grafica di Anna Iannucci
articolo di Marco Pagliariccio

 

 

Il basket spagnolo non sarebbe quello che è senza il Joventut

Ricky Rubio

 

18 pesetas. Al cambio del 2002 (quando la moneta spagnola è sparita per confluire nell’euro), 11 centesimi di euro. Cuixart, Estruch, Massot, Lloret, Boada, Corominas, González e Grífol non erano riusciti a racimolarne di più in quei primi scorci di primavera del 1930. Erano poco più che adolescenti, amavano lo sport e da pochi giorni avevano costituito la Penya Spirit of Badalona. Calcio, tennistavolo, ciclismo, basket, una piccola polisportiva che col suo nome richiamava le gesta eroiche dello Spirit of Saint Louis, l’aereo con il quale Charles Lindbergh sorvolò per la prima volta l’Atlantico senza scali, da New York a Parigi. Il simbolo della tenacia con la quale stavano dando forma al loro sogno.

18 pesetas, non una di più, come fondo cassa. Più 50 centesimi di quota mensile. Bisognava tirarci fuori tutto, a partire dalle divise. E così gli otto fondatori di quella che qualche anno dopo diventerà il Joventut de Badalona colmano i 10 chilometri che li separa da Barcellona, trovano un negozio di articoli sportivi e decidono di investire quei pochi spiccioli per darsi delle divise da gioco per la squadra di calcio. Non c’è una grande scelta cromatica: al negozio sono rimaste solo quelle verdi con una banda nera. E non bastano nemmeno per tutti: ne servono 11, ce ne sono otto, giuste giuste per loro e nessun altro. Ma per ora va bene lo stesso: verd i negre diventano i colori sociali.

 

Fast forward.

 

14 milioni di euro. Anni, decenni di crescita inarrestabile, sorrette però da operazioni finanziarie a volte spericolate, hanno gonfiato il monte dei debiti fino alla cifra toccata nel 2012. Un anno e mezzo a proseguire l’attività con l’incubo della bancarotta, poi una serie di accordi con il Comune e la vendita di alcune proprietà ridimensionano la cifra fino ai 2,5 milioni di euro, da spalmare su un piano di rientro di 8 anni concordato un anno fa dall’allora presidente Jordi Villacampa.

Sì, QUEL Jordi Villacampa.

Toccammo il cielo con un dito”, ricorda l’uomo che più di tutti ha rappresentato il “Penya spirit” di una storia lunga ormai quasi novant’anni ripensando al culmine di una stagione irripetibile: quella della vittoria della Coppa dei Campioni 1994.

Concittadino di Gaudì, come il plasmatore del surrealismo spagnolo dovette emigrare dalla natia Reus verso nord per fare fortuna. Ma se Antoni si fermò a Barcellona, Jordi proseguì oltre, fino al Ponte del Petroli. A Badalona trova strada facendo i compagni di squadra che lo accompagneranno a vincere tutto il vincibile nel corso di un quindicennio nel quale il Joventut si stabilizza come una delle grandi del basket europeo. Perché se è vero che i verdinigros, insieme a Real ed Estudiantes, sono gli unici ad aver sempre disputato il massimo campionato spagnolo, è nel quinquennio che va dal 1989 al 1994 che portano a casa due titoli spagnoli, una Korac e, per l’appunto, la perla più preziosa: l’agognata Coppa dei Campioni, cui nel 1992 aveva detto no un giovanotto di nome Sale Djordjevic.

Sulla panchina di quel Partizan che superava le logiche della guerra giocando le sue partite casalinghe a Fuenlabrada, sedeva un giovane allenatore promettente quanto diversi dei campioni che allenava: il suo nome è Zeljko Obradovic. Nell’estate del ’93 la dirigenza della Penya pone fine al triennio del santone Lolo Sainz e vuole a tutti i costi Bozidar Maljkovic per dare l’assalto al titolo europeo. Dopo qualche tentennamento, però, l’alchimista del clamoroso successo continentale del Limoges decide di proseguire ancora un anno in terra francese. Lasciando però un “pizzino” sul tavolo: “Quell’Obradovic è l’uomo che fa per voi”. La dirigenza si fida e porta il giovane Zeljko, appena 34enne, via da Belgrado. Missione chiara: plasmare una squadra di grande valore, costruita negli anni su un nucleo fondato sul talento di Villacampa, dei fratelli Jofresa, di Mike Smith, di Juanan Morales e di Corny Thompson a scalare l’ultimo gradino verso la gloria.

