Era la fine degli anni Novanta. Ero un capelluto (…) adolescente in vacanza in montagna con i genitori. Tenevo tanto ad avere la canotta dei miei amati Lakers, specialmente quella di Shaq. Così mio padre decise di regalarmene una, quella gialla con le scritte viola.

Shaq

 

Allora non sapevo che la maglia numero 34 dei lacustri, ritirata un anno fa a perenne memoria delle gesta dell’incommensurabile “Diesel”, in precedenza era stata sulle spalle di un pioniere del basket europeo in Nba: Petur Gudmundsson.

Non memorabili le 8 partite del pivottone islandese a Los Angeles (8 partite nella stagione 1985-1986 a 7,3 punti e 4,8 rimbalzi di media), il quale però può fregiarsi di un titolo che nessuno potrà mai togliergli: quello di primo europeo a giocare tra i pro americani. Sì, avete letto bene: non uno slavo né un sovietico, fu un islandese a rompere il tabù. E sì, in Islanda si gioca anche a basket (do you remember Jon Steffanson, cecchino visto a Roma, Treviso e Napoli ora a Saragozza?), anche se in realtà il nostro in Nba ci arriva passando da una onesta carriera collegiale con la maglia degli Huskies di Washington, piovoso stato del nord-ovest americano nel quale il centrone venuto dall’Artico girava girato in infradito.

218 centimetri per 120 chilogrammi, capello alla MacGyver abbinato ad un baffetto da sparviero alla D’Antoni, Petur entra nel draft 1981, convincendo i Blazers a spendere per lui la chiamata numero 61. Sì, gli stessi oculatissimi Blazers che qualche anno dopo snobbano MJ per prendere Sam Bowie. Il suo fisico, le qualità di decente passatore e tiratore dalla media, oltre alla nordica etica del lavoro, seducono in una serata di ubriachezza molesta la dirigenza di Portland, che punta su di lui per rinverdire i fasti degli anni di Bill Walton nonostante Petur abbia lasciato l’anno da senior per alzare qualche pesos per sei mesi in Argentina.

La stagione da rookie a Portland, guarda caso, non è esaltante (solo 3,2 punti e 2,7 rimbalzi ma 12,8 lacci californiani a partita), così Gudmundsson a fine stagione fa le valigie in direzione casa. L’Ir Reykjavik lo strappa alla concorrenza spietata della Pinguin All Star con un contratto da 45 quintali di carne di balena e 600 litri di birra al mese e per due anni riesce a fargli credere che i due tizi col volto pitturato sui compagni di squadra siano Isaiah Thomas e Danny Ainge, usciti come lui dal draft dell’81.

Scoperto lo scherzo, decide che è ora di tornare di là dell’Oceano. Così quando nel 1985 i Tampa Bay Thrillers, franchigia della Cba, si convincono a puntare su di lui, non esita un attimo a lasciare le fiocine e tornare negli Usa. Dura meno di metà stagione in Florida, dove si adatta al clima tropicale come la Minetti alla castità, ed emigra a Kansas City, dove si ritrova suo malgrado al centro di una sfortunata vicenda giudiziaria: le autorità americane, con in testa lo sceriffo di origini varesine John Bossi, sanciscono che Petur debba essere espulso dagli Usa perché occupa un posto di lavoro destinato ad un americano, visto che non è in possesso di “specifici meriti ed abilità”. “Va a laurà, vichingo”, si legge nell’atto dell’epoca.

È praticamente sul volo per Reykjavik quando lo placcano i Lakers, che chiamandolo nel marzo 1986 e dandogli il ruolo di vice-Kareem (l’aria della West Coast dev’essere allucinogena) impediscono a “Petur the Great”, come lo ribattezzò la stampa losangelina, di essere rispedito in Islanda.

Anche a Los Angeles dura poco, venendo scambiato con gli Spurs nella trade che porta a Los Angeles Mychal Thompson (papà della guardia degli odierni Warriors Klay e vice-Kareem di altro spessore, diciamo). Ma lui ama gli States come e più delle costine di orso polare, per cui vi resta per quasi 4 anni, passando due stagioni a San Antonio a 5 punti, 4 rimbalzi e 16,8 bestemmie strappate al cattolicissimo David Robinson, ed un anno e mezzo di nuovo in Cba tra Sioux Falls e New Haven.

Si ritira nel 1992, a 34 anni. Ricompare nel 2000 come allenatore del Valur, squadra di pescatori di aringhe… pardon, squadra di basket della sua amata Islanda, dove nel 2001 è stato nominato più forte giocatore del secolo scorso (e vorrei ben vedere…). Con buona pace di Steffanson.

Shaq, ti adoro ma so che comprenderai: oggi ho corretto la tua canotta col pennarello.

 

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Marco Pagliariccio

Di Sant'Elpidio a Mare (FM), giornalista col tiro dalla media più mortifero del quartiere in cui abita, sogna di chiedere a Spanoulis perché, seguendo il suo esempio, non si fa una ragione della sua calvizie.

1 comment

  1. Dear Marco,

    I just wanted to drop you a quick note and say “thank you for the article!I”
    I very much appreciate and love your sense of humor. I only read the Google translation but I’ll assume it comes fairly close. 🙂

    Go Lakers!
    All the best. Ciao

    Petur Gudmundsson

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