illustrazione grafica di Paolo Mainini
racconto di Alessandro Piscitelli
La stagione NBA 1992-93 era terminata con il three-peat dei Bulls di Michael Jordan.
In gara 6, all’American West Arena di Phoenix, Chicago aveva sconfitto di un solo punto i Suns di Charles Barkley in un’epica partita decisa dalla tripla di John Paxson a quattro secondi dalla sirena. Con quel canestro, Jordan e i suoi compagni erano entrati di diritto nella storia della pallacanestro di ogni tempo e, probabilmente, lo avevano fatto come miglior team di sempre.
Due settimane prima, il 6 giugno 1993, il miglior giocatore d’Europa che vestiva la canotta numero 3 dei New Jersey Nets, Dražen Petrovic, aveva disputato con la sua Croazia un match di qualificazione a Wroclaw, in Polonia, per l’EuroBasket che si sarebbe disputato in Germania dal 22 giugno al 4 luglio. Aveva realizzato 30 punti, era stato l’MVP di quaranta inutili minuti e, il giorno successivo, era salito con i suoi compagni sull’aereo per Francoforte.
Durante lo scalo tecnico che avrebbe riportato i giocatori croati a Zagabria, Dražen fu raggiunto dalla modella ungherese che frequentava da qualche tempo, Klara, arrivata sin lì in auto insieme ad un’amica. I due ragazzi si appartarono dal resto del gruppo, parlottarono per alcuni minuti, dopodiché il campione di Sibenik salutò la fidanzata e tornò dai suoi compagni. Quella scelta, all’apparenza scortese verso Klara, si rivelò la più giusta della sua vita. Era una giornata piovosa, condizionata dalla nebbia, e la Golf rossa sulla quale Klara era risalita procedeva incerta sull’asfalto bagnato dell’autostrada A9 in direzione di Monaco di Baviera. Ad un tratto, nei pressi di Denkendorf, un camion uscì dalla propria carreggiata e Klara non riuscì ad evitare l’impatto con il mezzo pesante: lei e la sua amica Hilal rimasero gravemente ferite.
Dražen, già focalizzato sull’imminente torneo continentale, fu informato dell’incidente appena atterrato a Zagabria e, nonostante il maltempo, salì immediatamente su un’auto presa a noleggio in aeroporto per coprire i 548 chilometri che lo dividevano da Monaco. Dopo sei ore di viaggio raggiunse l’ospedale in cui era ricoverata Klara e le restò accanto per un’intera settimana fintanto che la modella ungherese fu dichiarata fuori pericolo dai medici. Petrovic, vero e proprio “diavolo” dei parquet di tutto il mondo, nella vita privata era una persona piuttosto silenziosa, introversa, riservata, quasi anonima con quel look da burocrate dello stato, e appresa la bella notizia tirò un agognato sospiro di sollievo.
Contro i suoi principi aveva già comunicato al coach della Croazia, Mirko Novosel, che non avrebbe preso parte alla rassegna continentale tedesca ma qualche giorno prima della partita inaugurale in programma a Berlino contro la Bulgaria, fu proprio Klara a dirgli che in quell’inizio d’estate la sua unica missione era condurre la Nazionale al primo oro della sua breve storia.
Dražen, incredulo e sorpreso, baciò allora la sua amata, si raccomandò con tutti i medici, gli infermieri e il personale dell’ospedale di prendersi cura di lei e raggiunse la capitale della nuova Germania unita per dare vita alla sua missione cestistica.
Insieme a lui si sarebbero battuti Perasovic, Zuric, Alanovic, Arapovic, Tabak, Vrankovic, Cvjeticanin, Komazec, Radja, Kovacic e Mrsic; con Grecia, Russia e Spagna, la Croazia era una delle favorite per la vittoria finale.
EUROBASKET 1993
In una Berlino ancora alla ricerca della sua vera identità dopo la caduta del muro di qualche anno prima, alla Deutschlandhalle inaugurata nel 1935 da Adolf Hitler – nel quartiere Westend – la Croazia debuttò nel gruppo B del torneo sbarazzandosi facilmente della Bulgaria, con oltre venti punti di margine. Il giorno seguente, contro la Francia, ebbe vita molto più dura tanto che i biancorossi riuscirono a piegare la formazione guidata da Forte, Bonato e Rigaudeau solo ai tempi supplementari grazie a due triple del suo Mozart.