Il risultato lo sapete già, vero?

Chissà se qualcuno tra i 35 mila che il 22 aprile 1994 accolsero al Pabellon Olimpico di Badalona il rientro della squadra che aveva appena 24 ore prima steso a Tel Aviv l’Olympiacos di Tarpley e Paspalj immaginava che il trono della nuova regina d’Europa poggiava su basi di pastafrolla. I tredici anni di presidenza di Lluis Conesa fecero sì lievitare il Joventut lanciandola ai vertici del basket europeo, ma con i successi lievitavano anche i costi e con essi anche i debiti, senza adeguate coperture nonostante sponsorizzazioni importanti come 7Up.

I primi problemi vengono fuori proprio nell’estate successiva al titolo europeo e costringono una società che negli ultimi anni aveva sfondato il tetto del miliardo di pesetas di budget (oggi sarebbero oltre 6 milioni di euro, fonte La Vanguardia) e la quota di 11 mila soci a fare le prime drastiche scelte, a partire dai quelle sul roster. Obradovic viene lasciato andare a Madrid, dove porta con sé Mike Smith, e si va a prendere la terza Coppa dei Campioni in quattro anni, Thompson, l’eroe di Tel Aviv, va a svernare a Leon mentre la Penya fa poca strada sia in Europa (fuori agli ottavi in coppa) e ancor meno in patria, dove addirittura sventa a fatica l’ombra dei playout. A fine stagione, nel ’95, Conesa lascia la presidenza al primo dei grandi ex neroverdi che si succederanno da lì in avanti alla guida della società: Jordi Parra, badalonese doc pur con una carriera divisa tra Joventut, Real e Barcellona. “Avevamo l’illusione di aiutare la società nella quale eravamo stati sin da bambini e nella quale avevamo lasciato il cuore. Ma trovammo tanta confusione e contratti che non ci potevamo permettere. Così la prima decisione fu quella di ridurre drasticamente le spese, per cercare di non dipendere da sovvenzioni o altro”. Quattordici mesi dopo Tel Aviv, nel giugno del ’95, della squadra campione d’Europa restavano solo i fratelli Jofresa, Villacampa e Albert. Parra disegna un piano di fattibilità per trasformare il Pavellò dels Paisos Catalans, l’altro palasport di Badalona, abbandonato dalla prima squadra dopo le Olimpiadi del ’92 per traslocare all’Olimpico, in un centro commerciale con annessa una struttura per il settore giovanile simile alla celebre Masia di Barcellona. “Ma non fu possibile e non si capì il perché. Successero cose strane, come spesso capita quando ci sono soldi di mezzo. Andata com’è andata, la Joventut è durata anche più di quanto mi aspettassi”.

Rudy e Ricky

Idea non peregrina quella di Parra, basata su due assunti: rendere profittevole un patrimonio immobiliare (che poi venne invece venduto per tappare parte dei debiti) e dare maggior respiro al vero polmone del club ovvero la cantera. E se il primo non poté essere perseguito, sul secondo ha puntato forte il successore di Parra: Jordi Villacampa. Con i debiti che lievitavano anno dopo anno, per il cecchino di Reus l’unica via per tenere in alto la Joventut passava dal coltivare nuove generazioni di campioni fatte in casa, proprio come quella che qualche anno prima lui portò sul tetto d’Europa. “Non creiamo squadra, ma giocatori. Sarebbe bello che tutti gli juniores potessero salire in prima squadra, ma ovviamente non può essere possibile”, spiegava Carles Duran quattro anni fa: oggi è il capo allenatore della Divina Joventut che stagna laconicamente in fondo alla classifica della Acb ma che all’epoca era il responsabile del florido settore giovanile neroverde.

