illustrazione grafica di Paolo Mainini
articolo di Luca Picco
Il 7 maggio del 1989 la guardia dei Cleveland Cavaliers subisce l’iconico canestro passato alla storia come “The Shot”.
Facciamo un esperimento. Vi ricordate di Craig Ehlo, biondo mestierante NBA che solcava i campi di gioco a cavallo fra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90 del secolo scorso? Probabilmente i più attenti e diligenti se lo ricordano come un discreto giocatore, buon tiratore e arcigno difensore. I più appassionati invece per un altro motivo: come una vittima designata.
Infatti, proviamo ora a digitare la keywords “Craig Ehlo” su google e osservare come di consueto l’elenco delle prime voci che compaiono: la biografia su wikipedia italia, la biografia su wikipedia in lingua inglese e via via tutte le altre. Benissimo. Soffermiamoci sulle immagini correlate e improvvisamente in primo piano chi compare? Ebbene sì, compare Michael Jordan. Ed Ehlo?
Nell’immagine principale, che dovrebbe essere selezionata dall’algoritmo per rappresentarlo, Ehlo è sullo sfondo, lo si vede appena. Sfocato, lo si intuisce più che altro. Lo si percepisce grazie alla sua chioma bionda e alla divisa bianca che si stacca cromaticamente dalla figura esultante in primo piano, un ben più riconoscibile Jordan fotografato allo zenit di un ideale balzo verso il successo planetario. Ehlo ha il braccio destro alzato e sembra sul punto di accasciarsi al suolo, come se fosse stanco, sopraffatto, vinto da qualcosa che è appena successo, un evento tuttavia più grande di lui. Ehlo appare sconfitto dall’iconicità di un’azione sportiva che lo ha appena relegato ai margini della storia. Oppure co-protagonista di un’azione che ha dato il via alla legacy di uno dei più grandi sportivi mondiali e forse del più grande cestista di sempre. Sì, perché la giocata, rinominata “The Shot” con quella tipica enfasi nordamericana nel cristallizzare di volta in volta il momento in eterno, è stata il suo primo canestro sulla sirena in una serie di playoff ed è ricordata come la prima di una lunga serie di azioni iconiche che Jordan ha compiuto nella sua carriera. Ed Ehlo ne è stato ignaro facilitatore.
Ma com’è che il ricordo di un due volte All-Star (alla gara del tiro da tre punti), che ha giocato in tutto 14 stagioni NBA collezionando 7.492 punti, 2.456 assist, 3.139 rimbalzi e con un soprannome tutto sommato positivo come “Mr. Everything” (mister “di tutto”) è legato soprattutto a un’azione che non ha compiuto ma di cui è stato forse bersaglio prefigurato e sicuramente inevitabile fautore? Torniamo all’inizio della nostra storia.
ONCE UPON A TIME IN NBA
In occasione dell’inizio della regular season ‘88-’89 della National Basket Association gli appassionati della palla spicchi statunitensi vedono finalmente alla luce la grande novità annunciata solo pochi mesi prima. David Stern, insediato da circa quattro anni come Commissioner della Lega succedendo a Larry O’Brien, dà ai tifosi di Miami e Charlotte la soddisfazione di vedere le loro città collocarsi sulla mappa dei grandi eventi cestistici nazionali a livello professionistico. È il primo di un duplice step che vede l’anno dopo entrare nell’NBA anche i Minnesota Timberwolves e gli Orlando Magic con una danza abbastanza anomala di squadre sballottate prima a Ovest e poi a Est del tabellone. Miami infatti abbastanza paradossalmente finisce nella Midwest Division della Western Conference, mentre Charlotte va a riequilibrare numericamente la Conference ad Est, divisione Atlantica. Entrambe le squadre avrebbero poi fatto reciprocamente il percorso inverso all’inizio dell’anno successivo.
I quattro nuovi team nascono in un’ottica di espansione sportiva e commerciale voluta da Stern, a posteriori piuttosto lungimirante, sull’onda lunga dell’entusiasmo della grande rivalità sportiva che vede nel duello Celtics-Lakers l’apice del manicheismo competitivo che ha infiammato gli ultimi dieci anni di Finals, a parte un breve e unico interregno della squadra della città dell’Amore Fraterno nella stagione 1982-1983. La necessità di ampliare il bacino di utenza portando a 27 le franchigie fa in modo di cercare, rischiando, nuove soluzioni.
