Messo il naso fuori dall’aeroporto di El Prat, il taxi punta diretto su Placa d’Espanya. Un turbinio di colori, voci, suoni che accompagna turisti e locali attraverso le Torres Venecianes e su su fino al Palau Nacional. Io mi fermo un po’ prima, anzi, mi fermo e basta: sul lato opposto della strada rispetto alla vecchia arena della corrida (oggi riconvertita in centro commerciale…) si trova la Fira de Barcelona. Che ci faccio qua? No, niente vacanza stavolta: è il weekend di lancio delle nuovissime adidas Crazy Explosive 17, in uscita il 1° luglio.

Programma che si preannuncia frizzante: sipario sulla nuova scarpa e tanto, tanto, tanto basket giocato e “chiacchierato”. Ci sono una cinquantina tra retailers e giornalisti da tutta Europa: i primi per vivisezionare il prodotto che a breve finirà sugli scaffali dei negozi di articoli sportivi, i secondi anche ma soprattutto per intercettare i sei grandi testimonial che adidas ha voluto con sé per l’iniziativa: Andrew Wiggins, Brandon Ingram, Jamal Murray, Danilo Gallinari, Ricky Rubio e Kristaps Porzingis.

Sappiamo già che, seppur già in città, per parlare coi “Fab Six” dovremo attendere il giorno successivo. Ma ad allietare l’attesa, oltre alle (molto accattivanti a livello estetico davvero comode grazie alla ormai consolidata intersuola Boost) nuove scarpe del brand di Herzogenaurach, c’è un bel contest con sette terzetti di Under 20 provenienti altrettante nazioni europee. Prove di tiro, 3vs3, 2vs2, sempre con le adidas Crazy Explosive 17 ai piedi, spaziando tra l’ampio capannone della fiera, i playground di Poblenou e il campo secondario del Palau Sant Jord. A fare man bassa il terzetto spagnolo, che si presentava con una formazioncina mica da ridere: Santiago Yusta (alona attesa al rientro al Real dopo una brillante stagione in Acb all’Obradoiro), Sergi Garcia (play del Zaragoza che nel 2013 fu il più giovane debuttante di sempre in Acb della storia della società) e José Ignacio Nogues (interessante prospetto della Joventut Badalona). Ma grande impressione l’hanno destata anche i gemelli Kalaitzakis: Panos, di scuola Aris, è stato nominato miglior giocatore del torneo, Georgios, del Panathinaikos, l’avrebbe meritato quanto lui. Prendete appunti, sentirete parlare di questi ragazzoni. Anche l’Italia si è difesa benone, chiudendo al terzo posto con le belle prove del prodotto della Leonessa Brescia Giovanni Marelli ed il varesino Manuel Rossi. Poi vabbè, il nostro terzo era spagnolo (Diamond Onwuka da Western Nebraska, Ncaa), ma sono dettagli…

Tutto bello, ma ovviamente a tenere sulla corda la variopinta truppa di cronisti era la possibilità di incontrare i campioni Nba, comparsi per un fugace saluto nella prima giornata dell’iniziativa (c’era anche Willy Hernangomez camuffato tra staff e giornalisti, ma non se l’è cagato praticamente nessuno). Il momento tanto atteso è arrivato nel Day 2, negli spazi dell’immenso Palau Sant Jordi. Sessioni di 15’ per “nazione”, non un minuto in più, da dividere quindi con gli altri cronisti propri connazionali.

Il programma ci serve sul piatto come prima portata Andrew Wiggins. La stella dei Timberwolves ha la faccia da “lo sai che vorrei stare a Barceloneta a broccolare le giovincelle quindi facciamolo senza farci male”, ma quando si sprigiona il suo sorriso a 892 denti illuminerebbe tutto il palazzo.

Il #1 del draft 2014 sta costruendo la carriera che sin dalla tenerissima età ci si aspettava per lui: quella di una star. Nella sua terza stagione nella Lega si è consolidato come scorer di primissimo livello (23,7 punti a partita) e quei 1256 chilometri di braccia in difesa si fanno sentire eccome. “Ma devo ancora lavorare parecchio sia sulla fase difensiva che sul ball handling e su questo mi voglio concentrare questa estate”, spiega il pupillo di Minneapolis.

Provo a sciogliere il ghiaccio che alberga nell’area noi riservata con una domandina sulle Finals.

“Mmm, great team, great games, great coaches”.

Ok, buco nell’acqua.

