foto di Matteo Marchi
articolo di Daniele Vecchi
grafici di Fabio Fantoni

 

 

 

“Come descriverei in tre parole l’ambiente Sixers? Super, familiare, vincente”

Marco Belinelli

 

Un classico di primi anni 2000, più precisamente nella stagione 2001-2002. Le statistiche della Virtus Bologna durante il campionato. Vedevi sempre i soliti Ginobili 28, Rigaudeau 16, Griffith 19 e via via tutti gli altri.

Alla fine, essendo chi scrive una specie di feticista dei panchinari (non potrò mai dimenticare la coppia Scarnati e Sacripanti NE del Bancoroma, o Melioli e Spaggiari nella Cantine Riunite Reggio Emilia), si notava molto spesso un classico “Belinelli e Brkic NE”.

Amici di Bologna molto vicini alla Virtus mi parlavano sempre di questo quindicenne Belinelli che era un fenomeno e che sarebbe diventato un grande giocatore. Sempre queste stesse persone, di chiara e dichiarata fede virtussina, durante i problemi societari che coinvolsero la Virtus nel 2003, con faccia di legno e con fare mesto, un giorno mi comunicarono a mezza voce “Belinelli è andato alla Fortitudo”, sancendo così il lutto nazionale bianconero. Il loro miglior prospetto andava ai loro più acerrimi nemici.

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In quella Skipper e poi Climamio, Belinelli sviluppò, piano piano, senza fretta e senza particolari esplosioni sotto forma di cifre roboanti o di altisonanti performances, il proprio gioco, un talentuosissimo swingman capace di ricoprire almeno tre ruoli, con una innata velocità nell’uscire dai blocchi ma ancora senza un tiro da tre continuo e sistematico, con le caratteristiche anche del tiratore dai 4-5 metri, capace anche di inventare giocate geniali dettate dal suo immenso talento.

Fin dalla stagione 2004-2005 le voci su un’eventuale avventura americana per Marco si susseguivano, più che altro però erano illazioni dettate da un tiepido interesse non totalmente persuaso da parte di alcuni scout NBA, che ne riconoscevano il talento ma che non erano ancora del tutto convinti delle vera e propria caratura del prospetto da San Giovanni in Persiceto.

Subito dopo il rocambolesco canestro della vittoria dello Scudetto 2005 siglato da Ruben Douglas sulla sirena, convalidato dall’instant replay, le telecamere di Sky alla ricerca dei giocatori della Fortitudo festanti, piombarono su Belinelli che abbracciava alcuni suoi compagni di squadra.

Alla domanda sul suo futuro, Beli fu certo e risoluto, in preda all’euforia assicurò “no no, io rimango a Bologna”.

Ci rimase infatti ancora altri due anni, sempre in maglia Fortitudo (13.3 punti di media nel 2006, e 16 punti di media nel 2007), quando a 21 anni decise di sorvolare l’Oceano Atlantico per cominciare la sua avventura nella Lega più bella del mondo.

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Oggi, AD 2018, ce lo ritroviamo ancora splendidamente protagonista ai massimi livelli, mentre si appresta a disputare i Playoffs con i Philadelphia 76ers, squadra giovane, di belle speranze e che ha dalla sua parte l’entusiasmante inerzia di chi è in un qualche modo consapevole di poter fare qualcosa di veramente grande. E Marco c’è, ed è parte integrante di quella inerzia.

Belinelli annunciò il suo arrivo a Philly lo scorso febbraio con un tweet eloquente

Furono giornate di passione, per Marco:

“Il percorso che mi ha portato a Philadelphia è stato intenso e pieno di dubbi e incertezze. Avevo vissuto un momento difficile a Sacramento, ero andato meglio  a Charlotte, e  una volta ad Atlanta, dopo che a febbraio la trade prima della deadline non è riuscita, io avevo una certezza: volevo andare dove avrei trovato stimoli per giocare come so fare.

Scegliere il buyout è stata una conseguenza naturale, ma non è facile pensare di uscire da un contratto e non sapere a cosa si va incontro. Invece dal momento in cui sono stato libero il telefono ha iniziato a squillare.

Quasi tutte le squadre che mi avevano cercato si sono fatte vive dopo la deadline, San Antonio, Oklahoma, Toronto, Milwaukee, Portland, New Orleans.

Sono stati giorni molto intensi.