Una serie di altre squadre in rampa di lancio, come i Detroit Pistons di coach Chuck Daly e del loro leader emotivo Isiah Thomas, e di ottimi giocatori sono quasi pronti a modificare ulteriormente e lentamente lo scenario sportivo e culturale della Lega e presto del mondo. Qualche nome? I giovani Charles Barkley, John Stockton, Hakeem Olajuwon e un rampante Jordan pronto ad autoaffermarsi per distacco leader dei suoi Chicago Bulls, dell’intera NBA e icona globale di stile, di business e ovviamente di sport.
SWEET HOME CLEVELAND
In questo scenario caratterizzato da una necessaria ricerca di alternative vincenti per sopperire all’inizio del lento decadimento del dualismo Celtics/Lakers, cerca di emergere anche una franchigia con sede a Cleveland, Ohio, lontana dai radar delle squadre d’elite. Non senza difficoltà.
Agli inizi degli anni ‘80 i Cavaliers vivono un periodo davvero buio in cui non riescono ad arrivare ai playoff per quattro anni di fila. Chiudono la stagione 1981-82 con un bilancio di 15-67 (.183!!!) e quattro allenatori licenziati; mentre durante la stagione 1982-83 raggiungono il poco invidiabile record di 24 partite senza vittorie, a quel tempo la striscia più lunga di sempre. Il proprietario, Ted Stepien, non viene certamente ricordato per la sua gestione illuminata, anzi tuttaltro. Viene accusato dai propri tifosi di gestire la franchigia come un circo, tanto che per alcuni anni di seguito scambia tutti i propri draft picks e l’NBA è costretta a correre ai ripari introducendo la “Stepien Rule”, ovvero il divieto da parte dei proprietari di cedere in stagioni successive le scelte del primo giro.
George e Gordon Gund acquistano i Cavaliers da Stepien nel 1983 e la situazione inizia lentamente a migliorare contestualmente all’arrivo di George Karl, allora trentatreenne, grazie al quale raggiungono per lo meno i playoff, nella stagione ‘84-’85, eliminati al primo turno dai Boston Celtics. Karl fu esonerato durante l’anno successivo, sostituito ad interim da Gene Littles. I proprietari licenziarono anche il G.M. Harry Weltman.
Questa è solo l’inizio di una piccola rivoluzione che in casa Cavs porterà nel giro di due anni una serie di ottimi giocatori, attraverso lungimiranti e accurate scelte, distanziandosi in questo modo dall’infausto appellativo attraverso cui venivano soprannominati: per i giornali infatti si stanno allontanando i tempi oscuri dei “Cleveland Cadavers”.
Nel biennio ‘86-’88 i Cavaliers sono una squadra in rapida trasformazione. Nel giro di due anni si impongono come un team valido e ricco di alternative.
Nell’ordine, nel Draft dell’85 acquisiscono John “Hot Rod” Williams (45° scelta) giocatore promettente ma che, tuttavia, rimane fermo un intero anno a causa delle conseguenze legali di un processo a suo carico legato a sospetti di scommesse, altresì detto “Point shaving”, da cui ne esce pulito.
Durante il Draft dell’86 ottengono come prima scelta assoluta il Tar Heel Brad Daugherty (via Philadelphia in cambio di Roy Hinson) e attraverso la scelta numero otto un prodotto autoctono dell’Ohio, Ron Harper. Con la 25° scelta (via Dallas) arriva il playmaker Mark Price, da Georgia Tech. Tre grandi innesti in una sola notte e, di fatto, tre quinti del quintetto base dei successivi anni già costituito.
(Mark Price con i Soul Asylum in un famoso VHS anni ’90 “Nba Superstars”)
Come ciliegina sulla torta e direttore d’orchestra il nuovo G.M. Wayne Embry porta Lenny Wilkens sulla panchina dei rampanti Cavs. Un allenatore esperto e già vincente, dato che ha già vinto un titolo NBA nella stagione ‘78-79 sulla panchina dei Seattle SuperSonics contro i Bullets di Elvin Hayes e Wes Unseld guidati da Dick Motta.
