Sabato 15 novembre, mentre le luci del Sun Dome di Tampa si abbasseranno e la voce dello speaker inizierà a presentare “yooour South Florida Bulls!” a migliaia di tifosi in biancoverde che fanno il gesto delle corna con le dita, ci sarà un uomo in piedi a bordo campo che chiuderà gli occhi. Orlando Antigua, il nuovo coach di USF, dominicano di nascita e newyorkese di adozione, si gusterà l’atmosfera della sua prima partita da capo allenatore a livello NCAA, ripasserà gli insegnamenti tratti dal suo mentore John Calipari, ripercorrerà le emozioni provate il giorno del suo esordio da giocatore a Pittsburgh University, ripenserà ai tempi di St.Raymond’s High School quando ad ogni partita del suo anno da senior sapeva che ne avrebbe messi 25 ma non sapeva dove avrebbe dormito dopo, e poi, come detto, chiuderà gli occhi. Isolandosi idealmente da quel frastuono e tornando indietro con la memoria fino a quella volta in cui invece tenere gli occhi aperti era il suo unico, lacerante, disperato pensiero.

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Don’t close your eyes. Don’t close your eyes. Don’t close your eyes. Please, don’t close your fucking eyes”. Non chiudere gli occhi. Il ragazzino steso sulla barella all’interno dell’autoambulanza che sta sfrecciando per le strade del Bronx lo ripete a sé stesso in continuazione, come un mantra. “Don’t close your eyes. Don’t close your eyes”. Se lo ripropone con una cadenza quasi musicale, come se fosse una filastrocca. In realtà, nelle sue intenzioni è qualcosa di molto più simile ad una preghiera. “Don’t close your eyes”. Nel terrore sconfinato di chi non sa quale sia il proprio immediato destino, tutto quello che il ragazzino può fare è appigliarsi alla razionalità, toccare per mano la logica. Non chiudere gli occhi: finchè vedi, non puoi morire. Non chiudere gli occhi: nel momenti in cui lo farai, verrai sopraffatto dal buio. Il ragazzino steso sulla barella sta sanguinando copiosamente. Gli hanno appena sparato e ha un proiettile in testa, conficcato nel cranio. Il ragazzino che non deve chiudere gli occhi per nessun motivo al mondo è anche il distinto signore che sabato, tra il buio e le luci dei fari di una arena di basket NCAA, invece li chiuderà per un attimo di sua sponte. Rivivendo nella propria testa tutta la sua incredibile storia, quella di Orlando “The Hurricane” Antigua.

