grafica di Davide Giudici
articolo di Andrea Cassini

 

 

UN POETA IN POST-BASSO

I Villanova Wildcats hanno appena vinto il titolo NCAA e tutte le luci dei riflettori sono su Donte DiVincenzo, conosciuto anche come Big Ragù e il Michael Jordan del Delaware, il che, senza nulla togliere al giocatore, dovrebbe far intuire qualcosa sul livello cestistico di quello stato. Donte, dicevamo, di italiano ha poco più del nome, ma a noi i paisà stanno irrimediabilmente simpatici e ci siamo innamorati subito del suo gioco sfrontato e ipercinetico. Quando segni 31 punti di career high nella partita più importante della vita, poi, diciamo che sei sulla buona strada perché quei 15 minuti di celebrità si trasformino in qualcos’altro.

Nella finale contro Michigan, DiVincenzo ha avuto il grande merito di accendere la miccia nell’attacco stagnante dei suoi, ingabbiato dall’ottima partenza degli avversari e tradito in parte dall’emozione. Quando Villanova ingrana le marce alte e inizia a connettere coi tiri da tre punti, quasi nessuno è in grado di starle dietro. L’abbiamo imparato in stagione e nel corso del torneo nazionale; l’ultima partita non è stata differente, nonostante la fiera opposizione dei Wolverines.

Omari Spellman – Credit: Soobum Im-USA TODAY Sports

Coach Jay Wright non ha mai fatto mistero sulle ispirazioni tattiche che ha trasmesso alla squadra: Houston Rockets, Golden State Warriors, Boston Celtics e le altre che in NBA schierano quintetti piccoli e insistono su circolazione palla, tiri da tre e continui cambi difensivi. Sono proprio questi esempi illustri a mostrarci la lezione più importante: perché lo small ball funzioni a dovere è necessario disporre di giocatori versatili, specialmente sul fronte difensivo, maestri nell’arte del “play big”– vale a dire, che sappiano compensare con atletismo, mestiere e intelligenza i centimetri che pagano nei confronti di quintetti più canonici. Molti dei Wildcats, se ci pensate, rispondono a questo identikit. Il playmaker Jaylen Brunson non è alto ma è molto fisico, al punto da sfidare spesso la difesa in post-basso. Mikal Bridges possiede leve chilometriche e piedi velocissimi, il tutto innestato su un telaio flessibile. Ma lo spot chiave è quello del 5, il più esposto a subire le angherie dei centri che in ambiente NCAA ancora spostano gli equilibri. Omari Spellman è la personalissima versione made-in-Philadelphia di Draymond Green; non è un passatore del calibro del Dancing Bear, ma fa a sportellate sotto canestro senza paura di nessuno. Poi, con la medesima naturalezza, sa uscire sul perimetro per contenere una guardia o segnare una tripla dall’angolo. Spellman è rimasto in tribuna tutta la stagione scorsa, da redshirt, per problemi burocratici: ne ha approfittato per dimagrire e si è trasformato nella sorpresa più bella per coach Wright. L’uomo giusto al posto giusto, il pezzo forse più importante del puzzle.

Questo è Omari Spellman sul parquet. Fuori dal campo, se possibile, siamo di fronte a un personaggio ancora più peculiare.

Nothing has changed

What lines must we speak?

What shields must we raise?

Because we have cried and cried out

Why must we be wiped out?

Sono righe di una poesia, l’autore è proprio Omari Spellman. Le pubblica su Instagram (o tempora o mores, direbbero i latini, ma noi ci accontentiamo); talvolta le legge in classe durante i corsi di scrittura creativa che frequenta. “In campo è un killer”, lo descrive coach Wright, “ma poi lo ritrovi a parlare di filosofia, coi modi gentili e a voce bassa. Tramite la scrittura esprime ancora più emozioni che in una conversazione”.

