illustrazione grafica di Paolo Mainini

 

 

Aereo degli Houston Rockets per Seattle, novembre 1999, la regular season è appena iniziata.

Rudy Tomjanovic ha sempre fatto della chimica di squadra uno dei suoi punti di forza, riuscendo sempre a fare coesistere personalità difficili all’interno del proprio spogliatoio.

Steve Francis da Maryland fu la seconda scelta assoluta al Draft NBA del 1999, e fin da subito ebbe un impatto importante sui Rockets.

Su quel volo per Seattle un saggio uomo di origine africana venne fatto sedere da Rudy T a fianco del giovane e problematico rookie, che fino a quattro anni prima era uno spacciatore di crack a Takoma Park, Maryland.

Il saggio uomo proveniente dall’Africa, e più precisamente da Lagos, Nigeria, era Hakeem Abdul Olajuwon, ovvero colui che durante i voli se ne sta in silenzio al suo posto leggendo il Corano, e incidentalmente uno dei centri più dominanti e tecnicamente dotati della storia NBA.

Steve Francis, con le cuffiette ascoltando Jay-Z, vede la leggenda sedersi di fianco a lui, intenzionato a parlargli.

 

“Hey Dream, come va?” Cominciò la conversazione Francis, già un po’ a disagio.

“Steve” disse Olajuwon, con la sua voce baritonale.

“Dimmi Dream”.

“Steve, sei arrivato vestito come un autista di autobus”.

“Dai Dream…”.

“Cosa sono queste scarpe antinfortunistica che hai?”.

“Sono Timberland, Dream…”

“Steve, fatti aiutare, vieni dal mio sarto, ti farà dieci vestiti su misura, di cashmere”.

“Dai Dream…”.

“Cashmere, Steve”.

“Dream, io….”.

“Vieni con me Steve, vieni dal mio sarto”.

 

Fine della conversazione.

The Dream ricominciò a leggere il Corano, Maometto aveva parlato attraverso il suo apostolo, e Steve Francis rimase basito.

Foto ESPN

Pochi altri giocatori nella storia della NBA hanno avuto l’eleganza, l’educazione, la signorilità, la compostezza e la cultura di Hakeem Olajuwon fuori dal campo, e la varietà di movimenti offensivi, la tecnica, la costanza, la durezza mentale e l’incisività difensiva sul campo.

Hakeem (in realtà era Akeem all’inizio, senza la H, aggiunta al suo nome solo nel 1991) non ha mai toccato un pallone da basket fino ai 15 anni, quando prese confidenza con la palla a spicchi in maniera del tutto casuale, rappresentando la propria scuola superiore, la Muslims Teachers College di Lagos, alla All Nigerian Teachers Sports Festival a Sokoto, nel nord del paese.

La curiosità è però che Hakeem era a quel torneo per rappresentare la sua scuola giocando nella squadra di pallamano. Un giocatore della squadra di basket, vista l’atletismo e la fisicità di Olajuwon, ebbe l’intuizione di proporre al proprio coach di chiedergli di giocare anche a basket.

E così nacque la stella Hakeem Abdul Olajuwon.

Pallamano e calcio erano stati i suoi sport fino a quel momento (giocava portiere, cosa che gli ha insegnato ad avere una naturale mobilità laterale, una manna dal cielo per gli scivolamenti difensivi e per i movimenti in post basso nel basket), ma nel giro di due anni Hakeem divenne un prospetto cestistico di primissimo livello, ricevendo una borsa di studio dalla Houston University.

Foto di Focus on Sport/Getty Images

La famiglia di Hakeem, e soprattutto il padre Salim, non erano per niente contenti del suo trasferimento negli Stati Uniti, Salim era ancora convinto che il figlio sarebbe rimasto con lui a Lagos ad aiutarlo nella sua impresa di costruzioni edili, e ogni volta che il suo allenatore andava a trovare Hakeem per parlare con suo padre di quanto meravigliosa poteva essere la sua esperienza all’università americana, Salim era educato e accondiscendente con il coach, ma appena se ne andava diceva a Hakeem “tu non andrai mai negli Stati Uniti”.

Piano piano tutta la famiglia si convinse che era la soluzione migliore per tutti, che Hakeem accettasse la borsa di studio. Ad aiutare la decisione vi fu anche la massiccia presenza di studenti nigeriani negli States e una forte comunità a Houston, cosa che tranquillizzò un minimo Salim, e che proiettò Hakeem nel mondo del basket.

Nonostante avesse cominciato a giocare solo pochi anni prima, già dal suo anno da freshman a Houston Hakeem dimostrò immediatamente di avere tecnica, attitudine, talento, fisico e leadership per dominare.

E soprattutto aveva fame di competizione.

Più si vedeva rapido nell’assimilare i nuovi rudimenti di quel gioco che aveva imparato ad amare, e più le sue motivazioni crescevano, più la fame di apprendere cresceva, più gli allenamenti, le nozioni, i movimenti si facevano duri e difficili, e più Hakeem settava il proprio nuovo limite.

Un pozzo senza fondo di apprendimento.

Al suo arrivo a Houston, Hakeem venne sapientemente affiancato nel lavoro in off-season dal veterano Moses Malone, che fino all’anno prima era il centro dei Rockets, che aveva portato alla finale NBA nel 1981, sconfitti dai Boston Celtics, un mentore dentro e fuori dal campo che aiutò il 34 da Lagos, assieme alle massicce e intense sedute in sala pesi (Hakeem dal suo arrivo acquistò 20 chili di muscoli nei suoi primi due anni di college) a prendere confidenza con i movimenti da centro puro sia offensivi sia difensivi.