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Orlando Antigua nasce nel 1973 in Repubblica Dominicana, dove però la sua vita si dipana per poco tempo. Con il marito che dichiara forfait appena pochi anni dopo lo scambio di gagliardetti iniziale, la signora Antigua si ritrova a dover crescere da sola tre bambini in una situazione economica non scintillante come quella che la famiglia conduce nel paese d’origine. Con gli unici risparmi messi da parte, la madre fa su quattro fagotti e parte con il piccolo Orlando e i suoi due fratellini minori. Destinazione: la patria di chiunque abbia un fagotto in spalla e un po’ di speranza nel cuore, New York City. Logicamente, una volta arrivati nella Grande Mela, non c’è un attico a Central Park ad attendere la famiglia Antigua, che invece si stanzia nel Bronx. E il Bronx degli anni ’80 non era quello quasi all’acqua di rose del giorno d’oggi, bensì un distretto povero e spietato. Ed è proprio in quell’ambiente così pericoloso, dove cresce per anni con l’unica oasi e distrazione rappresentata dalla pallacanestro, che la notte di Halloween del 1988 cambia la vita del 15enne Orlando. Mentre Antigua gira per il suo quartiere assieme a degli amici facendo il classico “dolcetto o scherzetto”, il gruppetto si imbatte in una lite tra un negoziante e alcuni ragazzi. Orlando e i suoi amici si fermano a guardare, per vedere fin dove si spinge la disputa. Non sono preoccupati: i litigi per strada, anche violenti, sono la normalità per chi vive in quella parte del Bronx. A pochi metri di distanza, sulla porta del negozio, c’è un gruppo di uomini vestiti in maniera elegante, con le facce serie e le mani in tasca. “Mi ricordo perfettamente particolari minuziosi come le loro espressioni e le mani in tasca. E’ incredibile ciò che può rimanere impresso nella mente umana anche a distanza di tempo”, racconta spesso Antigua al giorno d’oggi, quando ripercorre la sua storia. Ma Orlando se li ricorda perché quella notte di Halloween è uno dei momenti della sua vita che non dimenticherà mai. Da qualche parte sbuca dal nulla un uovo, che come un proiettile va a colpire in pieno uno degli uomini in abito elegante. Nella sera di Halloween non è così inusuale che venga lanciato qualche uovo, figuratevi nel Bronx. Vallo a spiegare all’uomo serio con le mani in tasca che si è appena visto sporcare il proprio vestito. Il tizio esce dal gruppetto e il primo che vede è Orlando, lì fermo, così alto, con un piede appoggiato al cofano di una macchina mentre assiste al litigio. Convinto che sia stato lui a lanciare l’uovo, non si concede neanche un timeout da 20 secondi per organizzare la rimessa laterale: d’istinto tira fuori una pistola e spara a bruciapelo. Antigua non vede neppure la pistola, solo il lampo dello sparo: il proiettile lo colpisce in pieno, beccandolo in testa a pochi millimetri dall’occhio sinistro. In un attimo nella via arrivano due poliziotti. Attorno c’è il fuggi-fuggi: gli uomini in vestito elegante, i ragazzi che litigavano, quelli che hanno tirato l’uovo, gli amici di Orlando, tutti quanti si dileguano in pochi secondi. Al Bronx è sempre meglio non essere sulla scena di una sparatoria quando arriva la polizia, tanto più se sei afroamericano o un immigrato ispanico. Lo scopre sulla sua pelle anche Orlando, che corre incontro a uno dei due agenti, con la mano insanguinata davanti all’occhio e indicando in maniera convulsa l’uomo che gli ha sparato. Il poliziotto, per non saper né leggere né scrivere, gli assesta una manganellata in testa che lo fa sanguinare ancora di più. Nel Bronx funziona così, prima si fanno le presentazioni con un paio di quelle assestate bene e poi magari si chiede cosa sia successo. Nel frattempo almeno l’altro agente chiama l’ambulanza: fortunatamente i soccorsi medici arrivano abbastanza in fretta e può essere che sia questo a salvare la vita ad Antigua. Una volta raggiunto il ragazzo sanguinante, i medici però constatano che è presente un foro di entrata della pallottola ma non sembra esserci alcun foro d’uscita. Due giri di tabellina del tre e la risposta è abbastanza facile: il proiettile è rimasto conficcato nel cranio di Orlando. I soccorritori lo caricano subito sull’ambulanza e partono a sirene spiegate verso il pronto soccorso. Qui si torna all’inizio della storia: il giovane Antigua è cosciente e sa che in quel momento sta lottando per la vita. La sua reazione istintiva è quella di appigliarsi ai sensi, perché finchè può usarli, finchè può vedere, vuol dire che ancora non è morto. “Don’t close your eyes”. Orlando concentra tutte le sue forze su quelle due cose, rimanere vivo e non chiudere gli occhi. Non sa che si può morire anche con gli occhi aperti, ma la sua forza di volontà, la sua tenacia nel rimanere attaccato alla vita lo aiuta. Orlando non chiude gli occhi. E sopravvive.

