illustrazione grafica di Paolo Mainini

 

 

Prologo. Bologna, circa 1996

“Mi ricordo che in quel periodo era stato messo uno stop al reclutamento di giocatori che venivano da fuori, anche se non saprei dirti il motivo, adesso, fatto sta che potevamo fare la squadra per le giovanili solo prendendo ragazzi da Bologna e dintorni. Quell’anno lì però ci andò particolarmente bene, perché avevamo Luca Vitali, Alex Ranuzzi e Marco Belinelli. Marco l’ho allenato quattro anni: l’ultimo di minibasket, poi propaganda, Trofeo Bam Ragazzi e Allievi Under 14. A conti fatti, sono quello che l’ha avuto in Virtus per più tempo, e posso dirti questo: da subito, eravamo tutti stupiti dalla facilità con cui faceva canestro, il suo talento offensivo era lampante già a quell’età”. A parlare così è Massimiliano Milli, attuale capoallenatore della SBA Arezzo, che di Belinelli è stato il primo scopritore insieme a Marco Sanguettoli. Come molti ragazzi di quell’età, però, il suo pensiero principale era fare canestro, soprattutto nei primi periodi. “La linea del settore giovanile della Virtus, decisa insieme a Giordano Consolini, era che i nostri migliori attaccanti dovessero marcare gli avversari più forti in difesa, per far capire loro che per diventare giocatori di livello bisogna impegnarsi sui due lati del campo. Con Marco serviva lo stesso atteggiamento che serve con tanti altri: se ti fai battere due volte di fila sul primo passo, vieni a sedere. Dopo un primo periodo di adattamento, però, capì l’importanza di quello che gli veniva chiesto di fare. È sempre stato un ragazzo molto motivato, che poi è quello che gli ha permesso di restare così a lungo in NBA. Per un certo periodo di tempo, il nostro allenamento finiva subito prima dell’inizio di quello della prima squadra, e all’epoca la prima squadra della V significava che mentre finivamo la partitella, a vedere i ragazzini a bordo campo c’era gente tipo Danilovic, Ginobili, Sconochini e Ettore Messina. Marco, che normalmente era un ragazzo abbastanza taciturno, cercava di mettersi in mostra facendo qualche canestro difficile. E quando sentiva “i grandi” che lo applaudivano, si vedeva che gongolava”.

Riuscire a ricostruire come è cominciata, è effettivamente un casino. Se devo dirvi quando è cominciata per me, vi dico che è stato in Catalogna, nel 1997, campionato europeo, l’Italbasket arriva imbattuta alla finale per l’oro e viene piegata solo dalla Jugoslavia di Bodiroga, Danilovic e Djordjevic. In quel momento lì, sarà che avevo diciott’anni ed ero un praticante della pallacanestro (giocatore è oggettivamente troppo), sarà che a diciott’anni si è sognatori ed idealisti e ogni tanto ci si indovina, mi sono convinto che avrei presto visto un italiano chiamato al draft NBA. Non le esperienze di Rusconi ed Esposito, quelle c’erano già state ed erano state più amare che dolci, ma giocatori del nostro Bel Paese chiamati attraverso il meccanismo con cui arrivavano nella Lega le superstar. I risultati degli anni successivi avevano notevolmente corroborato questo pensiero, dall’oro continentale di Parigi 1999, al bronzo inaspettato in Svezia a Euro2003, all’argento olimpico ateniese del 2004. Un filotto di risultati che ci faceva capire come davvero il basket italiano meritasse considerazione a livello internazionale e come davvero, questa chiamata, fosse questione di tempo. Ricordo che coi miei amici, parlandone, c’erano diversi “sospettati”: i primi due erano Stefano Mancinelli e Angelo Gigli, entrambi undrafted un po’ a sorpresa nel 2005. Poi ci fu Bargnani, e la chiamata arrivò decisamente col botto. Ma già da un tot di tempo prima, un amico che è poi stato mio testimone di nozze e all’epoca faceva l’università a Bologna, mi tesseva le lodi di quel talento da San Giovanni in Persiceto che al momento della serrata per Covid-19 era di gran lunga il giocatore azzurro con il maggior numero di gare giocate in NBA nella storia con 855. With the 18th pick of the 2007 NBA Draft, the Golden State Warriors select Marco Belinelli from Bologna, Italy: il 28 giugno, al Madison Square Garden, dalla voce di David Stern arriva l’annuncio tanto atteso.

