JUST DO IT. Devono aver pensato proprio questo gli executives della Nike quando, increduli, si sono visti prospettare l’inattesa possibilità di metter davvero sotto contratto Michael Jordan, quell’allora ragazzo che di lì a poco sarebbe diventato uno degli atleti più emblematici della storia.

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Slogan di un’immediatezza ed efficacia rara: semplice e facile da memorizzare, allude a qualcosa di più del suo significato letterale lasciando spazio all’interpretazione e permettendo alla gente di stabilire una connessione personale col brand (ragionamento simile a quello che ho tentato io nello scegliere ‘Basket: I Feel This Game’ come titolo del mio libro, fondendo gli slogan di NBA ed Eurolega, con risultato diametralmente opposto).

Pur essendo piuttosto familiari con questo celeberrimo motto pubblicitario, molti di voi probabilmente non sono a conoscenza delle sue origini: come rivelato dalla mente che lo partorì, l’ispirazione é stata fornita dalle ultime parole proferite da un criminale prima della sua condanna a morte.

Trattasi infatti di Gary Mark Gilmore, assassino cresciuto in Oregon, che ha dato i natali sia alla Nike che alla Wieden+Kennedy (agenzia pubblicitaria creatrice dello slogan in questione).

Il criminale infatti, volto noto alla polizia statunitense per una serie di infrazioni culminate poi con l’uccisione di un uomo ed una donna nello Utah, vedendosi fornire la possibilità di proferire le sue ultime parole prima dell’esecuzione della propria condanna a morte, optò per un laconico: “Let’s do it”.

Fu proprio da lì che Wieden trasse ispirazione, scambiando il “let’s” con “just”, e fidandosi a tal punto della propria intuizione dal riuscire a vincere tutte le insistenze del socio e del resto dello staff che erano poco entusiasti (per usare un eufemismo) della sua proposta.

“Let’s do it” - Le ultime parole di Gary Gilmore prima dell’esecuzione della sua condanna a morte
“Let’s do it” – Le ultime parole di Gary Gilmore prima dell’esecuzione della sua condanna a morte

Torniamo a Jordan però. Lo avete mai visto indossare delle calzature che non fossero quelle dell’azienda dello swoosh (o all’italiana del “baffo”)?

Certo che sì”, diranno alcuni di voi, dal momento che il nostro al college indossava Converse come tutti gli altri (famoso il modello replicato relativamente di recente bianco e celeste North Carolina).

Le Converse di North Carolina
Le Converse di North Carolina

Non tutti tra coloro che han risposto affermativamente però magari sanno che MJ aveva una netta preferenza per l’azienda delle “3 stripes”.

Qui sotto trovate una foto davvero rara: Michael Jeffrey Jordan con delle Adidas ai piedi e per giunta senza il suo numero 23 (indossato invece dal giocatore alle sue spalle)!

Michael Jordan in Adidas (e col numero 53)
Michael Jordan in Adidas (e col numero 53)

Ciò che ai giorni d’oggi sembra inconcepibile, é stato in realtà ad un passo dall’accadere: fu infatti l’Adidas a negarsi la possibilità di firmare un testimonial che avrebbe cambiato la storia dell’azienda, del gioco e dell’intero mercato delle calzature per cestisti (curiosità: visitate http://www.nba.com/jordan/, url lasciata così com’era dalla Lega in onore del suo giocatore più iconico di sempre).

Motivo? A detta loro, non ne valeva la pena: “Chi si relazionerebbe con lui? Nessuno. Non arriva neanche ai 2 metri. Bisogna puntare sui giocatori più alti, e focalizzarsi sui pivot”.

Come sarebbe cambiato il mondo se Michael avesse calzato le three stripes?
Come sarebbe cambiato il mondo se Michael avesse calzato le three stripes?