Alla fine coach Brett Brown era quello che mi chiamava con più insistenza, poi sono arrivati i messaggi di Joel Embiid e di J.J. Redick…alla fine il sistema di gioco era quello che più sentivo mio. Quindi mi sono deciso, ed eccomi qui”.

In questo momento Belinelli è all’apice della sua carriera, senza se e senza ma.

In maglia Sixers ha la miglior media punti di tutta la sua carriera, 13.3 punti a partita in 26.4 minuti, ma soprattutto ha la miglior Effective Field Goal Percentage di tutta la sua carriera, ancora meglio, e di gran lunga, di quella che aveva nella stagione 2013-2014 in maglia San Antonio, probabilmente considerata la sua migliore stagione fino ad oggi. 61.1% infatti in questa stagione a Philadelphia, contro il 57.6%  della sua prima stagione in maglia Spurs.

Con J.J. Redick ad uscire dai blocchi e a ricevere gli scarichi, sostanzialmente il ruolo che Belinelli ha sempre ricoperto nella sua carriera NBA, Marco si è visto un po’ chiuso dall’ex Dukie, ma è comunque riuscito a migliorare “in corsa” il suo gioco in-between e verso canestro, con un sensibile incremento della sua percentuale da due punti, passando dal 41% di Atlanta al quasi 51% nelle 26 gare giocate in maglia Sixers, sintomo e segnale anche della immensa capacità di Marco di adattarsi alle situazioni e di farsi trovare pronto anche in ruoli che non sempre sono suoi, cosa altresì ulteriormente difficile da trovare in un giocatore considerato “veterano”, alla sua undicesima stagione NBA.

L’impatto di Belinelli sui Philadelphia 76ers è stato devastante, con lui i Sixers hanno un record di 21 vinte e 5 perse, dopo il suo arrivo Philly ha cominciato la scalata al Playoffs Bracket della Eastern Conference arrivando dal settimo posto al terzo, scavalcando i Cleveland Cavaliers, campioni uscenti della Eastern.

Visto dal di fuori, lo spogliatoio di Philadelphia sembra essere più coeso che mai, tutti sembrano seguire i dettami di Coach Brown.

Giovani leoni superstars come Joel Embiid, Ben Simmons e Markelle Fultz, blue collars come Robert Covington e Richaun Holmes, veterani come J.J. Redick e Amir Johnson, europei come Dario Saric, Marco Belinelli, Ersan Ilyasova, mestieranti Nba come Justin Anderson e T.J. McConnell, i Sixers di oggi sembrano essere il più classico dei team on a mission, e la missione è il famigerato PROCESS, creato da Sam Hinkie, portato avanti da Bryan Colangelo e professato da Brett Brown.

Già, proprio lui, il bistrattato Brett Brown, apostolo di Gregg Popovich e in questi anni impossibilitato a dimostrare la propria pasta di allenatore, un allenatore di sistema, programmatico, e nonostante gli anni di tanking, evidentemente vincente.

“Come detto Coach Brown è stato uno dei motivi per cui ho scelto Philadelphia. Sapevo che qui avrei trovato il gioco adatto a me. A livello di squadra stiamo andando bene, dobbiamo ancora migliorare. Questa striscia positiva è incredibile, stiamo trovando ritmo e intesa in campo. Dobbiamo migliorarci per arrivare ancora meglio ai playoffs.”.

Al momento i Sixers sono alla N.3 della Eastern Conference, se il Seed del Bracket verrà rispettato al primo turno, in Semifinale di Conference potrebbe esserci la storica sfida con i Boston Celtics, da sempre i favoriti, da sempre i migliori, e da sempre la squadra che storicamente, salvo rare occasioni, nel crunch time delle Serie hanno sempre fatto a pezzi Philadelphia.

Insomma i Playoffs della Eastern Conference (e quelli NBA in generale, basti vedere la situazione nella Western Conference!) si preannunciano come tra i più interessanti degli ultimi anni.

Oggi vediamo il nostro Marco Belinelli carico a mille, che si appresta a vivere i Playoffs da protagonista, ma la sua carriera NBA non è stata certo una strada spianata.

Anzi, il contrario.

Marco è passato attraverso molteplici vicissitudini problematiche, a partire dalla chiamata N.18 del Draft NBA 2007 da parte dei Golden State Warriors di Don Nelson.