Dražen, molto provato soprattutto a livello mentale per via di Klara, dopo la partita si trattenne con il suo amico fraterno Stojko Vrankovic a cena, poi i due si concessero qualche momento di svago in giro per la città visitando prima la porta di Brandeburgo, oramai “vecchio” cancello tra Est e Ovest, e in seguito quella parte di muro ancora in piedi, completamente dipinta da murales, che era stata da poco battezzata “East Side Gallery”.
L’abbondante chilometro di cemento armato era una vera e propria galleria a cielo aperto ma per Dražen, poche ore dopo, si trasformò in un terribile incubo. Durante la notte, infatti, sognò di dover scavalcare quel muro per raggiungere Klara ma, ogni volta che si avvicinava alla sommità dei tre metri e mezzo, una mano invisibile ed estremamente forzuta lo ributtava giù. Aveva tentato due, tre, quattro volte, poi si era improvvisamente risvegliato in un lago di sudore e nella solitudine della sua stanza d’albergo aveva subito pensato che il muro fosse il simbolo della decisione presa a Francoforte di non andare via con Klara.
Di ciò che aveva sognato non ne parlò con nessuno, nemmeno con Stojko, e in campo contro la Turchia sembrò che nulla l’avesse sconvolto: realizzò 27 punti e il punteggio finale fu 113-63 per la Croazia!
Il girone della prima fase fu vinto con un percorso netto di tre vittorie e dopo un giorno di pausa – che Petrovic trascorse nell’ospedale di Monaco insieme a Klara – si ricominciò, sempre a Berlino, contro il Belgio.
I malcapitati fiamminghi rimediarono un “trentello” di scarto dopodiché, come già accaduto nel match contro la Francia, i croati dovettero sudare parecchio contro i padroni di casa tedeschi. Al termine di una serrata battaglia, grazie ad altri 26 punti del numero quattro, gli uomini della bandiera a scacchi bianco-rossa ebbero la meglio con il punteggio di 70-63 e con quel risultato ottennero la qualificazione ai quarti di finale della rassegna continentale. Coach Novosel e l’intero gruppo uscirono a cena per festeggiare in un ristorante non lontano dall’Olympiastadion e, una volta rientrato in hotel, Dražen si trattenne al telefono con Klara per il resto della serata.
Durante la notte, però, ebbe un nuovo incubo, questa volta ancora più tremendo del precedente. La situazione era identica a quella del primo sogno: tentava di scavalcare il muro di Berlino, ora in prossimità della porta di Brandeburgo, ma questa volta la mano invisibile lo spingeva a raggiungere la cima del blocco di cemento. Arrivato all’apice buttò l’occhio dall’altra parte e vide sé stesso morto all’interno della Golf rossa al fianco di Klara.
Era terrorizzato, impaurito e quando si voltò indietro per scendere dal muro scorse la sagoma del suo vecchio amico Vlade Divac, con cui aveva condiviso e vinto tutto in Nazionale prima che la guerra di Jugoslavia mettesse fine al loro rapporto. La mano che l’aveva spinto in alto era stata la sua ma quando Petrovic provò a parlargli si risvegliò con un grido.
Poco dopo Dino Radja bussò alla sua porta, Dražen gli aprì e, sconvolto, sentì il bisogno di raccontargli ciò che aveva appena sognato. Il compagno di squadra ascoltò il suo racconto, tentò di tranquillizzarlo e gli consigliò di dire tutto anche al coach per far sì che lo lasciasse a riposo nell’ultima insignificante partita contro l’Estonia.
Il Diavolo di Sibenik ringraziò Dino, gli chiese di mantenere il suo segreto e l’indomani – come per il match di qualificazione giocato in Polonia – mise a referto 37 punti giocando quell’inutile incontro come fosse il più importante della sua carriera.
Le otto nazionali rimaste in corsa per l’oro – Francia, Grecia, Russia, Estonia, Spagna, Germania, Bosnia e, ovviamente, Croazia – erano le favorite annunciate alla vigilia del torneo e nei quarti di finale, che si sarebbero disputati all’Olympiahalle di Monaco di Baviera, il match clou offriva il neonato “derby” della ex-Jugoslavia tra croati e bosniaci.