Durante il corso della stagione 86-87, per sostituire temporaneamente l’infortunato Price fuori quasi un mese per una appendicectomia, arriva proprio Ehlo che dopo essere stato selezionato dagli Houston Rockets e aver giocato in Texas tre stagioni è nel frattempo parcheggiato in CBA, nei Jacksonville/Mississippi Jets. Ehlo gioca e convince, portando a termine il compito di sostituire Price e togliendosi anche la soddisfazione della conferma.
Nell’ottobre del 1988 i Cleveland Cavaliers iniziano la 20° stagione della loro storia con i migliori propositi, con una campagna acquisti mirata e di fatto già iniziata nei mesi precedenti privandosi di due scelte al draft dell’88, una al primo giro, la 14th poi rivelatosi Dan Majerle, e una al secondo giro, quella di un certo Dean Garrett che non esordisce immediatamente nella NBA ma che si lancia con buona fortuna in Italia tra Reggio Calabria e Pesaro per poi tornare negli Stati Uniti solo alcuni anni dopo. Entrambe le scelte, girate a Phoenix assieme a Kevin Johnson, sono funzionali all’arrivo di Larry Nance, esperta ala piccola dalle indiscusse doti atletiche e dalla spiccata tenacia difensiva, utile a dare una bidimensionalità più marcata nel ruolo di small forward. Non a caso, alla fine dell’annata ‘88-’89, proprio il padre del futuro Larry Nance Jr che avrebbe poi ereditato l’intera sua struttura muscolare come se madre natura si fosse divertita a fare ctrl+c/ctrl+v, sarebbe stato selezionato nel 1° quintetto difensivo.
Una scelta particolarmente azzeccata per coach Wilkens che vede in lui e nelle guardie Ehlo e Harper un terzetto a forte trazione difensiva, ma con discrete doti offensive, da schierare in campo anche non contemporaneamente e che possa fungere da contraltare agli agguerriti backcourt avversari.
A completare il roster in cabina di regia Price e sotto canestro Daugherty, fra l’altro entrambi protagonisti anche all’All Star Game giocato all’Astrodome di Houston, Texas, in cui i Cavaliers portano ben tre giocatori. Mike Sanders da Vidalia, Louisiana, e “Hot Rod” Williams, originario dalla piccola Sorrento (non la bella Surriento fronte Napoli ma la cittadina della Louisiana), danno un senso finale a un roster di tutto rispetto, privo di stelle universalmente conclamate ma molto competitivo e bilanciato.
E con questi giocatori a referto le soddisfazioni non mancano arrivando a un più che positivo .695 frutto di 57 vittorie e 25 sconfitte, piazzandosi al secondo posto nella Lega al pari dei Lakers e un gradino subito sotto dei Detroit Pistons, poi laureati campioni alla fine della lunga corsa.
Wilkens, nominato “Allenatore del mese” di dicembre, grazie a un bilancio di 12–2, e alla guida della squadra durante un ottimo mese di gennaio dominato anche grazie alle 11 vittorie di fila, si toglie qualche soddisfazione personale.
In un’intervista del 7 gennaio 1989 rilasciata al “Lancaster Eagle-Gazette” Magic Johnson arriva a definire quei Cavs addirittura avveniristici, praticamente “a team of 90s now in ‘89”. Si tratta quasi di un passaggio di testimone ai vertici dell’NBA.
Non ultimo, in vista dei playoff,un invitante sweep di 6-0 vede i Cavaliers essere nettamente in vantaggio per scontri diretti contro i Bulls durante la regular season e quindi partire con il favore del pronostico per un’agevole cavalcata per lo meno fino alla Finale di Conference. A contendere il passaggio del primo turno ai Cavaliers ci sono infatti proprio i tori dell’Illinois che, masticando ancora con difficoltà il Triple Post Offense, ancora nella versione beta della “sperimentazione”, arrivano all’appuntamento di aprile con un bilancio di 47 vittorie a fronte di 35 sconfitte, partendo quindi dal sesto posto della griglia. Un Jordan formato “Miglior realizzatore della stagione regolare” ma ancora non mentalmente pronto a portare la propria squadra fino alla vittoria finale e con qualche tassello di esperienze e batoste da incassare e da inserire in curriculum, può infatti non bastare contro i più completi Cavaliers. I giornalisti lo sanno e sono pronti a puntare senza pensarci troppo sull’uscita anticipata dei Bulls, senza neanche preoccuparsi di tenere nascoste le loro preferenze alle orecchie di Jordan, provocandolo ulteriormente.