Subito alla Summer League di Las Vegas Marco ha fatto faville nel suo esordio, 27 punti nella vittoria 110-102 sui New Orleans Hornets, con 14 su 20 dal campo e 5 su 7 da tre punti. Sembrava l’inizio di una idilliaca permanenza nella Bay Area, ma Don Nelson pareva in realtà avere idee diverse.

La stagione 2007/2008 per Marco fu una stagione totalmente frustrante, solo 33 partite giocate, 7.3 minuti a partita e 2.9 punti realizzati, tanto garbage time, ma anche tanta pazienza e tanta perseveranza, per Marco.

Photo by Evan Gole/NBAE via Getty Images

Una volta accadde che alla fine del suo anno da rookie, ospite di una trasmissione televisiva sul digitale terrestre, alla domanda tendenziosa fatta da parte di un giornalista conduttore televisivo che qualche volta ha condotto Real Tv su Italia Uno, sul suo futuro in NBA, che insinuò nemmeno troppo velatamente che forse lui non era adatto per la Big League e che sarebbe stato comunque un dominatore in Eurolega, Marco sbottò, sempre nei limiti della educazione e della cortesia, e rispose “guarda, non so perchè continui a chiedermi e a parlarmi del mio futuro in Europa, io gioco nella Nba, sono un giocatore Nba e non ho nessuna intenzione di lasciare l’America”.

Nella stagione successiva a Marco andò leggermente meglio, anche grazie agli infortuni Corey Maggette e Monta Ellis che costrinsero Nelson a dare giocoforza più spazio a Marco, 23 partite da titolare su 42 giocate in totale, 21 minuti giocati e una media punti che arriva a 8.9 a partita, un ottimo salto statistico, ma il succo rimane sempre e comunque uno solo, Don Nelson non crede in Marco.

Arrivò il trasferimento a Toronto nella off season del 2009, in cambio di Devean George, e Marco si ricongiunge ad Andrea Bargnani. Viene tentata una sorta di italian connection in Ontario, ma la situazione sembra essere complicata, nello spogliatoio non c’è grande chimica, l’arrivo da Southern California del Rookie DeMar DeRozan crea molte aspettative sui Raptors, e alla fine Marco trova se possibile meno spazio che a Oakland, 17 minuti di media e 7.1 punti. Terzo anno nella Lega per Marco, e altro anno in cui non riesce ad esprimere appieno tutte le proprie potenzialità.

“Non ho mai avuto particolari problemi con nessuno nella mia carriera, né giocatori né coach. Sicuramente non è stato facile con coach Don Nelson a Golden State, c’è da dire però che ero proprio all’inizio della mia carriera NBA.

Sicuramente anche l’annata di Toronto è stata una stagione molto difficile. Tuttavia queste esperienze negative mi hanno portato comunque a crescere anche e soprattutto come persona. Ho sempre pensato solo a giocare a pallacanestro e a dimostrare la voglia di vincere sul campo, non ho mai mollato, infatti alla fine sono riuscito a dimostrare il mio talento, sia in campo che fuori”.

La svolta arrivò nella stagione successiva, quando, a dispetto del contratto che lo legava ai Raptors ancora per una stagione, Belinelli sceglie di uscire dal contratto e di accasarsi a New Orleans con gli Hornets di Chris Paul.

E finalmente arriva la breakout season. 10.5 punti di media a partita con il 41% abbondante da tre punti, ma soprattutto con un minutaggio e un investimento di responsabilità importante da parte di coach Monty Williams, che considerava Belinelli un ingranaggio importante della sua squadra, che raggiunse i playoff e che venne però eliminata 4-2 al primo turno dai Los Angeles Lakers, con Belinelli che vide anche incrementato il suo minutaggio durante la post season, godendo della fiducia del coaching staff, finalmente una iniezione di fiducia per l’uomo da San Giovanni in Persiceto.

L’anno successivo però Chris Paul se ne va ai Clippers e gli Hornets rimangono orfani della loro superstar, 21 vittorie e 45 sconfitte (fu l’anno del Lockout e furono giocate solo 66 partite), con Marco quasi sempre titolare con una media punti di 11.8, sempre in crescita, seppur in una squadra perdente.

Nella stagione successiva arriva forse il suo primo vero step verso il massimo livello, passa ai Chicago Bulls e disputa dei grandi playoffs, 11.1 punti di media in 12 partite di post season, compresa una Gara da 24 punti nella serie contro Brooklyn.