 

Ricky Rubio

Pau Ribas

Guillem Vives

Rudy Fernandez

Henk Norel

 

Questo potrebbe essere un quintetto formato interamente da giocatori in attività usciti dalla cantera badalonese. Dalla panchina potremmo far uscire Alberto Abalde, Christian Eyenga, Nacho Llovet, Alex Mumbrù, Pere Tomas, David Jelinek. E quel Sergi Vidal che dopo un lungo peregrinare è tornato quest’anno all’ovile con la fascia di capitano per pilotare la nave in mezzo alla tempesta. Potremmo farli allenare da Pedro Martinez o Joan Plaza. Metteteci un paio di americani di livello e si va a fare l’Eurolega, che ne dite?

Il corso del nuovo millennio voluto da Villacampa non poteva bastare per tenere il Joventut ai massimi livelli europei, ma di soddisfazioni ne ha date eccome, soprattutto a livello europeo con le vittorie di Eurocup 2006 e Uleb Cup 2008. Entrambe con un nucleo canterano molto forte ed un comune Mvp: quel maiorchino che a Badalona ha trovato la sua consacrazione, che si porta a casa il titolo di Mvp in entrambe le finali e che di nome fa Rudy.

E invece lo riconoscete quel bambinotto sulla destra, vero? Se Villacampa era venuto dal sud di Reus e Fernandez dell’est delle Baleari, la calamita neroverde fa presa anche a nord. Ricky Rubio, infatti, scende all’Olimpico da nord. El Masnou è una piccola gemma a 10 minuti di macchina da Badalona e 20 da Barcellona. Un rifugio ideale per chi vuole stare lontano dal caos immergendosi tra i mille colori dei garofani e le onde tanto care ai surfisti. Ricky compreso, che d’estate quando può torna a casa imbracciando la tavola a tagliare i flutti con l’eco lontano dalla movida barcelonista. A Badalona Ricky arriva a 13 anni dopo che per un anno aveva pure lasciato il basket per provare col calcio. Ma con la camiseta verdinigra fa ben presto capire a tutta la Spagna cosa significhi avere talento che sgorga da ogni poro. Se ne accorge ben presto pure coach Aito, che a 14 anni, 11 mesi e 24 giorni lo fa esordire in Acb contro Girona. Ovviamente, è tutt’ora il debuttante più giovane della storia della massima lega spagnola.

Al minuto 0:48 la classica giocata timida dell’under al debutto in prima squadra

 

Il talento di El Masnou diventa mese dopo mese la sensation con gli occhi del mondo addosso, i 51 punti, 24 assist, 12 rimbalzi e 7 palle recuperate, con tanto di buzzer beater, nella finale dell’Europeo Cadetti 2006 lo trasforma nell’oggetto del desiderio di tutti i grandi club. La Joventut sa di non poterlo trattenere a lungo e lo blinda con un contratto da 210 mila euro l’anno ma anche una clausola rescissoria da 4,7 milioni di euro. Nel 2009, ovvero appena possibile, si dichiara eleggile al draft e Minnesota lo chiama con la scelta numero 5. Il Joventut si accorda coi Timberwolves per lo sbarco in America, ma Ricky non ne vuol sapere: c’è sul piatto un lauto contratto per sei anni offerto dal Barcellona. Piuttosto che rinforzare gli odiati vicini, però, Villacampa si sarebbe dato fuoco davanti al Camp Nou. Ne nasce un’estate di tira e molla con tanto di denuncia da parte di Rubio al club, ma per fortuna tutto è bene ciò che finisce bene: il 1° settembre 2009 Rubio firma per i blaugrana.