Parlare di derby quando fuori dal campo – nei territori bosniaci – imperversava la guerra tra le due nazioni era quasi offensivo ed era ancora più amaro farlo ricordando che inizialmente croati e bosniaci avevano combattuto alleati contro le forze serbe. Proprio nei giorni di quell’EuroBasket, inoltre, andava in scena un conflitto armato tra i bosniaci musulmani e i croato-bosniaci e Mostar, già precedentemente martoriata dai serbi, sarebbe stata costretta alla resa dalle forze croato-bosniache.
Nei due giorni di pausa per il trasferimento da Berlino a Monaco di Baviera, Dražen sfruttò quel tempo “libero” per stare vicino a Klara. Erano trascorse poco più di tre settimane dall’incidente che l’aveva costretta in ospedale ma ora il traguardo della sua guarigione era sempre più vicino. Ovviamente non le disse nulla dei suoi incubi, non voleva turbarla, ma nel profondo del suo cuore si augurava che lei potesse uscire in tempo per assistere alla finale in programma domenica. Aveva bisogno di affetto, di sentire qualcuno per lui importante molto vicino e immaginandola lì, a bordo campo, era certo che avrebbe vinto.
Giovedì 1 luglio il contesto Croazia-Bosnia fu solo sportivo ma la tensione tra le due Nazionali e i rispettivi popoli rimase comunque altissima. Sul campo fu un monologo biancorosso: la Croazia di Petrovic, Komazec, Radja e Vrankovic era troppo superiore alla Bosnia-Erzegovina e il punteggio finale registrò un sonoro 98-78 per gli uomini di Zagabria.
Grecia e Russia rispettarono i pronostici eliminando Francia ed Estonia, mentre l’altra favorita – la Spagna – cadde incredibilmente dopo un tempo supplementare contro i padroni di casa tedeschi, guidati da Rodl, Koch e dall’ex NBA Christian Welp.
Le semifinali si delinearono così con Russia-Croazia da una parte e Grecia-Germania dall’altra. Si disputarono sempre all’Olympiahalle e furono due sfide molto equilibrate. La Russia annoverava tra le proprie fila il miglior playmaker della manifestazione, Sergej Bazarević, e aveva altre bocche da fuoco temibili come Babkov, Karasev, Fetisov e Panov. Per la Croazia di Petrovic fu un avversario davvero ostico, probabilmente il peggiore da affrontare, ma al termine di un confronto serratissimo gli ex jugoslavi riuscirono a spuntarla per soli due punti, trascinati ancora una volta dal Mozart dei canestri che realizzò 32 punti con un tabellino di tutto rispetto: 9/10 ai liberi, 4/8 da due punti e 5/7 dall’arco dei tre punti.
Dražen, per la seconda volta, aveva trascinato la giovane Croazia ad una finale – dopo l’Olimpiade di Barcellona persa contro il Dream Team di Michael Jordan e Magic Johnson – e ora attendeva la vincente di Grecia-Germania, con gli ellenici nettamente favoriti.
Patavoukas, Giannakis, Kakiousis, Sigalas, Fasoulas e Christodoulou sembravano una montagna insormontabile per la banda tedesca allenata dal serbo Svetislav Pesic, l’uomo che nel 1983 – mentre sedeva sulla panchina del Bosna Sarajevo – si fregiò del titolo di campione di Jugoslavia proprio ai danni di Petrovic e del suo K.K. Sibenik in modo a dir poco discutibile.
I tedeschi avevano già compiuto un mezzo miracolo arrivando tra le prime quattro squadre d’Europa ma, trascinati dal calore del tifo di casa, non si sentivano ancora del tutto appagati. L’incontro tra Grecia e Germania rimase incerto fino alla fine quando, con una giocata a dir poco spettacolare, Christian Welp schiacciò pochi istanti prima della sirena la palla a spicchi nel canestro, subendo anche fallo. Il centro tedesco realizzò il libero aggiuntivo e fissò il punteggio definitivo sul 76-73. L’Olympiahalle si trasformò in un catino infernale e le bandiere nero-rosso-oro sventolarono fitte come non mai: la Germania aveva appena conquistato la sua prima finale di un torneo importante e ora sognava in grande.