Provo a stuzzicarlo chiedendogli se rimpiange un po’ il fatto che a giocarle, se non fosse stato per la trade che portò Love a Cleveland, poteva esserci lui.

“Mmm, io non penso mai ai se e ai ma. Penso alla mia squadra, ai Timberwolves. E sono convinto che siamo una squadra che ha tutto per arrivarci da sola, un giorno, a quei livelli”.

Tiriamo avanti ancora per qualche minuto, provo a fare il simpatico con un giochetto: ti dico un nome, tu mi dici un aggettivo.

Towns. “Dominante”.

Rubio. “Altruista”.

Garnett. “Leggendario”.

Thibodeau. “Lavoratore”

Anthony Bennett. “Su di lui ti dico qualche parola in più. Lo conosco bene ed è uno che lavora duro. Non ha trovato ancora la sua dimensione anche perché non è sempre facile. Deve stare tranquillo e la troverà, ne sono sicuro”.

Cinque alto e passiamo ad una strana coppia: Jamal Murray e Brandon Ingram. I due rookie, a differenza dell’ala dei Timberwolves, sono belli sciolti e a loro agio, soprattutto la guardia dei Nuggets.

Uno canadese, l’altro americano. Uno da Kentucky, l’altro da Duke. Jamalone entra già nel mio cuore quando prova ad andare di trash talking. “Quando saremo tutti al nostro massimo, noi canadesi vi faremo il culo”, sentenzia l’Mvp del Rookie Challenge 2017. Ingram incassa ghignando e non ci fa troppo caso. L’aria mezza addormentata lo fa sembrare distratto, ma in realtà è vispo e ricettivo. I suoi occhi a mezz’asta si accendono quando il discorso va sul suo hobby: il disegno.

“Mi piace disegnare sin da quando sono piccolo, mi libera la mente nei momenti liberi dal basket”, confessa l’ala dei Lakers. Gli chiediamo se se la sente di fare un ritratto al volo di Murray e la cosa lo fa sbellicare dalle risate.

So’ ragazzi.

Anche la guardia dei Nuggets ha un passatempo molto particolare: le arti marziali. “Vero, quando ho tempo le pratico ancora oggi. Mi ha insegnato mio padre quando ero piccolo ed è una cosa che mi aiuta tanto a livello mentale per mantenere salda la concentrazione nei momenti di grande stress”.

E infatti è bello concentrato anche ora, ma sullo stuzzicare il rilassato Ingram. Io provo a metterci il carico chiedendo loro se sento la rivalità Duke-Kentucky. “Abbiamo giocato una volta contro ai tempi del college e ovviamente abbiamo vinto noi!”, stuzzica Jamal. “Ok, ma era dicembre”, replica Brandon. Ma niente botte, per carità.

C’è giusto il tempo per chiedere a Murray un appello per la scelta del Gallo in merito al suo futuro. “E’ un grande, ci divertiamo sempre un sacco con lui. Digli di rifirmare con noi!”, dice Murray.

“Sure, Jamal” e lo saluto.

Chiusa la mezz’ora col terzetto d’oltreoceano, ora è la volta del trio europeo. Iniziamo dal più giovane, Porzingis. Era la prima volta che mi capitava di vederlo dal vivo ed è davvero impressionante: io sono alto 1,90 ma lui mi supera di 30 centimetri sicuri e l’apertura alare è spaventosa, ma ciò che mi ha colpito davvero è la naturalezza dei suoi movimenti. Non c’è la goffaggine che ci si potrebbe attendere da una persona della sua stazza. Quella fluidità innata che gli si vede in campo è lampante anche nella vita di tutti i giorni.

Non si può parlare di tutto, però, con Porzee: il suo agente ci chiede di non fare domande sulla situazione dei Knicks. Provo ad aggirare l’ostacolo col giochetto che avevo sfoderato con Wiggins (“un nome, un aggettivo”) ma il lettone non ci casca. Mi concede un “big brother” per Carmelo Anthony, ma quando provo a virare su Derrick Rose mi fa subito “no” con il ditone. Che è lungo come il mio braccio.

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Kristaps, però, è un ragazzone molto alla mano, sempre con il sorriso stampato in faccia. Siamo in Spagna, parliamone di sta Spagna che per cinque anni è stata casa tua. “Ce l’avrò sempre nel cuore, ma i luoghi che chiamo casa sono Liepaja e New York. Nella Grande Mela sto bene, è una città che ti sorprende ogni volta, ma quando voglio staccare la spina torno nella mia città natale. Ti dico una cosa: ho dei meravigliosi ricordi anche dell’Italia. Quando mio fratello Janis giocava lì mi piaceva tantissimo andare a trovarlo. Probabilmente la Serie A è stato il primo basket di altissimo livello che abbia mai visto dal vivo. Mi ha aperto la mente ed ero così piccolo allora… Si respirava un’atmosfera incredibile: queste piccole città come Pistoia o Livorno in cui praticamente tutti si conoscono che si scaldano come pazzi durante la partita. Stupendo, ricordi indelebili”.