Arrivato in NBA con un curriculum già da stellina, capace di non mollare dopo un inizio durissimo, di ricostruirsi letteralmente una carriera da zero, di restare aggrappato al suo sogno fino a quando quel nodo in gola che è difficile mandare giù ha finalmente potuto sciogliersi e lasciare spazio alle emozioni. Ma per arrivarci, la strada è stata lunga, tortuosa, con begli scorci luminosi e momenti bui. Bargnani glielo aveva preannunciato in un famoso spot Nike, Marco non ha mai mollato. Ci sono alcune istantanee, in questa strada lunga ormai 18 anni, che restano nel cuore e nella mente.

 

4 aprile 2002, Bologna, Unipol Arena

Quattordicesima giornata del girone di ritorno, stagione regolare, la Virtus Bologna è ancora in lotta per il primo posto. Di fronte c’è una malcapitata Snaidero Udine, a sua volta in lotta per un posto nei playoff. Ginobili demolisce letteralmente gli avversari, coadiuvato da David Andersen e Antoine Rigaudeau, e quando mancano cinque minuti alla sirena che sancirà il 112-73 per le V nere, coach Messina mette in campo questo ragazzino di sedici anni. Prima tripla tentata, primo canestro. Il ghiaccio è stato rotto.

 

Interludio. 4 agosto 2003, Roma, sede FIP

La Virtus Bologna viene ufficialmente radiata dai campionati professionistici di basket. Marco Belinelli, diciassettenne svincolato, si accasa all’altra sponda del basket bolognese, la Fortitudo Bologna. Ci trascorrerà quattro stagioni, per 1593 punti totali, ritagliandosi di anno in anno un ruolo sempre maggiore.

 

5 ottobre 2003, Teramo, PalaScapriano

Nella sua prima partita in maglia Fortitudo dopo essersi fatto la trafila delle giovanili in bianconero, Marco Belinelli è schierato nel quintetto iniziale da coach Repeša, insieme a Mottola, Delfino, Vujanic e Van Der Spiegel. Segna solo 4 punti in 14 minuti, segnando l’unico tiro dal campo e registrando un 2-4 dalla lunetta probabilmente – e comprensibilmente – dettato dall’emozione. Mancano ancora cinque mesi e mezzo al suo diciottesimo compleanno. Partirà in quintetto altre 13 volte quell’anno, di cui 11 prima di poter fare domanda per il foglio rosa.

 

1 maggio 2004, Tel Aviv, Nokia Arena

I diciotto anni compiuti da poco più di un mese. Marco Belinelli gioca la finale di Eurolega contro il Maccabi padrone di casa. Entra nella storia dalla parte sbagliata: la Fortitudo, infatti, perde la gara decisiva per il titolo con un secco 118-74 che è ancora oggi il record della manifestazione. Quella partita la steccano un po’ tutti, soprattutto in difesa dove gli israeliani tirano con percentuali mostruose: Marco segna solo 3 punti in 14 minuti con 1-5 dal campo. Poco più di un mese dopo, la Effe perderà anche la finale scudetto con un secco 3-0. Ovviamente nessuno si sognerà di dare la colpa ad un ragazzino appena maggiorenne. Che dimostrerà che niente lo lascia mai K.O.

 

16 giugno 2005, Milano, Mediolanum Forum

Gara 4 di finale scudetto, Fortitudo avanti 2-1 nella serie ma Milano a +2, 65-63 con 30 secondi sul cronometro e Douglas in lunetta. Il numero 20 biancoblù fa 1-2, sull’azione successiva Djordjevic gioca col cronometro e sul filo dei 24 secondi serve Calabria per la tripla in uscita che però non entra. Repesa non ha più timeout, sul parquet ci sono Douglas, Basile, Belinelli, Smodis e Lorbek. Basile è pressato, riceve e scarica al suo numero 20 che spara la tripla sulla sirena. In diretta, Lamonica dice che non è buona. Poi va all’instant replay: se il canestro è valido, sarà secondo scudetto per la Fortitudo, se invece non è buono si andrà a gara 5.

 

11 giugno 2006, Bologna, PalaDozza

Una delle serie playoff più belle degli ultimi anni giunge al suo atto finale. Da una parte la Fortitudo Bologna scudettata, che ha proprio nel ventenne da San Giovanni in Persiceto la sua punta di diamante: primo di squadra per punti segnati, minuti giocati, triple tentate e realizzate. Dall’altra la Carpisa Basket Napoli che ha in Lynn Greer l’MVP e miglior realizzatore del campionato. Belinelli viene da una gara 4 piuttosto disastrosa giocata in Campania, al termine della quale si è anche dovuto sorbire il balletto di Michel Morandais a metà campo. Marco è il suo avversario diretto, e nella partita che vale la finale scudetto il confronto tra i due dice 34-12 per il fortitudino e +20 per i bolognesi. Con dedica reiterata al francese.

 

23 agosto 2006, Sapporo, Sapporo Arena.