Mentre le grandi superstar Nba si affrontano e si allenano nella off season a Santa Monica, Marco non cambia mai, nemmeno ora, il proprio modo di affrontare la stagione successiva, e continua ad allenarsi nel bolognese assieme al suo coach delle giovanili della Virtus, Marco Sanguettoli, peraltro ex giocatore di Serie A2 con la Mangiaebevi Ferrara nei primi anni 80.

Marco Sanguettoli, ottimo coach delle giovanili e perfetto per la crescita personale di un giocatore anche di alto livello, ci ha parlato di Belinelli:

“Marco era un mio giocatore alla Virtus, a 14 anni era esile e debole fisicamente, un longilineo poco reattivo a livello muscolare, ma dotato di grandissimo talento, e soprattutto di una grandissima forza interiore. Fin da allora voleva fortemente diventare un giocatore professionista e andare a giocare nella NBA e questa fu la sua più grande motivazione che lo ha portato a lavorare sempre duramente per raggiungere i propri traguardi. Poi è esploso dal punto di vista fisico, e lì si è totalmente realizzato lo strapotere espresso nelle categorie giovanili, che lo hanno poi portato a fare differenza anche in Serie A in giovanissima età.

Un post condiviso da Marco Belinelli (@mbeli21) in data:

Noi lavoriamo ogni estate circa 40-45 giorni prima della sua partenza per il Training Camp, quindi da circa metà agosto a fine settembre, sempre in base agli impegni con la nazionale, ad esempio l’anno scorso abbiamo lavorato prima, in giugno, prima che lui poi partisse per raggiungere la nazionale.

La scorsa estate abbiamo lavorato direttamente alla Unipol Arena, ogni volta ci poniamo sempre due obiettivi, di uguale importanza: il primo è cercare di fare in modo che Marco arrivi al Training Camp già avanti e pronto, sia a livello tecnico sia a livello fisico, lavorando ovviamente assieme al preparatore atletico. Il secondo è un lavoro più mirato fatto di tecnica individuale, in base al sistema di gioco che il suo futuro coach avrebbe adottato nella successiva stagione. Il lavoro che abbiamo fatto nell’estate prima delle stagioni a San Antonio è stato molto minuzioso, in base a ciò che Gregg Popovich si aspettava che Marco desse alla squadra”.

Nel 2013 arriva infatti la chiamata di San Antonio, una vera contender, e qui il Belinelli determinato, vincente e trabordante di personalità, trova la sua massima espressione.

Innanzitutto, la nomination per il Three Point contest in occasione dell’All Star Weekend di New Orleans, la eliminatoria dove ha eliminato Kevin Love e Steph Curry tra l’indifferenza generale, e la finale doppia contro Bradley Beal dopo il primo pareggio. Una vittoria strepitosa, che ha dato a Marco una ulteriore credibilità a livello NBA, una dimostrazione di talento e solidità, in una specialità che è sicuramente puro spettacolo, ma che annovera comunque tra i propri vincitori nomi non propriamente di secondo piano nella storia del gioco come Larry Bird, Steve Kerr, Ray Allen, Paul Pierce o Stephen Curry.

Come detto quella stagione fu magica per Marco, 11.1 punti di media con il 43% da tre punti, una stagione che lo vide protagonista della cavalcata verso il Titolo assieme ai veterani Tim Duncan, Tony Parker e Manu Ginobili e assieme all’MVP delle Finals Kawhi Leonard.

Marco ha visto calare il suo utilizzo nei Playoffs, ma è riuscito comunque a mantenere alta la sua percentuale di realizzazione da tre punti, 42%, sintomo di grande concentrazione, di grande dedizione, e di perfetto inserimento negli ingranaggi offensivi di Popovich.

Una stagione da ricordare, un Anello NBA al dito.

“La vittoria del Titolo con gli Spurs…non si dimenticano certi momenti… non dimentico la bandiera dell’Italia che ho alzato in campo al termine della partita e non dimentico i momenti nello spogliatoio, la festa con i compagni, la famiglia, gli amici…non dimentico nulla, momenti intensi e indelebili nella mia mente e nel mio cuore”.

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Per Marco un’altra stagione agli Spurs, abbastanza simile alla precedente, un piccolo calo di punti segnati e di minuti giocati (9.2 punti e 22.4 minuti di media), ma un sensibile calo nella percentuale da tre punti, 37% in stagione.