Si parla di tutto, manca solo la birra ghiacciata e potremmo essere all’Nba Cafè a parlare al bancone durante una partita delle Finals. “Beh quello no, non ne ho vista nemmeno una di partita, di notte dormo!”, sghignazza il lungo (ancora) dei Knicks, che invece ha seguito da vicino le finali di Acb che hanno sorprendentemente incoronato campione il Valencia. “Ho chiamato i miei ex compagni Joan Sastre e Pierre Oriola per complimentarmi con loro. Ho visto gara 4 contro il Real e mi hanno colpito le loro facce a fine partita. Ho letto l’emozione che avevano negli occhi e sono stato davvero felice per loro”. E poi la nazionale, della quale vestirà per la prima volta la canotta in una grande competizione internazionale: “Siamo un bel gruppo potenzialmente con me, Strelnieks, Timma e tutti gli altri. Ma metto piede in questa squadra per la prima volta nella mia vita. Potrebbe funzionare come no, speriamo bene. Posso solo dire che ce la metterò tutta”.

Gli do appuntamento per vederci insieme il documentario sulla sua vita che uscirà fra pochi giorni. “Ah sì, sta per uscire? Nemmeno lo sapevo! Sono venuti in Lettonia a parlare coi miei, a fare riprese in giro per Liepaja ma non so bene cosa aspettarmi. Speriamo sia bello, ma non mi sento pronto per una carriera nel cinema. Almeno per ora”.

Hai altro che ti viene bene, Krì.

Un saluto al nostro lettone preferito ed eccoci catapultati al cospetto del padrone di casa: Ricky Rubio è nato a El Masnou, 20 minuti di macchina da Barcellona, cresciuto a Badalona, 10 minuti di macchina da Barcellona, ed esploso a Barcellona, per l’appunto. “Quando posso torno sempre qui – confessa il genio dei Timberwolves – per allenarmi da solo in tranquillità, ma anche per trascorrere qualche momento di pace lungo questa bellissima spiaggia. Prendo la off-season molto seriamente, ma è importante anche riposarsi e staccare la spina in questo periodo. Per quello oltre a giocare a basket d’estate gioco a calcio, a tennis, a paddle o, quando possibile, surfo un po’. E farlo in queste terre mi piace da matti. A volte non me ne rendo nemmeno conto, ma sono davvero fortunato ad essere nato qua”.

Dialoghiamo sul suo modo di intendere il basket e le sue parole sono un manifesto che appenderei in tutte le palestre. “Il sistema, gli schemi, i dati sono importanti per rendere al meglio. Ma in fin dei conti il basket è un gioco e se non c’è divertimento non riesci ad esprimerti al meglio. Prendiamo gli Warriors: sono un sistema costruito in maniera perfetta, ma guarda come si divertono insieme quando scendono in campo”.

Un ragionamento la cui sintesi perfetta sarebbe proprio quel “Change your face, be happy, enjoy it!” rivolto al suo ex compagno Alexey Shved.

“È lo stesso concetto che cercavo di passare quella volta ad Alexey e cercai di spiegarglielo. Stava giocando male in quel periodo e non era sereno. Quello che volevo fargli capire era: siamo due ragazzini europei allo Staples Center con 20 mila persone a guardarci giocare con la canotta di una squadra Nba contro Kobe Bryant. Lui non si stava godendo quel momento. Tutte le stats, tutti i giochi, tutti i blablabla non contano niente se non ti gusti questi momenti”.