La sua passione per la poesia è nata presto, da subito intrecciata col basket. Viveva a Cleveland da bambino, e suo padre vinse due biglietti per una partita dei Cavaliers proprio componendo dei versi. Allo stesso modo del basket, racconta Spellman, la scrittura è una valvola di sfogo e un mezzo di espressione, utile anche come auto-terapia. Trasferitosi a New York per le scuole superiori, si ritrovò spaesato per l’impatto con la grande città e cominciò a covare una forte rabbia, la stessa che mostra in campo quando schiaccia sopra la testa del difensore. Il basket e la scrittura gli hanno permesso di liberarsi di quei sentimenti, lo hanno salvato, ma per ora non vuole che i due mondi si incrocino; non ha mai scritto poesie sulla pallacanestro. Si dedica piuttosto a riflessioni sulla natura umana, sulle disuguaglianze sociali, sul razzismo. Come questa.

We lied there a moment

Wishing to solve the world’s problems

Then we thought almost simultaneously

Are we the world’s problem?

Black

We never spoke about it after then

Why is that…?

 

 

L’URLO DI RUI HACHIMURA TERRORIZZA L’OCCIDENTE

Rui Hachimura- Photo by Ezra Shaw/Getty Images

Per i tifosi di Gonzaga, e per tutti quelli che si sono affezionati a una delle underdog di maggior successo, la March Madness dell’anno scorso fu certamente più emozionante. Gli Zags di Zach Collins, oggi a Portland, e del gigante Przemek Karnowski finirono per contendere il titolo ai favoriti di North Carolina, mentre nell’edizione 2018 del ballo per gli uomini di Mark Few, seppur premiati da un decoroso ranking col numero 4, la musica ha smesso di suonare già alle Sweet Sixteen per mano dei Florida State Seminoles.

Tuttavia chi apprezza il basket internazionale, e Gonzaga ha sempre avuto la tendenza ad allargarsi oltre i confini americani, ha potuto lustrarsi gli occhi col talento di Rui Hachimura, passaporto giapponese e qualche gene africano nel DNA, un autentico gioiellino scovato nel misterioso oriente come in una storia da fumetto. Dopo una stagione da freshman passata principalmente a imparare l’inglese, Hachimura ha fatto registrare 11 punti e quasi 5 rimbalzi di media, toccando il career high di 25 proprio al torneo nazionale, contro Ohio State, in una prestazione che gli è valsa un appunto sui taccuini di ogni scout. Il suo atletismo si proietta senza problemi anche a livello NBA, dove coprirebbe gli spot di 3 e di 4. Controllo palla e tiro da fuori sono tutti da registrare, ma il suo potenziale da slasher e difensore è intrigante.

La parabola di Hachimura si avvicina a qualcosa che abbiamo visto in Slam Dunk quando l’antagonista più scontroso del manga, Kaede Rukawa, annoiato dalla scarsa competizione meditava di lasciare la terra natale per concludere le scuole superiori in America. Hachimura ha dominato i tornei scolastici, al punto che persino un programma di spessore come Gonzaga si è accorto di lui e gli ha offerto una borsa di studio. Una bella scommessa, se consideriamo che il Giappone è un paese sostanzialmente vergine per quanto riguarda la pallacanestro. Fino ad oggi sono degni di nota soltanto i nomi di Yuta Watanabe, altra stellina che sta lasciando il segno in NCAA con la maglia dei George Washington Colonials, e di Yuta Tabuse, protagonista di qualche comparsata tra Phoenix Suns e D-League, che in patria chiamano col fantasioso alias de il Michael Jordan giapponese. Ora, a differenza del Delaware e di Donte DiVincenzo, più che dalle qualità di Tabuse il soprannome nasce dal fatto che Michael Jordan è per molti nipponici l’unico cestista conosciuto.

