illustrazione grafica di Paolo Mainini
articolo di Marco Munno e Roberto Gennari

 

 

 

Può una sola partita cambiare le prospettive di un’intera carriera? Si che può, soprattutto se si gioca davanti a quasi 68.000 spettatori paganti e con una nazione intera sintonizzata davanti ai teleschermi.
Ecco, questo è quello che è capitato ad uno dei nomi più attesi del prossimo corso dell’Italbasket: Donte DiVincenzo da Newark, Delaware, talento rubato al calcio e salito agli onori della cronaca sportiva degli States il 2 di aprile del 2018, giorno della finale del torneo NCAA.

Ma da dove parte DiVincenzo?

I primi passi cestistici li fece praticamente sotto casa: alla Delaware’s Salesianum High School, in quel di Wilmington (25 km da Newark), dove chiuse la sua esperienza con 22.9 punti a gara quale miglior giocatore statale dell’annata 2014/2015. Portò i suoi al secondo titolo dello stato consecutivo: se in quello della stagione precedente una grande mano venne data da Brian O’Neill (ora offensive tackle nei Minnesota Vikings in NFL), nell’anno da senior fu protagonista assoluto. Il suo numero 5 non è stato più indossato da nessuno in squadra, in onore del ragazzo che per i giovani del Delaware assunse un’aura da rock star.

foto gannett-cdn.com

A proposito, venne coniato il primo dei soprannomi della sua pittoresca collezione, Michael Jordan del Delaware, in uno show televisivo da coach Jay Wright, che lo aveva accolto fra i suoi Wildcats. Oh, fate conto che il Delaware è grande come la Liguria e ha più o meno gli abitanti dell’area metropolitana di Palermo, per capirsi, ma tant’è. Presentatosi al basket universitario come prospetto da 4 stelle, secondo i rankings del 2015 del sito specializzato 247Sports, Donte preferì infatti Villanova a Syracuse nel gennaio del 2014.

Resterà lì per 3 stagioni, vincendo due campionati nazionali NCAA nel 2016 e nel 2018.

Non sarà un protagonista assoluto: delle 85 partite giocate, verrà schierato da titolare solamente in 12. Nel primo anno le gare giocate complessivamente saranno solo 9, fermato da un infortunio al piede sinistro e diventando redshirt freshman, con la possibilità cioè di poter rimanere in NCAA un anno in più. Fornì comunque il suo mattoncino alla causa di Villanova: in preparazione alle Final Four del 2016 in programma all’NRG Stadium di Houston, coach Wright ebbe bisogno di qualcuno che in allenamento potesse simulare Buddy Hield, pericolo numero 1 dei prossimi avversari di Oklahoma, che veniva da una stagione da senior da 25 punti a partita col 50% dal campo e il 45% da tre. Donte fu più che efficiente, preparando a dovere i compagni che faticarono più nel contenere lui nello scrimmageche Hield in partita: Buddy chiuse la sua carriera collegiale con soli 9 punti dopo i 37 rifilati a Oregon nella partita precedente. Villanova vinse di 44 punti contro i Sooners, il più ampio margine di sempre in una partita delle Final Four.

Nell’anno successivo da redshirt freshman, di match ne giocò 25, con 8.8 punti di media partendo praticamente sempre dal pino (solo una partita da titolare), ma con un ruolo che era già nei fatti solido: quinto della squadra per minuti giocati, per punti segnati, tiri presi e rimbalzi a partita. E da riserva si guadagnò il nomignolo forse più conosciuto: quello di Big Ragù.

Era il 29 gennaio 2017, il match contro Virginia era fermo sul 59 pari. Nell’ultima azione dei tempi regolamentari, fu Josh Hart a prendersi la responsabilità di chiudere il match a favore dei Wildcats. Optò per una penetrazione centrale di mano sinistra, che trovò però di fronte il muro della difesa dei Cavaliers; il tentativo di rallentare l’esecuzione del tiro non sortì l’effetto sperato.
Ma sul pallone sputato dal primo ferro fu DiVincenzo ad arrivare per primo, effettuando il suo unico tentativo di conclusione dal campo nel match.

Il tap-in risultò vincente.

Lo storico commentatore Gus Johnson unì in una singola espressione il colore dei capelli e le origini italiane di ‘Tay.

Cominciò così a sviluppare una certa decisività nei momenti caldi, come confermato all’esordio nel torneo NCAA di quell’annata, coi 21 segnati contro Mount St. Mary’s o i 25 messi a referto contro St. John’s nel primo turno del torneo della Big East, suo career high fino a quel momento.