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Pochi secondi dopo aver risposto al telefono, la madre Damaris sviene. La chiamata al bar di Manhattan dove la signora Antigua lavora dall’alba fino alla sera è stata fatta da Oliver, uno dei fratelli minori di Orlando. E’ stato proprio il ragazzino 13enne, a casa da solo con l’ultimogenito Omar, a raccogliere la telefonata dei poliziotti del NYPD fatta a casa Antigua. In quel quartiere ogni volta che suona il telefono monta un piccolo soffio di apprensione alla bocca dello stomaco, perché sai sempre che può essere successo qualcosa. “Hanno sparato a tuo fratello” gli dice una voce fredda dall’altra parte della cornetta. Oliver comincia a piangere prima ancora di aver riattaccato: ‘sparato’, in un posto come il Bronx, praticamente sempre significa ‘morto’. Però non nel caso di una persona baciata da una fiamma di vita speciale come Antigua. Nel giro di un’ora due componenti della famiglia sono in ospedale: Orlando con un proiettile in testa, la señora Damaris per essere sedata. Una volta saputo che il figlio sopravviverà, la madre si calma, però nelle ore successive all’incidente emerge un’altra problematica: il proiettile è entrato ad un centimetro dall’occhio sinistro di Antigua ma non ha perforato il cranio, rimanendo invece incastrato tra la scatola cranica e la tempia. Una casualità quasi impossibile che probabilmente ha salvato la vita di Orlando, ma di contro la complicazione è rappresentata dal fatto che una possibile operazione per rimuovere la pallottola metterebbe a serio rischio le capacità visive e uditive del giovane Antigua. I medici decidono che è meno rischioso e più conveniente lasciare il proiettile lì dov’è, piuttosto che toglierlo. Orlando, stando a quanto gli viene detto, dovrà convivere per sempre con quel corpo estraneo conficcato nel lato del cranio. Ma a lui in realtà importa poco, il suo unico pensiero -al di fuori della famiglia- è la pallacanestro. “Penso di essere stato fortunato a dover rimanere in ospedale solo per una settimana. Almeno non sono stato fuori per troppo tempo, potevo ricominciare a giocare a basket”. Ah già, il basket. Orlando Antigua è un gran giocatore. Nel campetto del suo quartiere è uno dei più forti e anche alla St.Raymond’s High School, nonostante la giovane età, inizia già ad imporsi. Il basket è la sua ragione di vita e la sua unica valvola di sfogo in un’esistenza difficile. Fin da quando aveva 10 anni funge praticamente da padre per i suoi fratelli minori. Se questi hanno fame esce a procurare qualcosa da fargli mettere sotto i denti e quando vanno male a scuola gli impedisce di uscire fin quando non hanno finito di studiare. Orlando sa che per riuscire a venire fuori da quel quartiere bisogna fare due cose: lavorare duro e stare fuori dai guai. Nella vita come nel basket. “Andavo nei playground di New York, come Devoe Park, e vedevo 100 o 200 ragazzi che mi sembravano molto più forti di me. Ma non avevano disciplina sufficiente per stare lontano dai problemi. Shorty era più bravo di me ma è finito a spacciare droga. Rich era forte, ma è stato arrestato per lo stesso motivo. E sono solamente i primi due che mi vengono in mente. La realtà è che bisogna solo studiare ed evitare problemi. E non avere paura di farcela. Tutti possono riuscire ad avere successo, bisogna solo non avere paura”. Però, per quanto Orlando possa provare ad evitare i problemi, questi ultimi spesso e volentieri si presentano da lui senza bussare alla porta. Dopo il proiettile in testa, che lo porta ad essere scherzosamente soprannominato “Bullethead” dai compagni di squadra, le difficoltà non sono ancora finite. La pallottola conficcata nel cranio gli provoca violenti mal di testa, specialmente quando gioca, anche se questo non lo frena minimamente. Ma c’è di più, perchè all’inizio del suo anno da senior all’high school, la vita si complica ulteriormente: la famiglia Antigua da un giorno all’altro viene sfrattata dal piccolo appartamento in cui abita. Orlando, i due fratelli minori e la madre Damaris si ritrovano a vivere per strada da homeless. Nel corso dei mesi cambiano tetto di frequente, dormendo dove capita e trovando appoggio il più delle volte in un ex convento sconsacrato, grazie all’aiuto di Gary De Cesare, il suo coach al liceo. “Era pura sopravvivenza. Sono stati mesi molto difficili, ma quando ti si pongono davanti degli ostacoli l’unica cosa che puoi fare è provare a superarli. E’ tutto ciò che è in tuo potere”. Di giorno Orlando va a scuola, dove è anche il presidente e rappresentante del corpo studentesco della St.Raymond’s, oltre che il miglior giocatore della squadra di basket; al pomeriggio invece tiene insieme la famiglia e bada ai due fratelli, mentre la madre cerca di racimolare qualche soldo per comprare qualcosa da mangiare. Nonostante le difficoltà fuori dal campo e a dispetto dei dolori alla testa, Orlando si diploma con ottimi risultati, conduce St.Raymond’s al suo primo storico titolo nella Catholic League dei licei di New York e diventa anche un McDonald’s All-American. La sua storia inizia a circolare per la città e anche parecchi college si accorgono delle sue capacità da giocatore e delle sue indubbie doti caratteriali. Gli arrivano parecchie offerte di borse di studio e alla fine Antigua sceglie di accettare quella di Pittsburgh. Dopo tanti anni difficili vissuti nel Bronx, Orlando alla fine ce l’ha fatta e abbandona il suo quartiere per andare a mettersi alla prova nel basket NCAA.