Tra gli sport importati dall’America, i giapponesi hanno sempre preferito il baseball, mentre in anni recenti cresce a vista d’occhio la passione per il calcio. Il basket è rimasto in una nicchia, cristallizzata appunto all’epoca di Jordan con l’espansione globale della NBA. Tra i club sportivi delle scuole superiori, in realtà, è parecchio praticato e piace in special modo alle ragazze: la nazionale femminile è tra le migliori in Asia, e la scorsa estate si è battuta con onore contro le stelle statunitensi. Non c’è da stupirsi che i tornei liceali dove Hachimura faceva il bello e il cattivo tempo, trasmessi in diretta tv, attirino talvolta più spettatori della lega professionistica locale, ribattezzata di recente con l’ambiguo nome di BJ League. Quest’ultima è un’accozzaglia poco competitiva di glorie locali e americani d’importazione – basti pensare che ci gioca l’ex sventola-asciugamani dei Lakers Robert Sacre-, mentre nelle high school si può quantomeno assistere a rivalità degne di quella tra Shohoku e Ryonan in Slam Dunk. Di recente ho viaggiato in Giappone, e l’unica menzione alla BJ League in cui mi sono imbattuto è stata un misero volantino, attaccato sulla porta di una bottega che vende ramen.

Il playground di Yoyogi, lo scorso Novembre

A Yoyogi, uno dei parchi più grandi di Tokyo, ho conosciuto Federico che vive e studia lì. In Italia giocava a basket in una squadra minors, ma da quando si è trasferito è costretto ai salti mortali per mantenersi in allenamento. L’ho incrociato mentre giocava su uno dei tre playground di Yoyogi, unico gaiijn bianchiccio che svettava tra i giocatori del posto. Va lì quasi ogni giorno prima delle lezioni, mi ha raccontato, perché non esistono squadre amatoriali in cui inserirsi. Finite le scuole, nello sport come in qualsiasi altro ambito della vita, in Giappone si crea uno stacco netto tra il professionismo e tutto ciò che esula dal lavoro – che va confinato in spazi inquadratassimi e, possibilmente, molto ristretti.

Filippo, che ha girovagato per l’arcipelago molto più a lungo di me, mi conferma invece quanto siano rari i campetti, in rapporto ai 130 milioni di abitanti. Quando si trovava a Sapporo, nell’estremo nord, temeva che sarebbe rimasto a palleggiare in cortile. Poi per fortuna si è imbattuto negli unici due canestri della città, che infatti attiravano nugoli di stranieri – soprattutto americani – in trasferta di lavoro; certo, sopra al campo passa la ferrovia e in mezzo ci sono delle colonne che fanno impallidire le nostre palestre più disagiate, ma sempre meglio che niente. Si può far finta che siano compagni di squadra che piazzano blocchi granitici.

L’unico campetto di Sapporo, in Hokkaido. Giocare a basket lì è roba da duri

Chissà se l’avventura oltreoceano di Rui Hachimura riuscirà ad accendere nei cuori dei giapponesi una scintilla d’amore per il basket, un po’ com’è successo per il calcio con tanti atleti di successo migrati nei campionati europei. Se disputasse un’altra stagione NCAA, Hachimura si confermerebbe punto di riferimento degli Zags, ma qualcuno spinge perché si dichiari eleggibile già al draft del prossimo giugno: fonti autorevoli, come Sports Illustrated, lo proiettano addirittura alla chiamata numero 18. Con le Olimpiadi di Tokyo appena dietro l’angolo, il Giappone avrebbe proprio bisogno di una figura trascinante.

 

 

IL TEDESCO DI FUOCO

Moritz Wagner

Il motto dei Michigan Wolverines, stampato a lettere cubitali sulle magliette, recita “Do more, say less”. Fai di più, parla di meno. Strano, perché a giudicare dalla condotta in campo del loro centro nonché giocatore di punta, il tedesco Moritz Wagner, verrebbe da pensare il contrario. Wagner è una girandola di emozioni, tutte perfettamente intelligibili dalle sue espressioni facciali, e di certo non lo spaventa la barriera linguistica con lo slang americano perché due parole ce le ha per tutti. Quando le cose vanno bene diventa l’obiettivo preferito di cameraman e fotografi: gigioneggia col paradenti come Steph Curry, fa le linguacce, si mette in posa flettendo i muscoli. Lui ci mette del suo perché le cose vadano bene, intendiamoci. Due metri e dieci, forte e veloce, longilineo: sa farsi valere nel pitturato contro avversari più piccoli – ha dominato nella semifinale contro Loyola Chicago – ma possiede anche un ottimo palleggio e tira da tre con una percentuale vicina al 40%. In America lo chiamano “unicorn in the making”: non è ancora all’altezza di un Porzingis, di un Towns o di un Embiid, ma il modello è il medesimo. In più, da buon tedesco, ha studiato i filmati di un certo Nowitzki e ha imparato a imitare quel tiro in allontamento col ginocchio alzato per crearsi spazio.