Ma le serie di playoff sanno sparigliare le carte molto bene e Jordan è pronto a ribaltare i termini delle scommesse a suo sfavore.
GAME 5 @CLEVELAND (7 MAY, 1989)
Alle 15:30 di domenica 7 maggio al The Coliseum di Richfield Township, Ohio, quasi a metà strada tra Cleveland e Akron, si gioca la 5° e decisiva sfida di playoff. Ci sono 20,273 spettatori quel giorno ad assistere alla inevitabile conclusione di una serie molto accesa e regnata da un equilibrio dove il fattore campo è già saltato in due occasioni, in gara 1 in casa dei Cavaliers e in gara 4 al Chicago Stadium, casa dei Bulls.
I Cavaliers hanno quindi l’inerzia della serie dalla loro parte e si trovano ad affrontare la partita decisiva in casa. Gara 4 è stata infatti vinta dai Cavaliers grazie ai due decisivi tiri dalla lunetta di Daugherty e portando ben cinque uomini in doppia cifra per rispondere alla prova monstre di Jordan, da 50 punti, macchiata tuttavia da due fatali errori ai tiri liberi nei minuti finali della partita e dal tiro all’ultimo secondo respinto dal primo ferro. Questa distribuzione equa dei punti è il segno che proprio sull’equilibrio e sulla distribuzione delle responsabilità si basa la volontà di coach Wilkens di passare il turno. Non a caso le due sconfitte sono arrivate proprio quando in gara 1 era assente Price e in gara 3 Ehlo.
Il coach dei Cavalier tuttavia per la decisiva e ultima gara può disporre di tutti i suoi uomini migliori, a parte Sanders non partito titolare e molto limitato fisicamente.
L’equilibrio regna. La partita arriva sul 98-99 a favore degli ospiti a sei secondi da giocare sul cronometro e con la palla in mano ai Cavs. Da metà campo, proprio Ehlo è pronto per la rimessa. Su di lui un preoccupato Craig Hodges salta ripetutamente sul posto per ostacolare il passaggio. A poca distanza l’allenatore dei Bulls, un Doug Collins con le braccia in alto simulando la difesa che i suoi giocatori devono tenere, è visibilmente agitato in quanto consapevole che la palla può finire indistintamente nelle mani di Price, Nance, Daugherty, Harper e Ehlo con il medesimo risultato. Tutti possono segnare, nessuno pare essere il risolutore designato.
Riceve Nance che con un passaggio quasi consegnato a due mani ritorna immediatamente la palla a Ehlo che nel frattempo ha tagliato verso canestro lasciando sul posto uno spaesato Hodges ancora fermo sulla rimessa laterale.
Ehlo prende palla e con un solo palleggio si avvicina al canestro segnando in layup, appoggiando delicatamente al tabellone ed evitando anche la stoppata di Jordan, schizzato subito in aiuto dal lato debole. Ricadendo a terra Ehlo si sbilancia assumendo una posizione quasi religiosa. Con entrambe le ginocchia a terra e le braccia distese in avanti, come un fedele musulmano nell’atto della ṣalāt, la tipica posizione di preghiera. Ehlo, ancora zoppicante per il recente infortunio alla caviglia subito durante la serie e dolorante per una gomitata rifilata proprio da Jordan poco prima, ha appena segnato il suo ventiquattresimo punto.Il canestro del sorpasso è stato confezionato in 3 secondi netti, proprio da Ehlo ora visibilmente stremato. Quasi un eroe, visto che mancano appena 3 secondi e i Bulls devono assolutamente segnare con probabilmente una sola possibilità di costruire un buon tiro.
FROM HERO TO EHLO
Il punteggio sul tabellone indica 100-99 per la squadra di casa e il pubblico rumoreggia ripetutamente e con insistenza la parola De-fence, De-fence. Coach Wilkens è preoccupato e opta per non cambiare le marcature difensive sulla rimessa. Posiziona sull’uomo con la palla le lunghe leve di Nance a ostacolare le linee del passaggio iniziale. Ma non lo colloca fronte all’uomo che fa la rimessa ma da l’ordine di seguire a vista il possibile ricevente aumentando in questo modo la pressione e, di fatto, eseguendo un raddoppio già da prima dell’inizio dell’azione.