L’Italia partecipa ai mondiali del 2006 come wild card, è l’occasione per vedere esordire Marco Belinelli in una competizione ufficiale con la nazionale. E la miglior partita di Marco sarà nell’occasione più prestigiosa: l’Italia sfida Team USA, Marco mette in piedi uno show che va oltre il famoso 2+1 in contropiede che pure rappresenta uno dei momenti più iconici della sua carriera. Ne mette 25, in quella che – parole sue, pronunciate nel corso di una celebre intervista resa a Federico Buffa – è la partita che ha cambiato la sua vita. I taccuini degli scout NBA, ancora in attesa di vedere Andrea Bargnani che a quel mondiale rinunciò su richiesta dei Raptors, da quel giorno avevano tutti un nome in più, ed era quello del numero 4 in maglia azzurra.

 

10 settembre 2007, Madrid, Madrid Arena.

L’europeo del 2007 vede l’Italia presentarsi ai nastri di partenza con un cambio generazionale che sembra ormai nei fatti: c’è Bargnani, che viene da una stagione da rookie in NBA in crescendo, ci sono Gigli e Mancinelli, c’è il ventenne Gigi Datome a fare il dodicesimo, c’è Belinelli. Ci sono ancora alcuni dei senatori, come Basile, Marconato, Soragna e Bulleri, ma i due giocatori che stanno più in campo sono i due NBA. In panchina c’è per l’ultima volta Charlie Recalcati. Le cose, però, non vanno come tutti speravano. Gli azzurri perdono 3 delle prime 4 partite, e per qualificarsi agli ottavi avranno assolutamente bisogno di due vittorie contro Turchia e Germania. Manca 1 minuto e 14 secondi alla sirena, la Turchia è avanti 68-66, Belinelli si butta dentro e la pareggia così

(il commento in spagnolo da quel qualcosa in più)

 

10 dicembre 2008, Oakland, Oakland Arena

La stagione da rookie di Marco Belinelli, dopo una Summer League da sogno, è stata un lungo, lunghissimo incubo. 49 DNP, 15 partite da zero punti, due sole gare in doppia cifra nel finale di stagione, quando i Warriors erano ancora in lizza per un posto nei playoff e giocavano contro due squadre che veleggiavano verso le 60 sconfitte stagionali, il career high di 17 punti che arriva solo nell’ultima partita della stagione contro dei derelitti Seattle SuperSonics. Marco però non si scoraggia, e dopo un terribile novembre, prende in mano il suo destino nel dicembre della sua seconda stagione negli USA. Prima 13 punti contro i Thunder, poi 15 contro i Bucks, tra cui questi due qua.

Improvvisamente, la NBA si accorge che esiste Belinelli, e Marco si rende conto di poterci stare. Cinque giorni dopo, ritoccherà il suo career high portandolo a 19. Nella partita successiva, lo porterà a 21. In quella ancora dopo, a 27.

 

29 luglio 2009, Oakland, Warriors Front Office.

Traded. Per la prima volta nella sua carriera, questa parola verrà messa accanto al suo cognome. La prima tappa del road trip di Marco Belinelli negli USA finisce. I Warriors lo scambiano con Devean George e un po’ di soldi, destinazione Toronto Raptors, dove andrà a fare coppia con l’altro italiano, Andrea Bargnani. La seconda stagione in California non era neanche stata male, numeri alla mano, ma la fiducia dei Warriors non c’era. Così ci si sposta in Canada, per giocare di più, scegliendo una maglia che rappresentasse un messaggio per sé stesso: il numero zero come a voler ripetere a sé stesso “non hai ancora fatto nulla, questo è un nuovo inizio”. E l’inizio era stato buono: dieci punti contro i Cavs nella prima partita della stagione. Altre buone prestazioni tra novembre e dicembre. Poi un calo progressivo del minutaggio. A fine stagione, di nuovo quella parola: traded.

Foto espn

 

Turning point. 27 ottobre 2010, New Orleans, New Orleans Arena.

Quando lo speaker dell’Arena annuncia lo starting five dei New Orleans Hornets, nessuno sa bene cosa aspettarsi da quella stagione dei calabroni. Certo, c’è l’ossatura dell’anno precedente, ma la stagione era andata così e così. Bisognava che i tasselli andassero tutti al posto giusto. Quando penso a tre cose belle della carriera di Marco Belinelli, al terzo posto metto l’aver giocato per Michael Jordan, al secondo l’aver giocato per Gregg Popovich, al primo l’aver giocato accanto a Chris Paul. Se non altro perché senza quest’ultima cosa, non ci sarebbero molto probabilmente state neanche le altre due. Lo starting five degli Hornets, quella sera, è Paul, Belinelli, Ariza, West, Okafor. Sarà sostanzialmente lo starting five di tutta la stagione, e a fine stagione gli Hornets torneranno ai playoff, i primi della carriera NBA di Marco.