La confermò appieno nella stagione successiva, quella che risulterà essere la sua ultima in NCAA. Non abbandonando il ruolo in uscita dalla panchina (solo 10 su 40 le partenze in quintetto), migliorò le sue cifre arrivando a 13.4 punti a gara, con il 40.1% su 5.3 tentativi da 3 punti. L’apporto dato alla causa dei Wildcats da parte di Donte, in questo caso, risultò ancor più importante rispetto a quello della stagione precedente. In un team che oltre a tagliare la retina per la seconda volta in tre anni al termine del torneo NCAA manderà ben 5 ragazzi in NBA (oltre a lui, anche Eric Paschall, MIkal Bridges, Omari Spellman e Jalen Brunson), Big Ragù venne impiegato per oltre 29 minuti a partita, restando sul parquet nei momenti che contavano nelle partite. In quell’edizione dei Wildcats, Jay Wright adottò un metodo di gestione delle rotazioni piuttosto comune in NCAA, con sei giocatori sostanzialmente titolari, tutti in campo da 27 a 32 minuti a partita, più un altro paio di ragazzi per far rifiatare i compagni. In questo contesto DiVincenzo seppe mettere in mostra quelle che sono ancora oggi le sue caratteristiche migliori, cercando sempre il modo di rendersi utile alla squadra, soprattutto quando il tiro entrava. Negli highlights del suo ultimo anno a ‘Nova c’è la partita contro Seton Hall, in cui pur partendo dalla panchina giocò 39 minuti mettendo a segno 18 punti con 10 rimbalzi e 4 recuperi; c’è la gara contro Butler, in cui complice l’assenza di Paschall partì in quintetto e trovò il modo di portare il suo career high a quota 30; c’è quella contro Xavier, una settimana dopo il trentello, in cui sfiorò la tripla doppia chiudendo con 21 punti (8/12 dal campo), 9 rimbalzi e altrettanti assist.

Foto espn

Certo, non sono tutte rose e fiori: nella partita in cui si riaccomodò in panchina alla palla a due, dopo 9 partenze consecutive in quintetto, Villanova riuscì ad avere ragione di Seton Hall solo al supplementare con Donte a raggranellare solo 8 punti, con 1-9 dal campo e 5 palle perse in 28 minuti giocati. Il suo momento di appannamento, peraltro, coincise con l’avvio della fase più calda della stagione collegiale. Il rendimento di Donte dopo quella partita visse di alti e bassi, fino alla semifinale del torneo NCAA contro i Kansas Jayhawks: nei 28 minuti sul parquet dell’Alamodome di San Antonio, Texas, DiVincenzo realizzò 15 punti con 4/6 dal campo, 4/4 dalla lunetta, 8 rimbalzi, 3 assist e zero palle perse. Un’iniezione di fiducia che risultò determinante per il life-changing gamedi due giorni dopo, la finale del torneo NCAA che vide i Wildcats opposti ai Michigan Wolverines, arrivati alla partita dell’anno dopo aver passato indenni una parte di tabellone con Xavier e North Carolina e aver eliminato la Cinderella Loyola-Chicago nelle semifinali. Donte non partì in quintetto neanche nella finale, ma alla fine sarà il giocatore che resterà in campo più a lungo di tutti. Fece il suo ingresso in campo dopo 2’22” dall’inizio della partita, per restarci fino a fine primo tempo. Michigan era avanti nel punteggio, toccando anche il +7 sul 21-14, ma proprio una tripla di Big Ragù regalò il primo vantaggio ai suoi, che non si voltarono più indietro e andarono a prendersi il titolo di campioni universitari, di nuovo in Texas, come due anni prima. Alla fine della partita, il box score di Donte DiVincenzo diceva 31 punti, 10-15 dal campo, più 5 rimbalzi, 3 assist e 2 stoppate. Per lui c’erano già cucite addosso tre lettere, che a livello NCAA vogliono dire tutto, anche se non sempre sono foriere di grande carriera tra i pro: M.O.P., Most Outstanding Player, col suo nuovo career high collegiale, nonché massimo di punti segnati da un giocatore in uscita dalla panchina in una finale NCAA. Lasciò Villanova con un record, nei suoi tre anni di permanenza al campus, di 103 vinte e 13 perse.

Fra i vari alti e bassi il suo rimaneva un curriculum non straordinario, ma i Bucks furono convinti nel selezionarlo al draft del 2018 con la 17esima scelta assoluta.

In un team che stava definendo la sua dimensione Giannis-centrica era difficile trovare spazio da esordiente. Così come a Villanova, poi, un infortunio si mise di mezzo nella prima annata: solo 27 partite giocate, con un impatto molto limitato di 15 minuti a gara, con 4.9 punti di media e pochissime fiammate in un desolante 26.5% al tiro da 3 punti.