In campo, un doppio blocco orizzontale di Scottie Pippen per Hodges e di Bill Cartwright per Jordan libera contemporaneamente le due guardie dei Bulls. In questo momento Brad Sellers ha una tripla opzione di passaggio, contando anche Pippen che si è a sua volta girato e smarcato per una possibile ricezione. Sceglie Jordan.
Ehlo in difesa fino a quel momento fa un ottimo lavoro. Jordan deve fare un triplo cambio di direzione per riuscire a ricevere, ma riceve comunque. Ehlo scivola verso il centro con un leggero ritardo ma quando salta è sicuro di ostacolare bene il tiro perché, con il braccio sinistro in iperestensione, la mano arriva fin sopra il pallone che l’attaccante ha in mano pronto per scoccare il dardo decisivo.
E il dardo si rivela avvelenato per il difensore, per i compagni di squadra e per tutti gli oltre 20.000 tifosi del Coliseum, per quelli che tifano Cavaliers ovviamente. Qui Ehlo capisce che mentre aveva già raggiunto l’apice del salto, davanti a lui l’attaccante continua a salire. E salire ancora. Ehlo prosegue l’inerzia che la spinta orizzontale gli ha dato. Mentre accanto a lui Jordan, sostenuto dall’impulso verticale, guadagna quella frazione di secondo per temporeggiare sospeso nell’aria, spezzare il polso alla sua maniera, confermare il soprannome “His Airness” e portare i Bulls al turno successivo.
Uno dei due telecronisti, Johnny Kerr, urlando “GOOD! THE BULLS WIN IT! THEY WIN IT!” si è appena reso conto di aver assistito da posizione privilegiata ad un’azione di rara importanza e bellezza. Jim Durham, al suo fianco, alla fine della telecronaca arriva a dire che in sedici anni di attività questa appena conclusa è stata la serie più grande che abbia mai visto.
Ehlo a quel punto quasi sulla linea laterale si accascia visibilmente al suolo. Vinto dalla stanchezza e dalla delusione e proprio in quella posizione annichilito su sé stesso, nell’atto di cadere, viene immortalato come figura di sfondo di un gesto irripetibile. Quasi attore non protagonista della sua stessa carriera.
Fra tutti gli spunti post partita che a posteriori si possono citare e ricordare, tuttavia, ce n’è uno che si porta dietro un carico di anomalia non indifferente. A caldo sono tante le sensazioni che possono emergere da un finale di partita così concitato. Si possono elogiare gli sconfitti Cavaliers per essere stati a un passo dal passaggio del turno. In fin dei conti il continuo sorpasso nel punteggio di una e dell’altra squadra ha premiato solo all’ultimo istante il vincitore della serie. Si può elogiare l’atto mentale di un giocatore nell’infilare un canestro decisivo davanti a 20.000 persone che tifano contro. Si può apprezzare il gesto atletico di Jordan, in quanto stiamo parlando di un tiro in sospensione all’ultimo atto di una serie alla meglio delle cinque partite: sforzo non indifferente.
Oppure si può decidere di dare un’enfasi inconsueta a un’azione passata del tutto sottotraccia. Come emerge dal libro di Roland Lazenby “Michael Jordan, la vita” (edito in Italia da 66thand2nd nel 2015), fra tutte le opzioni possibili il G.M. di Chicago, il vulcanico Jerry Krause, immediatamente dopo il fischio finale ignora deliberatamente il valore del tiro di MJ e della serie condotta dai Cavs, lodando invece il passaggio di Sellers dalla rimessa (!?!) che a suo modo di vedere ha smarcato in maniera egregia Jordan e permesso il passaggio del turno ai Bulls.
A Jordan non è mai andato a genio il fatto che Krause, solo pochi mesi prima, abbia ceduto il fido scudiero Charles Oakley ai Knicks in cambio di Cartwright, un giocatore sicuramente non nelle sue corde. Krause invece ha sempre respinto l’auctoritas con cui Jordan ha cercato di intromettersi a suo piacimento nelle scelte societarie, portando a Chicago proprio il non gradito Sellers quasi per indispettire ulteriormente la stella di Chicago.
Anche da questa continua tensione e da questo odio/amore fra due personalità forti come Jordan e Krause sono nati tutti i successi dei Bulls degli anni ‘90. Ma questa è un’altra storia. Ora siamo ancora nella fase embrionale del burrascoso rapporto fra il giocatore e il G.M. che si porta dietro un carico di azioni e reazioni caratterizzati da una poco lodevole ma al contempo efficace volontà di dominanza.
