“Time is precious, waste it wisely”, sprecalo saggiamente. Che cosa? The time, il tempo, intuibile. Che poi, sprecare saggiamente sa di ossimoro. Chi è il saggio che spreca? Il saggio magari sbaglia, ma essendo tale ha la chiave per aprire il portone del rimedio, mica poco. E può perdere e uscirne sconfitto perchè fa parte del gioco, ma sempre in totale controllo delle proprie azioni, perché il saggio pianifica, calcola e poi agisce.
Il tempo è prezioso, in qualunque misura e quantità. Esistono sport che si basano sul tempo e che non avrebbero ragione di esistere senza di esso. Sono sport che il tempo lo rincorrono freneticamente, che lottano per il millesimo di secondo. Poi c’è la pallacanestro, che invece lo mette a disposizione, il tempo. È un gioco ad incastro, si conta alla rovescia, si attende qualcosa che, a prescindere dall’esito, sarà emozionante. E quante cose succedono in due, tre, quattro secondi? Poche, leggendo questa frase probabilmente sono già esauriti. Eppure, la pallacanestro esalta le unità minime. Il motivo? Semplice, tutto sommato. Hanno una peculiarità: scrivono la storia.

 

26 maggio 2002, California.

E’ la serie delle stelle, di Bibby e Webber a Sacramento e dei soliti ma mai tedianti Bryant e O’Neal a Los Angeles. Dopo aver perso gara uno sul proprio campo i Kings tirano fuori dal cilindro due gare perfette e sorpassano, portandosi 2 a 1 nella serie. Gara quattro è fondamentale, per fuggire da una parte e per riaprire dall’altra. I Kings sono a otto secondi dal segnare la serie e portarsi sul doppio vantaggio che significherebbe doppio match-point, ma la palla è dei Los Angeles Lakers che vanno sul sicuro: ricezione per Kobe Bryant a cui viene concesso il fondo per invitarlo sugli aiuti di un’area stracolma, Il numero 8 aleggia in aria e lascia partire un layup in mezzo al traffico che trova solo il ferro, serie di tocchi a rimbalzo che premiano le mani di Robert Horry fuori dai tre punti. Rob sa bene di non poter esimersi dal tirare quel pallone: escono in due a contrastarlo, siluro dai 7,25 che trova solo il cotone. Nel segno di Big Shot Rob, lo Staples Center è in delirio. Pari a quota due, soliti crocevia. Risultato? Lakers vincitori della serie in gara sette prima, campioni NBA poi.

 

13 maggio 2004, Texas.

L’SBC Center di San Antonio, prossimo a prendere il nome di AT&T, è gremito, ancora una volta. Spurs e Lakers, game 5: vincere per segnare il destino della serie ed aggrapparsi al sogno della finale di conference. Karl Malone si morde nervosamente il labbro inferiore, Tim Duncan e Shaquille O’Neal sono pronti a saltare per la palla a due, alzata da Dan Crawford. Doppio tocco e primo possesso Lakers nelle mani di Kobe Bryant che serve Shaq in post basso: giro e tiro appongiandosi al tabellone, due a zero Los Angeles, l’atto numero cinque è cominciato. E’ la partita dei nervi, degli episodi e dei break recuperati, degli Spurs che eseguono e dei Lakers trascinati dai propri inevitabili protagonisti. Tutto si immobilizza a cinque secondi e quattro decimi dalla fine, con i Lakers a +1 e con la rimessa San Antonio Spurs  nelle mani di Manu Ginobili. Sere di blocchi per liberare Tim Duncan che riceve in post-alto: la prima soluzione è servire il taglio dell’argentino da Bahia Blanca, la seconda è liberare il tiro del caraibico. Ginobili non riceve, Duncan attacca il centro chiuso da O’Neal, carpiato che assomiglia ad una preghiera che in realtà non è mai, quando si parla del numero 21. Schiaffo alla retina, quattro decimi sul cronometro, Spurs a +1. Popovich prova a contenersi ma quello che ha fatto il suo fido destriero sembra essere davvero troppo, Jackson chiama timeout preoccupato, deve disegnare un miracolo. Gli Spurs negano tutte le soluzioni della prima rimessa, ecco il secondo timeout. Gary Payton è il passatore, Bryant si apre per ricevere ma è inseguito da due uomini, riceve Fisher di spalle a cinque metri dal canestro. Giro e tiro che parte nei tempi consentiti, parabola infinita che schiaffeggia la retina: ridono i Lakers che vinceranno la serie, piangono gli Spurs. Tutto in cinque secondi e, se mai fossero stati ignorati, quattro decimi.

 

27 maggio 2010, California (again…).