A fine stagione, per sua stessa ammissione, cercò di capitalizzare i sacrifici delle otto stagioni precedenti cercando un contratto importante, che gli venne dato dai Sacramento Kings. 19 milioni di dollari in tre anni, Coach George Karl è da sempre un grande estimatore del basket europeo, la situazione sembrava proprio essere quella giusta, per Marco.

Ben presto però le cose si mettono male nello spogliatoio dei Kings, si vocifera di una rottura insanabile tra George Karl e DeMarcus Cousins, condita anche da scontri fisici tra i due, accadimenti che ovviamente non portano a nulla di buono, che minano sin dall’inizio la stagione dei Kings, che finiscono fuori dai Playoffs con un record di 33 vinte e 49 perse, ma con Marco che comunque riesce a mantenere alto il proprio rendimento a 10.2 punti di media a partita.

Nel mentre ovviamente Marco Belinelli è ed è stato una delle punte di diamante della nostra nazionale, che spesso, troppo spesso negli ultimi anni, ci ha fatto penare.

foto Matteo Marchi

Con la maglia azzurra Marco Belinelli le ha vissute tutte, le poche gioie e i purtroppo molti dolori. 141 partite in azzurro per lui con una media di 14.7 punti a partita, una costante in azzurro dal 2006, sempre però senza raggiungere grandi risultati o portare di nuovo l’Italia ai fasti della generazione argentata ad Atene 2004.

La sua idea delle parecchie occasioni perse dagli Azzurri in questi anni, è abbastanza chiara e vicina a quello che è l’immaginario generale sull’argomento:

“Sulla carta, soprattutto negli ultimi anni, abbiamo sempre avuto grandi individualità, siamo sempre arrivati lì lì a compiere delle grandi imprese, ma alla fine ci è sempre mancato il carattere, le palle per chiudere le partite, per andarci a prendere i risultati”.

Il riferimento più chiaro va ovviamente a quel Pre-Olimpico del 2016 a Torino, a quella sconfitta in finale contro la Croazia del suo attuale compagno di squadra Dario Saric, una delusione se possibile ancora più cocente di tutte le altre eliminazioni dai vari tornei Europei e Mondiali. Belinelli giocò quel Pre-Olimpico da protagonista, 15 punti di media nelle quattro gare giocate dagli Azzurri, e 18 punti nella sconfitta al supplementare contro la Croazia, molti errori anche per lui in quella finale, chiusa con un 2 su 10 da due punti, e un grandissimo rammarico per quella Olimpiade sfumata.

Ma la carriera NBA di Marco continua, e nella stagione successiva 2016/2017  arriva la chiamata di Michael Jordan e Belinelli si accasa a Charlotte con gli Hornets, ancora un ottimo rendimento per Marco (10.4 punti in 24 minuti di media a partita), ma ancora una volta una stagione in una squadra con il record perdente.

Foto Matteo Marchi

Stesso clichet all’inizio di questa stagione, Belinelli approda agli Atlanta Hawks in disarmo da più di una stagione, alla ricerca di una ricostruzione che arriverà non prima di qualche anno. Da grande professionista quale è, Marco fa la sua parte, 11.4 punti in 52 partite giocate, prima dell’approdo nella Città dell’Amore Fraterno, dove ora Marco ha ritrovato motivazioni, spazio per migliorare, e soprattutto un ambiente e un sistema vincenti.

foto Matteo Marchi

Come disse Joe Strummer “The Future is unwritten”, nessuno può sapere cosa succederà in futuro, ma una cosa ormai è certa, e i fatti parlano chiaro: Marco Belinelli è un grande professionista, un giocatore dotato di una grandissima intelligenza cestistica, di enorme talento e di una capacità di adattamento fuori dal comune, sul campo e fuori dal campo, e soprattutto, cosa da non dare mai per scontata, Marco è uno che ama il gioco.

Magari è facile identificarsi in qualcuno che ha la tua stessa passione per il gioco, ma Belinelli pare proprio uno di quelli, come noi, che ha sempre voglia di avere un pallone in mano, che ha sempre voglia di giocare, uno di quelli con la nostra stessa dedizione e caparbietà, aiutati però ovviamente dall’immenso talento e dagli straordinari mezzi fisici, riuscendo a fare della propria passione la propria professione, al massimo livello possibile.

Marco Belinelli, Trust the Process.

foto Matteo Marchi
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