Fare del proprio divertimento preferito il proprio lavoro. Il sogno di ogni bambino di El Masnou, del Catalogna, del mondo intero. Rubio l’ha realizzato e se lo gode ogni giorno. E questo approccio al basket lo rivede in Luka Doncic. “E’ divertente vederlo giocare perché il basket gli esce dalle mani in maniera così naturale. A volte quando sei giovane sei meccanico nell’eseguire certi movimenti, lui no nonostante sia ancora giovanissimo. Gioca con quella naturalezza e spensieratezza con la quale giocheresti al campetto con gli amici. Ma lui lo fa in Eurolega ed fantastico!”. Ma anche in Gianluca Basile, suo compagno di stanza ai tempi del Barca cui ha fatto visita qualche settimana fa a Ruvo di Puglia per la sua partita di addio al basket. “Uno dei migliori compagni che abbia mai avuto. Ho tre o quattro canotte soltanto dei compagni di squadra che ho stimato di più e la sua ovviamente la custodisco gelosamente. Era un giocatore così talentuoso, una delle migliori guardie europee, ma venne al Barcellona con una umiltà incredibile, mettendosi al servizio della squadra correndo e difendendo per tutti. Mi sono divertito molto con lui, ho tanti bei ricordi e per questo non sono voluto mancare al suo addio”.

Ci congeda con una pacca sulla spalla lasciandoci l’impressione di aver ricevuto una vera lezione di vita.

Resta solo lui: il Gallo. Si è fatta sera al Montjuic, siamo da quasi tre ore a contenderci gli assi Nba e loro si prestano senza fiatare a quella che comunque non deve essere la parte più divertente dell’essere un professionista. Ma anche la stella più fulgida del nostro basket ci accoglie con rilassatezza. Anche quando provo a stuzzicarlo ricordandogli che in nove stagioni Nba ha giocato solo 12 partite di playoff. “Siamo cresciuti tanto quest’anno e ne sono felice, ma a 28 anni, quasi 29, voglio poter giocare per vincere. I Nuggets sono una delle opzioni che ho davanti per il mio futuro, con l’unico piccolo vantaggio dalla loro parte di potermi offrire cinque anni di contratto anziché quattro come le altre”.

Non si sbottona sul suo futuro il Gallo e allora parliamo d’altro: parliamo di Olimpia (“la stagione è stata deludente, ma Pianigiani lo conosco bene, è un grande”), parliamo di Milan e di quando lui era un 18enne che, come Donnarumma, stava decidendo il suo futuro. “Oggi si punta il dito contro di lui, ma a 18 anni sono momenti delicati e su molte decisioni pesano molto le persone che si hanno vicino. Anche io alla sua età sembravo un predestinato, ma cercavo di stare concentrato sugli esami di maturità, al resto pensava la mia famiglia. Fatta la maturità, insieme a loro ho deciso di intraprendere con convinzione il percorso che poi ho fatto e sto facendo. I soldi possono condizionare molto, ma ripeto: dipende da chi sta al fianco del ragazzo. Io ho avuto la fortuna di avere mio padre vicino anche a livello manageriale, per cui i soldi non sono mai stati l’unico elemento di scelta. Per ora è andata sempre bene, anche se i pranzi e le cene da nonna mi mancano quando sono in America”.

Estate è Nazionale (“anche senza Bargnani e, forse, Gentile sapremo essere competitivi perché siamo incazzati neri per com’è andata l’anno scorso”), ma estate è anche… campetto! “Il campetto è un must. Se mi togliete il pallone d’estate io impazzisco, per questo ci vado: per non stare sempre in palestra a fare i soliti workout con l’allenatore. Staccare un po’ e andare a giocare con degli amici a Milano, la città che amo e che girerei a piedi tutto il giorno tutti i giorni mi piace tantissimo. So che molti evitano il campetto per paura di infortunarsi. Ma ho capito anche che più pensi a questo e più è facile che ciò accada. Siamo un bel gruppetto di ragazzi che è cresciuto insieme, tanti di loro giocano in A2 e B, per cui non è assolutamente una passeggiata per me. Anzi, ti dirò di più: giochiamo sempre senza chiamare i falli. Per cui non è che ci andiamo soft…”.

8.30, lunedì mattina. La sveglia suona, sono in un bagno di sudore. Sono stato al campetto indossando le nuove adidas Crazy Explosive 17, al Palau con Wiggins, Ingram, Murray, Gallinari, Porzingis e Rubio, alla Fira a vedere sfidarsi i migliori giovani talenti del basket europeo, ho chiuso con una puntatina al Sonar per il live dei Justice… sarà stata la peperonata di ieri sera. Vado in cucina, mi preparo la colazione. Sul tavolo c’è un biglietto aereo mezzo stropicciato. Partenza: Barcelona-El Prat. Ritorno: Roma-Fiumicino. Sarà…

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Marco Pagliariccio

Di Sant'Elpidio a Mare (FM), giornalista col tiro dalla media più mortifero del quartiere in cui abita, sogna di chiedere a Spanoulis perché, seguendo il suo esempio, non si fa una ragione della sua calvizie.

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