Ma successi e plusvalenze non cancellano i debiti, anzi. Neanche i 3,7 milioni di euro che il Barcellona versa per rilevare Rubio aiutano le casse del Joventut. La bolla che si era iniziata a gonfiare vent’anni prima esplode nel 2012, quando viene certificato un debito di 14 milioni di euro e la società resta in bancarotta per un anno e mezzo. L’accordo tra Comune e società per la cessione di alcuni terreni e la dilazione della restante parte del debito su otto anni sembrava aver sventato l’inevitabile, ma la situazione precipita a due mesi fa: la vitale sponsorizzazione da cinque milioni di euro in quattro anni che il Comune elargisce al Joventut viene bloccata perché ritenuta un aiuto illegittimo da parte del pubblico al privato. Si stoppano i conti e si congelano gli stipendi, il tutto appena cinque giorni dopo la firma di Duran a nuovo allenatore e un paio di settimane dopo l’ingaggio dell’argentino Laprovittola, i due colpi che dovrebbero risollevare il team di Badalona dal desolante ultimo posto in classifica. Perché se la barca affonda sul parquet, tutto crolla di conseguenza.

E quando le cose vanno male già di per loro, ci si mette anche la sfiga a rincarare la dose. Il 18 marzo, quattro giorni prima del consiglio degli azionisti che deve decidere se chiudere o meno una storia lunga 90 anni, la Joventut incontra l’Obradoiro nell’ennesima partita da vincere per provare a lanciare la risalita. 1,4” alla sirena, 62-62, Jerome Jordan trova il tap-in che varrebbe una vittoria che varrebbe platino sia per la classifica che per il morale. Ma il fischio dell’arbitro strozza in gola l’urlo dell’Olimpico.

 

Il 22 marzo, 8 giorni prima dell’88° compleanno della società, il consiglio degli azionisti ha votato al 99% la non messa in liquidazione. Decisivo si è rivelato il piano dell’attuale presidente Juanan Morales, uno che di Villacampa era spalla privilegiata in quel Joventut campione d’Europa: vendita di terreni, sovvenzioni statali e tre investitori pronti a rilevare il pacchetto di maggioranza del club sono le vie che si stanno battendo in queste settimane. Pochi mesi di tempo, due finali da vincere: quella economica e quella sportiva. Una sola potrebbe non bastare per tenere in vita un pezzo di storia del basket europeo.

Il primo sussulto è arrivato domenica scorsa: dopo 13 sconfitte consecutive e nessuna vittoria nel nuovo anno, l’orgoglio verdinigro è esploso nella sfida sulla carta molto complicata contro il Gran Canaria 5° in classifica. Stavolta la Divina Seguros è stata più forte degli spettri di Obradoiro: sotto di 3 a 7” dalla sirena, l’Herbalife trova un pazzesco pareggio con la triplona di Eulis Baez. Ma stavolta la beffa non si concretizza: Laprovittola fa il suo dovere in lunetta per il 92-91 a 6” dalla fine dell’overtime, il Granca non riesce a replicare e il successo stagionale numero cinque fa accorciare la distanza dalla zona salvezza a 4 punti, con ancora da giocare gli scontri diretti di ritorno con Zaragoza, Burgos e Bilbao.

#NoEnsRendirem, non ci arrenderemo, è l’urlo di battaglia scelto dalla società per l’ultimo assalto sulla strada verso la salvezza. Non arrendersi come non si arrese Charles Lindebergh sorvolando l’Atlantico o come non si arresero gli otto pionieri che colorarono per sempre di verde e di nero l’allora piccolo borgo marinaro seduto sulle dolci spiagge catalane. O come non si arrese quella 7Up quando il cronometro della finale di Coppa dei Campioni 1994 si mise a fare le bizze, dando all’Olympiacos la chance di sfilarle dalle mani un trofeo già vinto. No pain, no gain.

 

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Marco Pagliariccio

Di Sant'Elpidio a Mare (FM), giornalista col tiro dalla media più mortifero del quartiere in cui abita, sogna di chiedere a Spanoulis perché, seguendo il suo esempio, non si fa una ragione della sua calvizie.

1 comment

  1. Almeno sul campo c’è stato il lieto fine fortunatamente, fa bene leggere un articolo del genere che parla di una società storica quando ancora la salvezza sembrava un’impresa ed è stata raggiunta. Mi è mancato leggere queste pagine dopo qualche mese di stop. Ottimo lavoro!

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