Quando gli è stata posta la domanda, tuttavia, lui ha ammesso che la sua vera fonte d’ispirazione è un’altra: Kevin Garnett. Ed esattamente come KG, Wagner affronta la pallacanestro con un piglio viscerale che, quando le cose invece vanno male, lo porta a combinare qualche casino o quantomeno a rendersi antipatico. In finale contro Villanova è il migliore in campo nei minuti iniziali, è perfetto al tiro ed efficace a rimbalzo. Poi il tiro da fuori dei Wildcats rompe gli argini, Michigan esaurisce le energie nel tentativo di inseguire la circolazione palla degli avversari e Wagner, piano piano, esce dalla partita. Omari Spellman gli si cuce addosso e lo porta a scuola in un paio di occasioni. Wagner non la prende bene. Sbuffa, si lamenta, urla imprecazioni a se stesso, alla fine si accapiglia con Spellman e qualsiasi altro Wildcat gli capiti a tiro.

Non ha un bel rapporto con la sconfitta, Mo Wagner, e lui è il primo ad ammetterlo. Non ama tirare da tre punti, dice, nonostante la mano educata, perché c’è un alto rischio di sbagliare e odia l’idea di girarsi verso i compagni e pronunciare il fatidico “I’m sorry”.

Prima della partita, Wagner è un personaggio del tutto diverso. Chiuso nei propri pensieri, con la musica sparata dalle cuffie, non parla con nessuno ma l’energia lo consuma dall’interno. Si mangia le unghie, batte i piedi, non riesce a stare fermo. La palla a due è la panacea che cura la sua ansia, gli permette di sfogare tutto quel fuoco che gli arde dentro e di usarlo per galvanizzare i compagni. Imbattuti dal 6 febbraio fino all’ultima partita del torneo nazionale, i Wolverines edizione 2018 sono stati una squadra umorale, elettrica, spesso divertente da vedere, tutta difesa e intensità con qualche sprazzo di talento. Dopo tre anni in maize and blue, Mo Wagner è pronto per dichiararsi al draft, probabile scelta di fine primo giro: al piano di sopra lo attendono altri unicorni, altre sfide e tanti altri palcoscenici dove sputare fuoco.

 

 

DESTINATI A VINCERE

Clayton Custer e Ben Richardson

Sull’imprevedibile cavalcata di Loyola Chicago, arrestata solo alle Final Four dai Michigan Wolverines, abbiamo sentito più o meno ogni dettaglio nelle ultime due settimane. Dalla gavetta dell’impomatato coach Porter Moser ai ricordi della storica vittoria del 1963, l’unica nella bacheca dell’ateneo, quando i Ramblers sconvolsero l’America presentando quattro giocatori di colore in quintetto. E come non citare il personaggio più amato dalle telecamere, Sister Jean, che dall’alto dei suoi 98 anni ha accompagnato la squadra fino a San Antonio – dove ha tenuto persino una conferenza stampa – in veste di cappellana del team.

Al confronto con la sua originalissima figura, c’è un’altra storia che è passata forse in secondo piano.