La vera vittoria di Petrovic di quel giorno, però, fu la dimissione di Klara dall’ospedale. La ragazza era in grado di camminare in maniera autonoma, non doveva sforzarsi troppo ma poterla avere di nuovo accanto fu il vero trionfo di Dražen. I due trascorsero la vigilia della finale insieme, non uscirono mai dall’albergo dove alloggiava la Nazionale croata e Petrovic si assentò solo per l’allenamento di rifinitura. Coach Novosel era contrario alle visite dei familiari ma data l’occasione particolare decise di chiudere un occhio.
Ciò che sconvolse maggiormente il campione di Sibenik, però, fu l’ennesimo incubo che lo colse la notte in cui Klara dormiva con lui. Questa volta si trovava già a cavalcioni sul muro e, guardando nella parte Est della città, vide solo Klara in compagnia della sua amica Hilal. Di lui non vi era traccia, pensò fosse normale essendo sopra al muro, ma quando tentò di scendere per andare verso le due donne capì che non poteva muoversi. Guardò improvvisamente davanti a sé e ora, di fronte a lui, c’era ancora una volta Vlade Divac. I due si osservarono gelidi per alcuni istanti, sembravano ricordare il loro passato insieme, tutto ciò che avevano vissuto fino a quel maledetto finale del mondiale in Argentina di tre anni prima quando, dopo essersi laureati campioni, Vlade aveva strappato dalle mani di un tifoso agitato la bandiera croata per rimarcare l’unità della Jugoslavia. Da lì in poi Dražen non aveva più voluto saperne di lui chiudendo ogni tipo di rapporto ma, ora, soli nello scuro della notte sopra al muro di Berlino capì di volergli chiedere qualcosa. Cercò di far uscire le sue parole ma si risvegliò di soprassalto scuotendo anche Klara.
Contro la sua volontà si vide costretto a raccontare quegli incubi alla fidanzata che, con estrema dolcezza, lo rincuorò dicendogli che la tensione per ciò che aveva vissuto nell’ultimo periodo gli stava giocando dei brutti scherzi. I due non si conoscevano ancora così nel profondo ma le rassicuranti parole di Klara lo tranquillizzarono al punto da trasformare quell’angoscia in energia positiva per la finale dell’indomani.
Era domenica 4 luglio e il palazzo dello sport di Monaco non aveva uno spazio libero. Dopo la palla a due la sfida sul parquet si fece subito infuocata: Dražen Petrovic da una parte e Christian Welp dall’altra risposero colpo su colpo e all’intervallo lungo il punteggio fu 38-35 in favore dei tedeschi allenati da Pesic.
Mirko Novosel, nell’intervallo, ridisegnò alcuni giochi d’attacco che non erano stati eseguiti alla perfezione e al ritorno in campo i croati si dimostrarono subito più concentrati e determinati. Perasovic, Radja e Vrankovic si unirono al Diavolo di Sibenik e a metà secondo tempo la gara prese la direzione di Zagabria. La Croazia si ritrovò avanti di sette lunghezze a tre minuti dal termine e il titolo sembrò davvero a portata di mano ma, com’era nel DNA di ogni formazione tedesca – soprattutto nel calcio – l’orgoglio teutonico venne fuori quando oramai nessuno se lo aspettava più: Rodl e Welp realizzarono otto dei dieci punti utili a riportare la contesa in parità.
Mancavano trenta secondi alla sirena e l’ultimo possesso era nelle mani degli ex jugoslavi. Il punteggio era inchiodato sul 70-70 e ognuno dei dodicimila spettatori sapeva che l’ultimo tiro l’avrebbe preso Petrovic. Perasovic gli recapitò il pallone tra le mani quando di secondi ne mancavano solo nove ma Dražen, contrariamente a tante altre situazioni di gioco passate, non cercò di crearsi un tiro: si buttò dentro l’area per rimediare un fallo e, puntuale, a due secondi dal termine arrivò il fischio per un intervento scorretto di Michael Koch. L’uomo con il numero 4 sulle spalle si portò così in lunetta per chiudere il discorso.
Aveva tirato migliaia, forse milioni, di tiri liberi nella sua vita e sapeva che quei due avrebbero potuto regalare il primo titolo di sempre alla sua neonata nazione. Dražen, com’era solito fare, ricevette il pallone dall’arbitro e, quasi senza guardare il ferro, scoccò il primo tiro libero verso il canestro avversario: solo cotone, Croazia a +1.