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Come è logico attendersi, Antigua nei suoi quattro anni coi Panthers diventa uno dei leader carismatici della squadra e si toglie tante soddisfazioni. Prima dell’anno da junior viene nominato anche capitano di Pittsburgh, ruolo che normalmente viene riservato ad un senior e che invece lui può mantenere per due stagioni. Nonostante i dolori alla testa che lo torturano durante le partite, chiude come sesto miglior tiratore da tre punti nella storia dell’università con il 38.6% totale in carriera, giocando 116 match con la canotta dei Panthers di cui 78 cominciati in quintetto. Una storia di passione così forte che, dopo la nomina a capitano della squadra, Antigua si tatua addirittura sul braccio una pantera, il simbolo di Pittsburgh University. Nel 1994 guadagna anche il premio come Most Courageous Athlete da parte della United States Basketball Writers’ Association, proprio grazie alla sua storia. Una storia che però cambia ancora durante l’estate del 1994, prima del suo ultimo anno al college. Come l’anno precedente, Antigua sta passando l’estate giocando a basket a Porto Rico. Un giorno inizia ad avvertire un dolore intenso all’orecchio sinistro, controlla cosa stia accadendo e si accorge che dal canale auricolare esce del sangue e un po’ di pus. Un’infezione dovuta alle frequenti nuotate nell’oceano, pensa lui, che si fa prescrivere qualche antibiotico da un dottore. Il dolore però nei giorni successivi aumenta e diventa insopportabile, impedendogli perfino di prendere sonno. Chiama il suo medico di squadra a Pittsburgh University che gli consiglia una visita da un otorinolaringoiatra. Dopo gli esami di screening, lo specialista chiede ad Orlando se abbia mai avuto traumi alla testa. “Mi hanno sparato in testa sei anni fa” risponde con nonchalance Antigua. “Me ne sono accorto, qua dentro c’è un proiettile” replica con altrettanta calma il medico indicando l’orecchio. Meno di un’ora dopo, il dottore sta mostrando a Orlando la pallottola che l’ha accompagnato per sei anni di vita, rigirandola tra le pinzette con le quali l’ha estratta dal condotto uditivo. Con il tempo il proiettile è scivolato giù dalla posizione originaria fino ad entrare nel canale auricolare. Altro che infezioni e nuotate nell’oceano. Da quel giorno Antigua non soffrirà più minimamente di mal di testa. Liberatosi dal fastidio del proiettile, Orlando gioca un’ottima stagione da senior, con la quale chiude la propria carriera in NCAA, e si ritrova a dover scegliere cosa fare dopo. Antigua valuta diverse offerte per i preseason camp della NBA e anche qualche contratto dall’Europa, ma un giorno gli arriva una chiamata particolare. Dall’altra parte del telefono ci sono gli Harlem Globetrotters, che lo vogliono con loro. Tutte le altre offerte finiscono nel cestino in due secondi. Antigua diventa così il primo giocatore ispanico in assoluto nella storia degli Harlem e il primo non afroamericano da 52 anni a quella parte, da quando Bob Karstens nel 1943 fu l’ultimo bianco ad indossare la divisa dei Globetrotters. Grazie alla sua rapidità e alle sue movenze vorticose si guadagna il nickname di “The Hurricane”, l’Uragano, proprio come il pugile Rubin Carter che ispirò una famosissima e stupenda canzone di Bob Dylan.