Immaginatevi la piccola provincia americana di Stranger Things, solo vent’anni più tardi e qualche miglia più a ovest. Non siamo in Indiana, bensì nel Kansas, Overland Park, 170.000 anime nel profondo Midwest. Per il resto, stesse scuole di periferia, stessi vialoni percorsi da pigri pick-up e ragazzini in bicicletta. Due di questi ragazzini sono Clayton Custer e Ben Richardson. Non vanno in sala giochi o alla sessione di D&D, come i protagonisti di Stranger Things: ogni volta che escono di casa, hanno il pallone e una bottiglia d’acqua nello zaino. Vivono nello stesso quartiere, frequentano la stessa classe, giocano nella stessa squadra dalla terza elementare fino all’ultimo anno di high school. Crescono letteralmente insieme, ciascuno conosce i pregi i difetti dell’altro meglio dei propri: due entità complementari, che sul campo da basket ragionano come un giocatore solo.

Overland Park è in piena Jayhawks Country, la squadra di riferimento è quella prestigiosissima di Kansas University, e tutte le estati Custer e Richardson si danno da fare nei camp di allenamento tenuti da coach Bill Self. Non arriveranno mai a giocare per lui, come sognavano da ragazzini, ma crescendo si costruiscono comunque una solida reputazione tra chi segue la pallacanestro nella Missouri Valley. Madre natura non li ha graziati col talento atletico, il più alto dei due è Richardson che arriva appena ai 190 centimetri secondo le generose statistiche della NCAA; per compensare serve tanto lavoro extra in palestra, ma la sforzo alla fine paga. Alla Blue Valley Northwest High School i due entrano in quintetto come giocatori di tutto rispetto, nonostante le facce pallide e i fisici dinoccolati. Richardson si specializza in tiro da tre e difesa (nell’ultimo anno a Loyola è stato, non a caso, il miglior difensore della Conference), Custer matura in un playmaker completo con innate doti di leadership (le stesse che gli hanno valso il premio di giocatore dell’anno 2018 per la Missouri Valley Conference). In quattro anni, lo score della squadra recita 94-6. Conquistano il titolo dello stato due volte, quando va male arrivano in finale. Al momento di separarsi, però, i due sono convinti che non vinceranno più insieme. Ben Richardson si sposterà in Illinois, per frequentare la modesta Loyola Chicago, mentre Clayton Custer ha ricevuto proposte per borse di studio più accattivanti. Sceglie Iowa State.

Passa un anno e le loro strade s’incrociano di nuovo, come se uno strano magnetismo li attraesse l’uno all’altro. L’esperienza di Custer a Iowa State è partita col piede sbagliato e lui decide di trasferirsi, a costo di saltare un anno come prevede il regolamento NCAA. Ha ancora qualche estimatore di lusso in giro per il paese: Creighton, Wichita State, Missouri. Eppure Custer corre subito al colloquio con coach Porter Moser, e con la cappellana Sister Jean, perché in cuor suo ha già scelto di riunirsi con Ben.

Quando giocano insieme, Custer e Richardson vincono: è quasi matematico. Approdano al tabellone nazionale come dominatori della Conference, sia in regular season che nel torneo conclusivo, e anche se il ranking non li premia ci sono molti appassionati pronti a scommettere che Loyola Chicago avrebbe ballato a lungo, in questa Madness. Certo, magari non fino alle Final Four.

Si completano a vicenda, sono un mostro cestistico a due teste, come quando alla vigilia delle Elite Eight Custer suggerì a Richardson di tirare più spesso. Facile come premere un interruttore: 6-7 dall’arco nella sfida contro Kansas State, 23 punti di career high ed ennesimo upset completato.

Sperare di tagliare la retina anche a San Antonio, specialmente con l’impressionante Villanova che occhieggiava dall’altra parte del tabellone, era obiettivamente puro wishful thinking. Tuttavia, per due amici abituati a vincere più che a perdere, non è impresa facile rientrare a casa da sconfitti. Camminano abbracciati, poi scompaiono negli spogliatoi. Per Ben Richardson questo era l’anno da senior, l’ultima corsa coi Ramblers di Loyola Chicago. Che fosse anche l’ultima occasione di vincere insieme a Clayton Custer? Su questo, visti i corsi e ricorsi della loro storia, mai dire mai.

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