Rimanevano 2.4 secondi da giocare e il coach dei tedeschi, il serbo Svetislav Pesic, aveva già chiamato time-out per organizzare l’ultima azione. Petrovic osservò i suoi compagni, la sua panchina, Novosel, poi focalizzò il suo sguardo su Pesic e, memore di com’era finita nel 1983 quando realizzando entrambi i liberi perse di fatto il suo primo titolo di Jugoslavia a favore del Bosna Sarajevo, decise di sbagliare il secondo tiro. Nessuno dei suoi compagni, nemmeno il fratello Aza – vice allenatore della Croazia – si aspettava quella scelta, perché tutti sapevano quanto fosse contro il suo modo di essere ma, per il bene della Nazionale, Dražen aveva agito così. Il rimbalzo vagante fu catturato da Welp che, contrastato da Vrankovic e Radja, tentò di partire in palleggio ma si vide poi costretto a lanciare un disperato siluro verso il canestro croato. Tutto il palasport trattenne il fiato, tranne il Mozart dei canestri che aveva già capito come quell’ultimo improbabile tiro fosse fuori traiettoria.
Il pallone si spense oltre il tabellone e la Croazia festeggiò il suo primo titolo di campione d’Europa. Dražen Petrovic, il più grande, aveva trascinato i suoi in quella magnifica impresa e l’aveva fatto con il tormento per Klara durante tutto l’arco del torneo.
Sommerso dagli abbracci dei compagni si lasciò andare sfinito ma consapevole di aver appena aggiunto quel trofeo al suo già ricco palmares, che contava: 2 Coppe dei Campioni, 2 Coppe delle Coppe, 1 YUBA liga, 3 Coppe di Jugoslavia e 1 Copa del Rey conquistate con Cibona e Real Madrid, più 1 titolo Mondiale e 1 Campionato Europeo vinti con la Jugoslavia unita. Aveva alzato le braccia al cielo ovunque ma essersi appena laureato Campione d’Europa con la sua Croazia, dopo l’argento olimpico dell’estate scorsa, era per lui la vittoria più importante.
Venne ovviamente eletto MVP dell’EuroBasket e nel quintetto ideale si trovò in compagnia di Bazarevic, Christodoulou, Welp e del suo connazionale Dino Radja.
Aveva appena portato a termine la sua missione – come gli aveva chiesto Klara – e quando si trovò per un attimo da solo stabilì che gli incubi dell’ultimo mese sarebbero stati soltanto un lontano ricordo. Rimaneva da chiarire la presenza di Divac ma di quello, eventualmente, si sarebbe occupato più avanti.
Prima di dedicarsi per un po’ solo alla sua fidanzata doveva decidere dove avrebbe giocato la prossima stagione. Con i Nets aveva dimostrato di essere un vero top-player NBA ma voleva lottare per vincere l’anello e New Jersey non era una squadra da titolo. Aveva in mano l’offerta dei vicini Knicks, di Boston, ma anche del Panathinaikos – in Grecia – per tornare a collezionare coppe e campionati in Europa.
Si scoprì davvero molto indeciso su come proseguire la sua carriera ma, quando si trovava in un hotel di Atene insieme a Klara, ad un passo da un clamoroso ritorno nel vecchio continente, arrivò l’offerta degli Houston Rockets di Hakeem Olajuwon. Rudy Tomjanovich aveva deciso di puntare su di lui per dare l’assalto al regno vacante di Michael Jordan e dei suoi Bulls e così, dopo tre anni ai Rockets, Vernon Maxwell venne spedito a New York per fare posto a Dražen. Sorrise pensando che avrebbe preso il posto di colui che nel prepartita di un Houston-Nets dichiarò: “Deve ancora nascere un europeo bianco che mi faccia il culo!”
Petrovic, in tutta risposta, quella sera gliene piazzò 44 in faccia…
NBA 1993-94
Presa la decisione di continuare la sua carriera in America, con Klara pienamente ristabilita, il campione croato raggiunse i suoi nuovi compagni alle Hawaii e nell’arcipelago al largo delle coste del Pacifico fece la conoscenza di Hakeem Olajuwon, Mario Elie, Robert Horry, Kenny Smith e Otis Thorpe, più il promettente rookie Sam Cassell. I Rockets annoveravano nel proprio roster giocatori già pronti per vincere e pochi mesi prima erano arrivati fino alle semifinali di conference, sconfitti poi dai Seattle Supersonics dopo aver fatto registrare la miglior regular season della storia della franchigia.