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Con la lunga parentesi assieme agli Harlem la vita di Antigua diventa ancora più pregna di esperienze e di storie. Nei sette anni che passa con la squadra di basket più famosa del pianeta, Orlando visita 49 paesi diversi in giro per il mondo, conoscendo personaggi del calibro di Michael Jordan, Magic Johnson, Muhammad Ali e Nelson Mandela. E proprio l’incontro con Madiba è forse il ricordo più forte per Antigua: “probabilmente il viaggio in Sudafrica è stato il mio preferito tra tutti. E’ stata un’esperienza incredibile e poter giocare davanti a Mandela nel giorno del suo 78esimo compleanno, e salutarlo, conoscerlo, è qualcosa che mi porterò dentro per sempre”. Però la vita da Globetrotter è piena di soddisfazioni ma logorante. Orlando era entrato negli Harlem per provare un’esperienza nuova, per girare il mondo da ambasciatore del basket, per divertirsi dopo una vita che di svaghi ne aveva concessi ben pochi, ma nel momento in cui rialza la testa realizza che in realtà quella che doveva essere una parentesi è diventato il suo unico pensiero per 7 anni. “Un giorno mi sono accorto che non potevo giocare per sempre. Essere con i Globetrotters è stato speciale, così come incontrare così tanta gente. Poi tutti vogliono lasciare un’eredità, un lascito di sé stessi, e il fatto di essere stato il primo ispanico degli Harlem è una cosa che rimarrà là per sempre, non potrà mai cambiare. Però viaggiare per anni lontano dalla famiglia è dura, e dovevo iniziare a pensare alla fase successiva della mia carriera” spiega Orlando. Così The Hurricane si ritira dal basket giocato, abbandonando anche la nazionale dominicana con cui nel 1998 assieme a Felipe Lopez aveva sfiorato la prima, storica, qualificazione ai Mondiali per il paese caraibico, e passa alla panchina. “A dire il vero non ne ero neanche sicuro. Però mio fratello faceva l’allenatore, anch’io ero sempre stato affascinato dalla strategia e dalla preparazione delle partite, quindi ci ho provato”. Antigua di giorno lavora nella compagnia di Pat Cavanaugh, ex compagno di squadra nei Panthers, e al pomeriggio fa il vice allenatore a Mount Lebanon, nei sobborghi di Pittsburgh. Ma tutto cambia di nuovo un anno dopo, nel 2003, quando si presenta l’occasione di entrare nello staff di coach Dixon sulla panchina di Pittsburgh. Lì resta per cinque stagioni e diventa amatissimo da tutti i giocatori, soprattutto per la storia coinvolgente che ha alle spalle e per le sue spiccate capacità di relazionarsi coi ragazzi. Già padre Raymond Meagher, ai tempi del liceo, se ne era accorto: “Ha una capacità incredibile di entrare dentro le persone con le sue parole, di convincerle, di farsi ascoltare e credere. C’è una sensibilità, un qualcosa in lui di diverso da qualsiasi altra persona”. Poi un giorno a Pittsburgh arriva la chiamata di coach John Calipari, con il quale nasce una collaborazione basata su una grande empatia. L’allora allenatore di Memphis, stregato dalle sue conoscenze cestistiche ma soprattutto dalle sue abilità relazionali, porta con sé Hurricane ai Tigers e lo responsabilizza subito, rendendolo non solo assistente allenatore ma anche responsabile dello scouting. Nell’unica stagione passata a Memphis, i due arrivano fino alla finale per il titolo NCAA, persa all’overtime contro Kansas (do you remember Mario Chalmers?) e poi si spostano a Kentucky. Per dare un’idea della capacità di reclutamento di Antigua e della sua attrazione magnetica sui giovani giocatori, vi basti sapere che DeMarcus Cousins, che già aveva firmato la lettera di intenti per andare a giocare a Memphis, non appena sa del cambio di panchina di Calipari e Antigua, straccia tutto quanto e si dirige invece verso Lexington. La capacità di Orlando di parlare ai ragazzi è quasi ipnotica. Ovviamente nei suo discorsi ai giovani prospetti torna anche su quanto gli è successo da giovane: “Gliene parlo perché chiunque, nel corso della vita, verrà chiamato ad affrontare degli ostacoli da superare, che siano un proiettile in testa o anche solo una caviglia slogata. Ma la motivazione e la concentrazione che ci metti, vanno a costituire le tue possibilità di superarli. Questo è il vero potere e l’essenza della vita umana”. Nel giro di 5 anni, oltre a Cousins, Orlando porta in maglia Wildcats anche prospetti come John Wall, Patrick Patterson, Anthony Davis, Brandon Knight, Michael Kidd-Gilchrist, Nerlens Noel, Julius Randle e molti altri ancora. Nel 2012 Kentucky vincerà il titolo NCAA, con Antigua che viene nominato contestualmente il miglior assistente allenatore under-40 e il miglior reclutatore di tutto il College Basketball. A dimostrazione delle sue abilità persuasive, nel 2011 convince lo stesso Calipari a diventare l’allenatore della Repubblica Dominicana, una roba fuori dal mondo in una situazione normale, ma non quando a parlarti è un uomo magnetico che ha avuto un proiettile in testa per sei anni. Calipari arriverà ad una sola sconfitta dal portare i caraibici alle Olimpiadi, e poi lascia il testimone di coach della nazionale ad Antigua. Ma il suo meglio Orlando lo dà nella primavera del 2013, quando riesce a convincere addirittura 5 dei 10 migliori prospetti della nazione a venire alla corte di Calipari. Ricorderete la conseguente corsa di Kentucky e della sua banda di freshmen fermata solamente in finale dalla sorprendente Connecticut di Kevin Ollie lo scorso aprile. Poi l’offerta di South Florida, la commovente separazione con il suo mentore, e adesso l’avvicinarsi della nuova avventura a Tampa. Nel mentre Hurricane Antigua ha portato la Repubblica Dominicana a qualificarsi per i Mondiali del 2014, la seconda volta in assoluto dopo l’unica esperienza del 1978, e per la prima volta nella storia ha condotto i Quisqueyanos oltre la fase a gironi, approdando alla fase diretta dove sono stati poi eliminati agli ottavi dalla Slovenia. “Mi ha fatto fare una figuraccia, è andato molto più lontano di me”, è stato lo scherzoso complimento di Calipari all’indirizzo del suo ex assistente.

