verso lo spogliatoio – racconta Valerio Bianchini a “Il Romanista” celebrativo a 30 anni dalla vittoria– ed ecco che la nostra strada è attraversata da un dirigente del Barcellona, con alcune bottiglie di champagne. Non solo, vedo Larry (Wright), che si sofferma ad ascoltare le parole che gli sussurra nell’orecchio Mike Davis: “Hey Larry, mi sa che stavolta il premio non lo becchi”. Larry entrò per ultimo nello spogliatoio, sbattendo la porta con violenza, il viso contraffatto, gli occhi di fiamma e il ghigno bianchissimo sul suo volto nero. Esclamò con ardore una serie di frasi nello slang della Louisiana di quelle che noi allenatori siamo contenti di non capire. Poi raccontò l’episodio agli altri e le parole ebbero un potere detonante, molto più delle indicazioni tecniche che avevo in mente per raddrizzare la partita. Si sa che l’intervallo è il nemico peggiore di chi è in vantaggio, il Barcellona era convinto di aver già vinto la partita, ma dopo la pausa iniziammo ad essere più duri, Gilardi, pur uscendo per falli, si incollò a San Epifanio, Clarence Kea, che era alto due metri ma largo quanto un parallelepipedo riusciva a tagliare fuori gli stranieri avversari a rimbalzo, per poi chiudere tutto con i liberi di Sbarra. Stava già venendo verso la linea laterale per effettuare la rimessa (all’epoca si poteva scegliere), ma gli dissi subito: “Dove vai? Vai a tirare”, quelli che sarebbero stati i liberi finali”.

Tutti ricordano soprattutto la finale, dove giocai tanto per i problemi di falli di Gilardi – conferma l’allora playmaker di riserva – ma in realtà per tutto il girone di ritorno, tra gli infortuni di Wright e la febbre di Gilardi in casa col Barcellona, giocai da titolare larghi tratti di quella poule di qualificazione alla finale, come accadde in Catalogna ed anche nella vittoria di Limoges. E’ stato un anno indimenticabile, eravamo letteralmente subissati di richieste di informazioni sugli aerei, i biglietti per le partite, tanti di noi erano romani, ma anche i giocatori che vennero da fuori, come Marco Solfrini che era già un giocatore della Nazionale, seppero conquistare il pubblico, con l’umiltà ed il sacrificio di buttarsi su ogni pallone, o come Clarence Kea, che giocò lo stesso la finale pur essendogli uscita fuori la spalla nell’allenamento del giorno prima. E poi Bianchini era un grande motivatore ed abile oratore, capace di attirare grande attenzione con le interviste rilasciate ai giornali più importanti”.

Così come decisiva si rivelò la capacità di accettare ed assorbire, da parte della squadra, alcuni comportamenti di Larry Wright: ”Non erano tempi facili per chi come lui era di colore e nato nella Louisiana, a sud degli Stati Uniti – spiega Bianchini – perché non si poteva salire sul bus per andare a scuola o bere dalla stessa fontanella dei bianchi, per cui non gli restava che emanciparsi attraverso la musica o lo sport, ma a volte diventava isterico ed intrattabile, quando le cose non andavano bene. Era consuetudine dividersi i compiti domestici con gli altri fratelli, ma un giorno toccò a lui dover lavare una pila di piatti prima di una partita. Li nascose tutti sotto il lavello, nella speranza di non essere scoperto, ma la nonna, cui era molto legato, gli disse: “cerca di diventare un buon giocatore di basket, altrimenti laverai piatti per tutta la vita”.

La mia esperienza precedente a Cantù con Tom Boswell, con la collaborazione di giocatori esperti come Marzorati, tuttavia, fu importante sotto l’aspetto della sua gestione, perché anche a Roma i compagni furono talmente maturi nell’accettarlo così com’era, che ne smussarono gli spigoli caratteriali, in maniera fondamentale per una sana convivenza: un vero e proprio esempio di sociologia dello sport, nell’assorbire i capricci di una superstar che però viveva con l’ossesso della vittoria e sprigionava una forza incredibile quando andava in campoVeniva da una realtà completamente diversa, nella quale si percepiva ancora forte la componente razziale, e pensava che in un altro continente anche noi ragionassimo nella stessa maniera– gli fa eco, scherzando, Sbarra – ma in realtà era il più coccolato e quando minacciava di andarsene e prendere l’aereo, avevamo la capacità di sdrammatizzare, uscendo a cena tutti insieme in qualche ristorante tipico romano”.

Foto bancoroma.blogspot.com

E’ il nono successo continentale, all’epoca, di una squadra italiana, la prima al di fuori del triangolo Varese (5) – Cantù (2) – Milano (1) che aveva testimoniato il dominio incontrastato, anche in campo internazionale, del nostro basket, capace di legittimare il suo regno con l’oro continentale degli azzurri di pochi mesi prima a Nantes. Un successo che permette a Bianchini, come detto, di replicare la vittoria ottenuta con Cantù e a Larry Wright di essere il primo giocatore assoluto a conquistare un titolo NBA, un campionato europeo e la più importante competizione europea per Club, nonostante le premesse fossero state tutt’altro che semplici. Difficoltà che in campionato continuano, tanto che la sconfitta di Torino e quella nella partita interna contro la Simac (91-87) – remake della finale scudetto dell’anno prima e una delle tante sfide Bianchini/Peterson – precludono l’accesso ai playoff alla squadra campione in carica.

Ma i 15.000 del PalaEur, accorsi per il tributo agli eroi di Ginevra e per vedere la Coppa esposta in bella vista, riconoscono il grande cuore di quegli uomini e congedano la squadra con un applauso. Il Banco? “Una squadra che non voleva arrendersi, e infatti ha vinto, anche se ad un certo punto forse nessuno, all’infuori di noi, immaginava che potessimo rientrare in campo e vincere, ma avevamo la sensazione di giocare per una città intera”, le parole, stavolta al miele, di Larry Wright nel ricordo di una notte rimasta scolpita nelle menti e nei cuori di tutta Roma anche a trentasei anni di distanza.

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