Azione: tiro decisivo di Jordan rimasto nella storia.
Reazione: pubblica enfasi al passaggio smarcante (…) di Sellers. Semplice e spietato. Ma vincente, alla lunga porterà i suoi frutti.
FRAGMENTS OF MEMORIES
Esattamente il 7 maggio di un’anno fa, in occasione dei 30 anni ricorsi dal giorno dell’iconica azione, intervistati da John Blanchette su “The Spokesman” Ehlo e Wilkens si mettono a
nudo. Per il modo in cui quell’azione è rimasta nella storia del basket e nell’immaginario sportivo Ehlo si aspettava di essere contattato e confessa la sua felicità di esserne stato coprotagonista. Un sentimento che sicuramente non nasce subito dopo “The Shot”, mentre Jordan a pochi metri di distanza lancia furiosamente pugni all’aria come a scacciare demoni immaginari, ma nel lungo periodo. Quando poco alla volta si rende consapevole di avere avuto un ruolo nella storia del Gioco. D’altra parte “se hai contro Jordan e sei un concorrente, vuoi quella sfida”dice Ehlo.
Wilkens invece apprezza il ruolo di collante che il biondo giocatore di Washington State è stato per le squadre che ha allenato anche nel decennio successivo, nello specifico Cleveland e Atlanta. Nel ‘93 infatti passano entrambi agli Hawks e rimangono insieme fino al 1996. Anno in cui le carriere dell’allenatore e del giocatore di separano, prendendo direzioni differenti.
Wilkens, che ora ha 82 anni e vive a Seattle, ha detto di Ehlo:
“È uno di quei ragazzi che volevi solo nella tua squadra. Era versatile e ha messo tutto lì fuori. Si rese conto che doveva lavorare per essere bravo e così fece, e non pensò mai di averlo fatto”.
Aggiungendo:
“Michael avrebbe segnato. Craig lo ha fatto lavorare più duramente di quanto avrebbero fatto altri ragazzi, non dandogli niente di facile. Il problema era che abbiamo lasciato a Michael troppo tempo. Tre secondi per un giocatore con il talento e la creatività di Jordan corrisponde a un eone.”
Ehlo dal canto suo ha ammesso:
“Quando è andato a prendere il passaggio, stavo correndo invece di scivolare e quando sono arrivato accanto a Michael, lui stava già tagliando e il mio slancio mi stava allontanando da lui. Stavo ancora inseguendo quando è andato a tirare.”
A dirla tutta Wilkens avrebbe avuto anche un’altra opportunità, posizionando Harper su Jordan che fino a quel momento lo ha ben limitato quando chiamato in causa. Nella 3° puntata della serie “The Last Dance”, da poco uscita su Netflix, Harper confessa la sua sorpresa nella scelta difensiva del coach dei Cavaliers. Anche se il termine sorpresa appare abbastanza riduttivo in quanto Harper, sia allora a caldo davanti le telecamere che durante l’intervista registrata quasi trent’anni dopo, appare decisamente stizzito da quella scelta, poi rivelatasi errata.
Ehlo dal canto suo, come riferito in un’intervista rilasciata il 30 aprile 2020, conferma la buona volontà della scelta del coach e si smarca con una schietta dichiarazione di innocenza sottolineando che “Non ho mai detto di essere un Jordan stopper come Gerald Wilkins o altri” puntualizzando però sul fatto che “quando eravamo in campo contemporaneamente, senza neanche pensarci, io mi prendevo cura di Jordan in modo tale che lui (Harper), anche se non era un cattivo difensore, potesse riposarsi nella fase difensiva e concentrarsi sull’attacco.”
A posteriori comunque, almeno da ciò che emerge dall’intervista rilasciata a The Spokesman,l’allenatore non sembra dare a questa opzione il greve peso del rimpianto e in questi casi come in tanti altri è meglio non spendere troppo tempo in what-if.
Dopotutto Ehlo è stato colui che in virtù della sua difesa ha reso necessario “The Shot”. Non ci sarebbe stato la necessità di un’impresa sportiva del genere se l’avversario non ne fosse stato all’altezza.