Le premesse per fare bene c’erano tutte e la stagione iniziò nel migliore dei modi con quindici (15!) vittorie di fila. Al termine della regular season il record di 58 successi e 24 sconfitte valse ai texani il secondo posto a Ovest.
Nel primo turno di playoff i Rockets incontrarono i Portland Trail Blazers – prima squadra di Dražen in NBA – ed ebbero la meglio per 3-1 nella serie. Nelle semifinali di conference gli avversari furono i Suns di Charles Barkley e Kevin Johnson e, dopo essere andati sotto 0-2 e poi avanti 3-2, furono necessarie sette partite tirate affinché Houston avesse la meglio, grazie anche alle micidiali triple di Petrovic.
Prima della finale di Western conference con gli Utah Jazz, Hakeem Olajuwon venne premiato come MVP della regular season e il numero 34 dedicò il premio ai suoi compagni di squadra indicando in particolar modo Dražen, perché – disse – se aveva vinto quel riconoscimento era stato solo grazie a loro. La finale a Ovest fu una passeggiata per Houston che schiacciò i Jazz di Stockton & Malone con un sonoro 4-1.
Mercoledì 8 giugno 1994 nella Gara-1 di finale per il titolo i Rockets si trovarono davanti i New York Knicks di Patrick Ewinge Vernon Maxwell. La sfida tra le due stelle Olajuwon-Ewing era il leitmotiv della serie, ma il confronto tra le due guardie che nell’estate passata si erano scambiati le canotte non fu da meno: Petrovic vs. Maxwell!
Il fattore campo era a favore di Houston ma dopo le prime due partite nella città texana si volò nella Grande Mela sull’1-1, dato che New York era riuscita ad imporsi in Gara-2 grazie a cinque uomini in doppia cifra e ai rimbalzi decisivi catturati da Ewing e Charles Oakley.
Prima di Gara-3 al Madison Square Garden, Petrovic ebbe un incontro che lo sconvolse alquanto. Durante la stagione si erano rivisti in campo ma quasi non si erano parlati, l’altro aveva provato a telefonargli ma lui non aveva mai risposto finché, qualche giorno prima dell’inizio delle Finals, aveva ricevuto un messaggio in cui Divac gli aveva dato appuntamento per la sera dell’11 giugno in un piccolo ristorante situato tra la 7th Avenue e la West 37th street.
Dražen non rispose neanche quella volta ma, dopo vari ripensamenti, si presentò comunque all’appuntamento. Quando si videro, uno di fronte all’altro, gli sembrò di rivivere la scena del sogno in cui erano a cavalcioni sopra al muro di Berlino e quasi gli venne da sorridere. Si salutarono, da parte sua c’era grande freddezza e aveva paura che qualcuno potesse notarlo in compagnia del gigante serbo. La guerra imperversava ancora nei territori della ex Jugoslavia e se si fosse venuto a sapere che lui – croato – era andato a cena con Divac – serbo – avrebbe avuto diversi problemi in patria.
Petrovic aveva deciso di incontrarlo per domandargli il perché di quel suo gesto a Buenos Aires, in fondo al cuore sapeva che Vlade era una persona buona ma non poteva passarci sopra senza un vero chiarimento. Per rompere il ghiaccio, sempre in modo freddo, gli raccontò degli incubi che aveva avuto l’estate passata durante l’europeo di Germania; Vlade lo ascoltò molto attentamente e quando Dražen smise di parlare, con molta semplicità, gli disse che forse il suo inconscio gli stava chiedendo di sotterrare l’ascia di guerra per ciò che erano stati insieme.
Divac gli spiegò in modo dettagliato le ragioni di quel suo gesto in terra argentina, Petrovic lo studiò attentamente e alla fine capì che gli occhi del suo ex-amico erano sinceri e che le sue intenzioni erano state fraintese. Non si scusò per l’indifferenza che gli aveva sin lì dimostrato – non era nella sua natura chiedere scusa – e poi era comunque un croato fiero. Nessuno poteva permettersi di ammainare la bandiera della sua nazione ma capì le ragioni di Vlade, capì che nei suoi sogni aveva avuto paura di morire accanto a Klara e si rese conto che non aveva sistemato le cose con il suo vecchio amico.