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Sabato, quando le luci del Sun Dome di Tampa si riaccenderanno, Orlando Antigua riaprirà gli occhi. Tutta questa storia gli sarà ripassata nella mente assieme a mille altri dettagli che abbiamo dovuto tralasciare per ragioni di spazio o che neanche conosciamo. Il suo lavoro sarà sicuramente difficile, prendendo in mano nel suo primo impiego da head coach una squadra che nella passata stagione ha chiuso con 12 vittorie e 20 sconfitte, di cui le ultime 9 consecutive. Però nulla potrà essere più difficile di quanto ha già passato nel corso della sua vita, anche se sarebbe più corretto dire ‘delle sue vite’. Da quel momento gli occhi resteranno aperti, per non pensare più al passato ma per guardare al futuro. “La cosa più grande che mi sia mai successa nella vita è proprio questa, vivere”, chiosa Orlando. “It’s that simple. Living”.

 

Come avrebbe cantato Bob Dylan: “Yes, that’s the story of the Hurricane”. Questa è la incredibile e toccante storia di The Hurricane Antigua. Un uomo che poteva essere morto, ma che proprio per questo motivo ha potuto apprezzare due volte il dono più grande di tutti. “It’s that simple. Living”.

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Mario Castelli

Classe (poca) 1988, saronnese, ex giocatore. Ma molto più ex che giocatore. Non so scrivere presentazioni, anzi non so scrivere e stop. Mi domando da tempo perchè i video dei Kings del 2002 e degli Spurs del 2014 non si trovino su Youporn, ma non riesco a darmi risposte. Vivo per guardare partite, guardo partite per poter mangiare e mangio per vivere. Ma anche vivo per mangiare, mangio mentre guardo partite e guardo partite per guadagnarmi da vivere. Maledetti circoli viziosi.

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