GOOD VIBRATIONS
C’è qualcosa nell’equilibrio fra meccanizzazione e improvvisazione di un gesto nel corpo dell’atleta che il Gioco non riesce a preconizzare e ad anticipare con certezza. L’atleta trovadi volta in volta un modo nuovo e inedito di approcciare la stessa azione che ha già ripetuto milioni di volte, in allenamento o in partita. Delle innumerevoli variazioni sul tema quasi fossero di stampo musicale, come le classiche 30 Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach per intenderci. O come parafrasando il testi della canzone dei Beach Boys “I’m pickin’ up good vibrations”.
Trovare infatti è una parola che è entrata nella nostra “lingua del sì” a partire dalla sua origine in campo musicale. Trovare significa, come trasmettono i filologi romanzi, inventaretropi,cioè variazioni ed è l’arte che appunto, originariamente, i trovatori e gli autori dellechanson de geste dovevano padroneggiare per avere sempre l’intuizione narrativa corretta e dire in un modo migliore una cosa che era già stata detta.
Allo stesso modo un atleta del calibro di Jordan, con la propria autoconsapevolezza fisica e mentale, conosce già una molteplicità di schemi possibili inseriti nel suo set di movenze su cui si basa quando gioca e che sono piuttosto riconoscibili. Eppure, quando scende in campo ed esegue quelle stesse azioni, che il pubblico già si aspetta e che ha già imparato a conoscere entro certi limiti, in qualche modo riesce a improvvisare, trovando soluzioni e varianti che appaiono di volta in volta nuove e altrettanto letali. Possibili prosecuzioni alternative di movimenti già visiti oppure spunti per inventarne (dal latino invenio, che significa trovare) nuove e solo leggermente dissimili dalla vecchie, ma proprio per questo ancora più spiazzanti.
A Ehlo quella sera, ma come ha già fatto molteplici volte in precedenza prima di quell’occasione, è stato affidato l’ingrato compito di capire con anticipo la risposta giusta da contrapporre all’ultima invenzione di Jordan della partita. Si può dire che ci sia quasi riuscito, difendendo con caparbietà e sagacia ma fermandosi solo davanti all’inaspettato: ovvero quella piccola esitazione che Jordan ha eseguito, nel culmine del salto, mandandolo di fatto fuori tempo. Non si può essere preparati a tutto, non si può essere pronti a ogni possibile variante. Si può solo allenare mente e corpo affinché siano entrambi pronti a capire all’istante quale difesa contrapporre. Improvvisando, trovando,a propria volta l’invenzione difensiva corretta. Che può essere simile ad una già adottata in precedenza o solo leggermente e apparentemente diversa.
Sicuramente, non ci sarebbe potuto essere un “The Shot” o un “The Last Shot”, e un’epica sportiva a certificare per sempre la legacy di Jordan, se contro di lui non ci fossero stati i vari Ehlo (o i Bryon Russell della seconda metà anni ‘90) e portare la leggenda e la narrazione sportiva e umana Jordaniana a un livello superiore. Ci sono voluti anche loro, uomini, giocatori, che hanno cercato di ostacolare ciascuno a modo proprio l’ineluttabilità di quei momenti e loro malgrado anche l’iconicità di quelle azioni, passando per il lato più arduo della storia. Sicuramente non quello sbagliato ma quello complementare a chi vince.
Grazie Craig, è anche alla tua versione di questa storia che dobbiamo la leggenda di Michael Jeffrey “Air” Jordan from North Carolina.
POST SCRIPTUM
Nel 2006 il salto di Jordan e la reazione di Ehlo furono ricreati ad hoc per lo spot TV della Nike intitolato “Second Generation”, diretto da Brian Beletic per l’agenzia Wieden+Kennedy e lanciato in occasione della commercializzazione delle Air Jordan XXI.
Al secondo 0:34 si possono nuovamente rivivere le emozioni suscitate da quei due gesti uno complementare all’altro, l’ascesa del primo e il crollo del secondo. Assieme a molte altre azioni di MJ che ogni amante della pallacanestro ha imparato col tempo a conoscere e riconoscere, ricreando in maniera del tutto personale un film interiore fatto di tante istantanee fotografiche e frammenti di memorie che si associano una all’altra e che, giocando, si prova continuamente a ricostruire e imitare.
In questo modo ciascuno di noi ha creato la propria idea di pallacanestro, facendo parlare il nostro gioco.
Imitando e creando nuove soluzioni e in fin dei conti trovando il nostro modo di stare su un campo da basket.