Il muro era stato la grande metafora di quel suo ultimo anno e ora che lo stava abbattendo si sentiva sereno come non mai. Poteva pensare solo al basket ed era pronto per vincere l’anello. Divac non andò mai a vedere alcuna partita delle Finals, non voleva creargli problemi con il suo paese e nessuno seppe mai della loro pace ritrovata. Era il loro segreto e lo sarebbe stato finché la guerra non fosse finita.
In Gara-3 New York partì subito forte ma, minuto dopo minuto, i Rockets si riordinarono in difesa e rimontarono i punti di svantaggio accumulati. Nel finale fu un tiro da tre punti del giovane rookie Sam Cassell a garantire l’89-93 decisivo per Houston e il nuovo vantaggio nella serie.
Gara-4 e Gara-5 non ebbero storia: New York dominò i due incontri senza particolari sofferenze, vincendo con punteggi praticamente simili (91-82 e 91-84). I Knicks erano guidati dalla vena offensiva di John Starks, Vernon Maxwell e Pat Ewing, autore di ben otto stoppate nell’ultima partita andata in scena sulle tavole del Madison. Dall’altra parte Olajuwon piazzò 32 e 27 punti, ma quei bottini non furono sufficienti per evitare di trovarsi in Gara-6 con le spalle al muro.
Si tornò così al “The Summit” – l’allora campo dei Rockets – e i Knicks riuscirono ad imporsi sin dai primi minuti grazie ad un ottimo Starks, autore alla fine di 27 punti. Houston si trovò in grave difficoltà e in alcuni tratti sembrò alzare bandiera bianca consegnando il titolo di campione NBA a New York. Sam Cassell e Dražen Petrovic, uniti ad Hakeem “The Dream”, riuscirono però a mantenere vivo il match e addirittura a superare i rivali in volata. Si arrivò alle ultimissime battute sul +2 Rockets (86-84) ma John Starks ebbe nelle mani il tiro da tre della vittoria: lasciò partire dai suoi polpastrelli il pallone decisivo che, incredibilmente, fu però stoppato da Olajuwon. Soprasso evitato e serie finale sul 3-3! Tutto rimandato alla decisiva gara 7.
Il 22 giugno, esattamente un anno dopo la prima partita dell’EuroBasket di Germania che aveva consacrato definitivamente Petrovic, andò in scena il match conclusivo delle Finals. Dražen era ad un passo dall’unico titolo che gli mancava per rendere la sua carriera mitologica e, pur essendo molto equilibrata, in dirittura d’arrivo la partita prese la direzione di Houston. I Rockets ebbero la meglio per 90-84 e con l’ottima prova delle due stelle Petrovic e Olajuwon – eletto poi MVP anche della serie finale – arrivò il primo anello NBA per la franchigia e per i due giganti del parquet.
Il numero 4 croato era sul tetto del mondo: aveva dominato in Europa, trionfato con la sua Nazionale e, ora, si era laureato campione NBA. Intervistato subito dopo la fine della partita decisiva, ancora incredulo e con voce rotta dall’emozione, rispose così alla domanda della giornalista che gli chiese un suo commento: “I LOVE THIS GAME!”
Aveva davanti a sé il logo dello spot che andava ripetutamente in onda negli anni Novanta e quella semplice frase gli sembrò la più vera e spontanea che potesse dire. Parlava poco Dražen ma vinceva tanto e la sua carriera era finalmente completa. Aveva vinto tutto. Tutto ciò che c’era da vincere.
Sarebbe bello se fosse davvero andata così.
Titolo di Campione d’Europa con la Croazia e anello NBA con Houston ma, soprattutto, la certezza che Dražen fosse rimasto in vita.
Purtroppo, come tutti sappiamo, quel maledetto lunedì 7 giugno 1993 – dopo la partita disputata in Polonia – Petrovic era salito con i suoi compagni sull’aereo per Francoforte e durante lo scalo tecnico in attesa del volo per Zagabria era stato raggiunto dalla modella ungherese Klara Szalantzy che frequentava da poco. Dopo una breve chiacchierata i due, insieme all’amica di lei – Hilal – decisero di andare via sulla Golf rossa della ragazza e di lì a poco sull’autostrada A9 in direzione di Monaco di Baviera, all’altezza di Denkendorf, avvenne il terribile incidente.