E’ la serie della voglia di rivalsa dei Los Angeles Lakers dopo gli “smacchi” subiti dai Phoenix Suns nel 2006 e 2007, la serie di Kobe Bryant e Steve Nash, la serie per andare alle Finals a giocarsi il titolo. Le prime due in California sono una passerella per i padroni di casa che segnano 128 punti in gara uno e 124 in gara due. In Arizona i Suns strappano entrambe le partite e tornano sulla parità trascinati da un inossidabile metronomo canadese. Poi gara cinque, per mettere un piede sul palco delle finali. Sul 101 pari con 3 secondi e 5 decimi da giocare i Lakers hanno la rimessa per vincere la partita: Phil Jackson ne ha viste e vinte parecchie e non deve fondamentalmente inventarsi nulla. C’è Kobe Bryant pronto ad uscire per un tiro che mai ha rifiutato e che presumibilmente non rifiuterà nemmeno in questo frangente. Detto fatto, finta di corpo e ricezione fuori dai tre punti per un tiro in controtempo difeso divinamente dai Phoenix Suns, la parabola si spegne a un metro dal canestro. Il 24 questa volta ha tradito, overtime allo Stap… anzi no, rimbalzo di Ron Artest che con un colpo da biliardo fa buca sulla sirena. Il primo abbraccio è proprio con Bryant “salvato”, se è consentito il termine dopo una partita da 30 punti con 11 rimbalzi e 9 assist, dalla foga agonistica del futuro Metta World Peace. Il labiale di Alvin Gentry, coach dei Phoenix Suns, è un emblematico “fuck!” che non ha bisogno di traduzioni. Gara sei è l’epilogo della serie, l’anello Lakers l’epilogo della stagione.

 

10 maggio 2015, Illinois.

E’ tornato LeBron James a Cleveland per alzare quel tanto sospirato titolo mai vinto nelle terre dell’Ohio, è tornato Derrick Rose dopo l’infortunio per riportare Chicago ai piani alti mai più raggiunti dai tempi di Michael Jordan. Conducono i Bulls per 2 a 1 nella serie e ancora una volta gara quattro è il passaggio fondamentale per aprire le porte delle Finals. E’ una partita di un’intensità rara che non esalta lo spettacolo: Irving e Shumpert hanno tirato complessivamente 3 su 18 dal campo, Noah e Mirotic 5 su 21. Derrick Rose a quota trentuno è il mattatore, fino a quel momento, della partita. James ha sbagliato venti dei ventinove tiri presi ed è accusato di aver giocato una delle peggiori partite della propria carriera (vabbè, le carambole sono comunque quattordici e gli assist otto, rasentiamo la tripla doppia). A 18 secondi e 8 decimi i Cavs hanno in mano la partita: sopra di due con palla nelle mani di LeBron James. Tom Thibodeau ordina un raddoppio sul nativo di Akron che usa il perno e sfonda. Le accuse al 23 aumentano, Derrick Rose sceglie la soluzione rapida e pareggia in penetrazione. Penetrazione di James su una valida difesa dei Bulls al limite del fallo che non viene sanzionato, rimangono 8 decimi che con l’aiuto dell’instant replay vengono riciclati a 1 secondo e 5 decimi. Rimessa dal fondo Cavs che David Blatt, uomo di storiche imprese, non ha però la possibilità di disegnare: timeout esauriti, ci si appella all’oracolo. Tutti già sanno a chi toccherà decidere le sorti della partita: corsa verso l’angolo di LeBron James che riceve, si alza e segna a fil di sirena. Serie impattata e poi vinta dai Cleveland Cavaliers, finale contro i Golden State Warriors ancora aperta. Stay tuned, tendenzialmente ci ha abituato bene LBJ, potrebbe rifarlo.

 

Dicono che i playoff siano un altro sport rispetto alla regular season. Vero, l’intensità è visibilmente superiore a livello di contatti, difese e tattiche. Non solo, mi sbilancio: quello che rende davvero superiori i playoff NBA è l’importanza che viene data ad ogni singolo attimo, per la loro capacità unica di segnare il corso degli eventi.
A occhio e croce sommando i secondi di questi quattro episodi della storia recente dei playoff (se ne potrebbero raccontare centinaia, da quelli in regular season a quelli dei playoff meno recenti) sfioriamo a malapena  i venti secondi. Venti secondi sono un terzo di minuto, il tempo che in queste estati bollenti ci serve per realizzare che in freezer è rimasto l’ultimo ghiacciolo, quello all’amarena che non va mai a ruba ma che basta e avanza per accontentarsi.
Il lasso di tempo insignificante per la maggior parte degli esseri viventi è lo stesso che nella pallacanestro prende vita e dipinge le imprese. Ecco il perchè del “time is precious, waste it wisely” inziale. Il basket è anche lo sport di strateghi fortunati che valorizzano ogni singolo centesimo di secondo per diventare protagonisti nei propri ricordi e nei ricordi di chi c’era. “E quante cose succedono in due, tre, quattro secondi? Poche, probabilmente leggendo questa frase sono già esauriti” come all’inizio. Ecco che il cerchio si chiude: quei due, tre, quattro secondi nella pallacanestro sono speciali. Vivono nell’eternità.

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