La scelta di Michael allora fu semplice: mettere nero su bianco con Nike nel 1984 un accordo di 5 anni per 2.5 milioni di dollari (ovviamente record dell’epoca). Fa sorridere oggi pensare al fatto che l’azienda americana inserì per proteggersi una clausola d’uscita dal contratto dopo il terzo anno (due anni prima quindi) nel caso in cui il giocatore non fosse riuscito a mettere a punto una delle seguenti cose: vincere il titolo di Rookie of the Year, diventare un All-Star o viaggiare a 20 punti di media ad allacciata di scarpe. Inutile dire che, solo nel primo anno, la Nike di quelle scarpe ne vendette talmente tante da ricavarne 100 di milioni…

orologio jordan
Per chi volesse ascoltare la vicenda narrata dal diretto interessato, il breve video qui sotto é la risorsa giusta:

Di acqua sotto i ponti (e di modelli ed edizioni della scarpa da basket più famosa del mondo) ne é passata molta, talmente tanta che ai giorni d’oggi Dragan Bender, un ragazzo non ancora nato all’epoca del lancio delle prime calzature dedicate al #23, si é visto privare della possibilità di scendere in campo con la propria nazionale giovanile ai Mondiali U19 a causa del conflitto tra lo sponsor della compagine croata (Jordan ed il suo jumpman) ed il suo contratto di sponsorizzazione personale con l’Adidas.

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Di minacce di adire le azioni legali e di cause vere e proprie legate al famigerato logo in questione ce ne sono e ve ne sono state parecchie altre, prima tra tutte quella intentata alla Nike dal fotografo che sostiene di essersi visto rubare l’idea senza aver ottenuto il meritato e lauto compenso.

La prima foto in una posa che ricorda molto quella poi divenuta un simbolo per molteplici generazioni é stata scattata infatti da Jacobus Rentmeester molto prima che le Jordan I venissero lanciate.

Lo scatto di Renmeester per Life Magazine (pre-Nike)
Lo scatto di Renmeester per Life Magazine (pre-Nike)

Lo scatto qui sopra fu infatti realizzato per un numero di Life Magazine dal fotografo in questione nel 1984, nel periodo di preparazione alle Olimpiadi.

Dopo la sua pubblicazione, Peter Moore (uomo della Nike nonché designer delle prime Jordan) pagò 150 dollari per utilizzo temporaneo degli scatti e rullini di Rentmeester, che a distanza di anni sostiene che questi ultimi siano stati usati per mettere a punto la campagna che ha dato il via ad un successo di proporzioni gigantesche.

Il confronto tra le silhouette: a sinistra quella estrapolata dallo scatto incriminato, a destra il logo che ha fatto la storia
Il confronto tra le silhouette: a sinistra quella estrapolata dallo scatto incriminato, a destra il logo che ha fatto la storia
Lo storico momento: Jumpman prende vita
Lo scatto Nike che ha dato ufficialmente il via all’egemonia Jordan
Lo scatto Nike che ha dato ufficialmente il via all’egemonia Jordan

Proprio pochi giorni fa, la corte ha dato ragione al colosso americano: nulla da temere per la Nike, che, dopo aver recentemente festeggiato in grande stile a Parigi il trentesimo anniversario del brand Jordan e del relativo logo, può continuare a sfornare modelli e spot televisivi leggendari a ripetizione (non ne vengono inseriti qui per non appesantire la lettura, ma se ne é trattato nell’altro mio pezzo di qualche tempo fa intitolato “Timeout: linea alla pubblicità”).

SW15069_NIKE_Iconic_Michael_Jordan01_PR_native_1600_tk9n3iUn esito diverso sarebbe probabilmente stato di sollievo a quel famigerato executive nel quartier generale tedesco Adidas che ha preso la decisione finale sulla firma di Michael. Chissà se, in questi tempi in cui la sua azienda si é vista scavalcare da Under Armour come seconda potenza nel mercato delle calzature cestistiche a stelle e strisce, ogni tanto si sveglia ancora la notte sudato pensando di avere la penna in mano ed il contratto su cui poter ancora apporre la propria firma e cambiare tutto…

Che lo faccia o no una cosa é certa: le occasioni così capitano una volta sola.

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Valerio D'Angelo

Ingegnere romano malato di palla a spicchi. Lavoro a WhatsApp (ex-Google, ex-Snap, ex-Facebook) e vivo a Dublino, in una nazione senza basket, dal 2011. Per rimediare ho scritto il libro "Basket: I Feel This Game", prefazione del Baso. Ho giocato a calcetto con Pippen e Poz, ho segnato su assist di Manu Ginobili, ho parlato in italiano con Kobe in diretta in una radio americana e mi e' stato chiesto un autografo a Madrid pensando fossi Sergio Rodriguez.

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