La Golf, guidata da Klara, si scontrò con un camion proveniente dalla direzione opposta che aveva invaso la carreggiata e alle 17:20 di un pomeriggio piovoso e nebbioso Dražen morì sul sedile anteriore del passeggero. Dormiva, era senza la cintura di sicurezza e non si accorse di nulla. Klara e la sua amica riuscirono a sopravvivere ma le mani da pianista del Mozart dei canestri si erano fermate per sempre.
Fu una tragedia immane e al suo funerale, in una Zagabria ancora coinvolta nei venti di guerra, parteciparono oltre centomila persone.
L’EuroBasket 2013 fu vinto dalla Germania di Christian Welp e la Croazia si classificò terza, sconfitta in semifinale dalla Russia. Gli Houston Rockets vinsero comunque il titolo NBA del 1994 ma al posto di Petrovic c’era quel Vernon Maxwell a cui il “Diavolo” croato aveva stampato 44 punti “in face”. Dražen non si incontrò mai con Vlade Divac e i due non ebbero modo di chiarirsi e di fare pace.
Cinque anni dopo, nel 1998, lo stesso giorno – 7 giugno – io che scrivo questa storia fui protagonista di un incidente molto simile a quello di Petrovic. La macchina su cui viaggiavo insieme ai miei genitori si scontrò frontalmente con una vettura proveniente dalla direzione opposta ma, con me, il destino fu meno crudele. Riportai un’emorragia interna e la rottura di due vertebre della schiena ma, grazie alla cintura di sicurezza, mi salvai la vita.
Ironia della sorte, avevo iniziato a seguire il basket pochi mesi prima della morte di Petrovic, a 13 anni, e il mio Dražen era uno scugnizzo del sud con un cuore grande quanto il suo talento: Vincenzo Esposito.
Frequentavo da poco il palasport di Piazza Azzarita, a Bologna, e Vincenzino – detto “El Diablo” – incarnava diversi aspetti del vero Diavolo di Sibenik. I due si erano anche affrontati nel 1989: era il 14 marzo e ad Atene andò in scena la finale di Coppa delle Coppe tra Real Madrid e Snaidero Caserta. Petrovic realizzò 62 punti con percentuali quasi irreali (14/15 ai liberi, 12/14 da due e 8/16 da tre), mentre Esposito spese i suoi cinque falli nel tentativo, vano, di contenerlo.
Dopo il mio incidente i medici mi tennero in coma farmacologico per alcuni giorni e forse, durante quelle ore, incontrai anche Dražen. Non ne ho ovviamente certezza, sarebbe assurdo, ma mi piace pensare che, due anni dopo, quando la mia squadra del cuore conquistò il suo primo scudetto non fu un caso che il giocatore forse più determinante sia stato uno dei suoi migliori amici e uno di quelli che al suo funerale ne trasportava la bara: Stojko Vrankovic.
Non ho mai visto giocare Dražen Petrovic dal vivo e rimane uno dei miei più grandi rimpianti ma grazie alle VHS, ai DVD e al bellissimo docu-film “Once Brothers” di Michael Tolajian trasmesso da ESPN ho potuto apprezzarne le gesta e la sua incredibile carriera.
Aveva una capacità di rilascio del pallone praticamente perfetta, rapida, e per raggiungere quel livello si era allenato duramente ogni giorno della sua vita. Era un individualista, un giocatore dominante, uno – per intenderci – che se non hai nella tua squadra maledici fino al termine dei quaranta minuti. Probabilmente in campo era uno stronzo e forse senza il basket si sarebbe trovato un po’ smarrito anche nella vita “reale” ma, di certo, è stato uno dei più grandi giocatori – se non il più grande – che il continente europeo abbia mai visto nascere. E, soprattutto, è stato un vincente.
Da qualche anno sembra rivivere in un talentino sloveno di 201 cm che corrisponde al nome di Luka Doncic e, se fossimo ancora negli anni Ottanta, avrebbero giocato insieme per difendere i colori della stessa Nazionale.
La storia è andata diversamente, Dražen e Luka non si sono mai incontrati, appartengono a due epoche lontane ma in comune hanno la straordinaria capacità di farci amare questo meraviglioso sport.
Vidimo se kasnije Dražen!
Articolo da pelle d’oca. Complimenti.