Nella offseason successiva, sull’altare delle riconferme del nucleo che bene aveva fatto, i Bucks hanno sacrificato Malcom Brogdon. Questo ha significato maggior spazio nel backcourt da poter conquistare per gli esterni di Milwaukee. Donte ha intravisto un’occasione e si è ritagliato un solido ruolo nella rotazione di coach Budenholzer, nel ruolo tanto caro di prima alternativa al quintetto titolare.

Per risultare utile in un roster che presenta il miglior giocatore della Lega in carica, un secondo All Star come Middleton e una serie di veterani delle battaglie sui parquet NBA, Donte si è dovuto concentrare sulle piccole cose: innanzitutto difesa e voglia di fare.

Andando a scorrere le statistiche di squadra relative agli aspetti difensivi, Donte è tra i primatisti in diverse voci: primo per palloni deviati sui passaggi, secondo per palloni vaganti recuperati sia in attacco che in difesa. Non certo uno che ha paura di sporcarsi le mani per la causa, anche contro avversari più fisicati.

Per quanto riguarda i palloni rubati, con 1.4 a nottata è ottavo nella Lega, il migliore sotto i 24 minuti in campo a partita. Parametrato su 36 minuti di utilizzo, è il 4° dell’intera NBA. Rispetto alla media dei giocatori della lega, con lui in campo i Bucks subiscono 2.7 punti in meno per 100 possessi: fanno meglio di lui in stagione solamente in tre, fra cui Giannis Antetokounmpo e Anthony Davis, che per essere incisivi possono contare su tutt’altra struttura fisica.

Combinando istinto per il gioco, reattività e atletismo è una minaccia costante tanto in marcatura sull’uomo con il pallone che in rotazione dal lato debole.

Dal punto di vista offensivo, rispetto alla scorsa stagione ha messo su ben altri numeri: in media, quasi una doppia cifra di punti con 9.4, con il 34.6% da 3 e un 46.2% complessivo dal campo. Aggiungendo i 4.9 rimbalzi e i 2.3 assist, si tratta di un ottimo incremento a fronte dei soli 8 minuti scarsi di più in campo.

Le medie al tiro restano però frutto di un andamento altalenante, così come nel periodo universitario: è passato dal 35.9% di novembre al 27.3% di dicembre, con un successivo innalzamento al 39.1% di gennaio, una flessione al 32.9% a febbraio e una ripresa al 37.5% nelle prime partite di marzo. Questo appare forse l’aspetto su cui lavorare maggiormente per un ragazzo dagli ampi margini di miglioramento, così da diventare sempre più efficiente da specialista 3&D.

I suoi progressi non possono che fare estremamente piacere alla Nazionale, che aveva già da tempo piazzato gli occhi su di lui.

Dopo l’eliminazione dei ragazzi di Sacchetti dal Mondiale successiva alla sconfitta contro la Spagna, un commento fatto sui social dallo stesso Donte non fu casuale: 

La Federazione è infatti da tempo al lavoro per fargli ottenere il passaporto italiano, così da poterlo coinvolgere nel prossimo ciclo azzurro.

Se disponibile già per il torneo preolimpico di Belgrado (se mai si faranno…), Donte andrebbe a contendersi l’unico posto consentito nel roster per un passaportato con Jeff Brooks (che fu prescelto per la Coppa del Mondo) e Christian Burns.

Il tutto in attesa di conoscere lo status che assumerà il prospetto classe 2002 Paolo Banchero, ala che pochi giorni fa ha annunciato di voler vestire la maglia azzurra a dispetto di quella di Team USA: italiano di formazione, come Nico Mannion, o naturalizzato come Donte.

Insomma, un panorama di opzioni più ricco rispetto al Ryan Arcidiacono spesso invocato qualche tempo fa, riguardo al quale non ci sono mai stati sviluppi sostanziali.

Dal punto di vista tecnico, l’idea relativa a DiVincenzo può essere quella di un utilizzo simile a quello nei Bucks: appaiato ad un playmaker di ruolo (sia esso Spissu, De Nicolao, Mannion o Spagnolo) con compiti da trattatore di palla secondario. Un pò come accaduto più volte a Belinelli: ne erediterebbe il posto da guardia, meno realizzatore e più difensore.

O magari, perché no, in uscita dalla panchina, pronto ad accendersi nei momenti che contano di più, come in quella magica notte dell’AlamoDome di due anni fa.

Foto di Jesse D. Garrabrant/Getty Images)
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