Foto espn

 

4 maggio 2013, Barclays Center, Brooklyn, New York.

Marco ha lasciato New Orleans, un anno dopo Chris Paul (che pure lo voleva con lui ai Clippers), per andarsene ai Bulls. A Chicago, infatti, si punta ai playoff, e uno come Marco, che la postseason l’ha solo assaggiata nel suo primo anno a Nola, vuol tornarci in ogni modo. E ci riesce. Ora, se riuscite a immaginare una situazione come quella in cui si trovava Marco in quella sera al Barclays Center, capirete che la determinazione con cui entra in campo per affrontare quella gara-7 è solo, e ancora, voglia di smentire i tanti, troppi che frettolosamente lo avevano bollato come uno “non da NBA”. Chi vince va avanti, chi perde lo rivediamo il prossimo anno. Marco ne mette 24, dopo i 22 della partita precedente, e quando gli entra QUELLA tripla che porta i Bulls a +10 a meno di 5 minuti dalla fine, beh, se fa quel gesto lì possiamo anche capirlo.

la NBA però non l’ha capito, anzi, l’ha multato di 15.000$

 

15 Febbraio 2014, Smoothie King Center, New Orleans.

Ci sono momenti in cui il destino ti vuol far capire che le cose si stanno allineando per il verso giusto, per te. Per Marco Belinelli, questo allineamento ha avuto inizio quando, a luglio, ha firmato da free agent per i San Antonio Spurs. Si è poi reso un po’ più chiaro in questo momento qui:

Che avrebbe poi fatto da preludio a un’altra roba ben più grossa, esattamente quattro mesi dopo.

 

15 giugno 2014, AT&T Center, San Antonio.

Tutti i cerchi che dovevano chiudersi si chiudono. Il ragazzo partito da San Giovanni in Persiceto per andare a giocare per coach Milli nelle giovanili della Virtus Bologna, sognando di poter emulare Manu Ginobili, è accanto a lui, a sollevare il trofeo di campione NBA, il tricolore sulle spalle e il cappellino con la visiera tirata indietro. E allora si pensa a quella maledetta finale di Eurolega, ai coach Don Nelson e Jay Triano, a quella magica giornata a Sapporo e a tutti quelli che lo ritenevano inadeguato per la NBA, ai risultati con la nazionale che vanno e vengono, a questa intervista-non-intervistac he è una delle cose più belle e autentiche che si possano vedere nello sport

Anche se, a onor del vero, è la seconda intervista più bella che ha concesso Belinelli dopo aver vinto il titolo NBA. La migliore resta ovviamente questa.

 

2014-2020, San Antonio, Sacramento, Charlotte, Atlanta, Philadelphia and back. Altri capitoli [Work in progress].

“Mi piace scivolarvi fuori da ogni calcolo
Per riportarmi in riga servirà un miracolo
Complici e simili da credere alle favole
Coi nostri sogni in gola questa notte
Sembra fatta per noi
Che non ci guarderemo indietro mai”

Ridendo e scherzando, sono passati già sei anni da quando Marco ha vinto l’anello. Altri capitoli sono stati scritti, meriterebbero tutti di essere raccontati perché questa galleria dei ricordi di Belinelli non è ancora finita. Le tante partite da highlight in maglia Spurs, dai 32 punti con 16 tiri contro i Knicks, alla tripla doppia sfiorata contro i Celtics (22-11-8 per lui). La prima gara in maglia Kings con Chris Paul come avversario, in cui si travestì da play e smazzò 7 assist. O l’altro esordio, in maglia Hawks, 20 punti in 26 minuti partendo dalla panchina, sognando una stagione da protagonista che sarebbe arrivata, però altrove. Quella volta in cui a Philadelphia lui e J.J. Redick seppellirono i Miami Heat sotto 53 punti in due in gara-1 dei playoff, tre giorni dopo aver segnato il suo millesimo canestro da tre in NBA. La chiamata di Pop per farlo tornare in Texas. Fino alla partita numero 855 nella Lega, l’ultima fino ad oggi: 16 punti con 6-8 dal campo, 4 rimbalzi e la cifra che avrà sicuramente fatto più contento coach Pop: zero palle perse in 21 minuti sul parquet. Ci piace immaginare che coach Pop gli abbia dato una energica pacca sulla spalla, a questo ragazzone con le braccia tatuate, gli abbia offerto un bicchiere di vino e detto qualcosa tipo “bravo, ragazzo, il tuo posto è ancora in questa Lega”. Sai che bello, poterlo raccontare al giovane Marco sbarbato di tredici anni fa?

Foto espn

 

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