Si può affermare che la tecnica di Hakeem è stata quasi interamente costruita e affinata grazie al lavoro di Moses Malone, che peraltro ha avuto materiale grezzo di ottima qualità, su cui lavorare.

Foto di ESPN

Dan Peterson, durante la cronaca delle Final Four NCAA 1984, disse:

“Non trovo difetti in Akeem, né in difesa né in attacco, se non l’abitudine a giocare in difesa a zona 2-3”.

Nella NBA non era ancora permesso marcare a zona, quindi la abitudine ad essere per tre anni il perenne centro in mezzo all’area di una classica difesa a zona avrebbe potuto essere un problema, almeno inizialmente, ma Olajuwon si adattò molto presto anche alla marcatura a uomo, sempre grazie ai dettami di Moses Malone.

Per i tre anni con lui in squadra, i Cougars erano spettacolari, soprannominati “Phi Slama Jama”, ispirati dai classici nomi delle confraternite universitarie, una confraternita che faceva del gioco sopra il ferro e delle schiacciate il proprio marchio di fabbrica.

Negli anni di Olajuwon, la Houston University raggiunse le NCAA Final Four ogni singola stagione, senza però mai vincere il Titolo, sconfitti nel 1982 in semifinale da North Carolina (con James Worthy e Michael Jordan), nel 1983 in finale dalla magica North Carolina State di Jim Valvano, e nel 1984 ancora in finale dalla Georgetown di Patrick Ewing.

Foto di NBA

In due dei suoi tre anni a Houston University il suo compagno di scorribande era Clyde Drexler, con cui si ricongiungerà 12 anni dopo per il secondo titolo dei Rockets, in una sorta di cerchio che si chiude finalmente con una vittoria che ai Cougars non era mai arrivata.

Nella sua stagione da junior alla Houston University, nonostante la delusione della sconfitta in finale contro Georgetown, Hakeem totalizzò una media di 16.8 punti a partita, terminando la stagione come il miglior rimbalzista (13.5 di media a partita), il miglior stoppatore (5.6 stoppate di media) e con la più alta percentuale realizzativa (67.5%) di tutta la NCAA.

La Draft Lottery Pick iniziò solo nel 1985, quindi nel 1984 vi fu il sorteggio tra Houston Rockets e Portland Trail Blazers a definire chi avrebbe avuto la chiamata Numero Uno e il sorteggio premiò ancora una volta i Rockets (che vinsero il sorteggio già l’anno prima con gli Indiana Pacers, accaparrandosi la prima chiamata con Ralph Sampson).

Houston chiamò con la Numero 1 al Draft del 1984 Hakeem Olajuwon, mantenendolo nel suo ambiente naturale texano, creando il combo sotto canestro con Ralph Sampson, istituendo le famose e famigerate Twin Towers.

Alla Numero 2 i Blazers chiamarono lo sfortunato philadelphiano Sam Bowie da Kentucky, che non ebbe mai un impatto nella NBA a causa degli infortuni e della tendenza ad ingrassare, mentre alla Numero 3 i Chicago Bulls chiamarono Michael Jordan, alla 5 Philadelphia chiamò Charles Barkley e alla 16 Utah chiamò John Stockton, in un Draft di tutto rispetto (per usare un eufemismo).

Foto di Noren Trotman/Getty Images

Allenati da Bill Fitch, i Rockets passarono da un record perdente (29-53) nella stagione 1983/84 ad un record largamente vincente nella stagione successiva con Hakeem in squadra, un 48-34 che valse a Houston il ritorno ai Playoff, eliminati però al primo turno 2-3 dagli Utah Jazz. Hakeem si piazzò secondo dietro Michael Jordan nel contest per Rookie of the Year, ed ebbe un impatto fortissimo sul gioco di Houston, divenendo fin dalle prime partite il leader indiscusso della squadra, non solo nelle cifre (20.9 punti, 11.8 rimbalzi di media a partita, con il 54 per cento dal campo) ma anche nello spogliatoio.

Il secondo anno di Hakeem fu quello di massimo splendore delle Twin Towers, con Olajuwon al centro e Ralph Sampson come ala grande a dominare sotto canestro contro praticamente tutti gli avversari.

Foto di NBA

I numeri del nigeriano furono ancora una volta eloquenti, 23.5 punti, 11.5 rimbalzi, 3.4 stoppate di media a partita, un dominio fisico e tecnico di praticamente tutti i propri avversari diretti, aiutato anche dalla velocità in campo aperto del collega di reparto Ralph Sampson, che dava al gioco di Fitch una dimensione di velocità devastante, per una batteria di lunghi poderosa, tecnica, veloce e versatile.

I Rockets vinsero la Midwest Division, e dopo aver eliminato i Sacramento Kings e i Denver Nuggets sbaragliarono 4-1 anche i favoritissimi campioni in carica, i Los Angeles Lakers, con la vittoria allo scadere in Gara 5 al Forum di Inglewood, la famosa “voleè” di Ralph Sampson su rimessa di Rodney McCray con un secondo sul cronometro, con la palla che danzò sul ferro e si insaccò nel cesto.

I Rockets però non ebbero la forza di superare i Boston Celtics nella Finale, soccombendo 2-4 sotto i colpi di Larry Bird, Robert Parish, Dennis Johnson e Kevin McHale, ma per Hakeem la strada che portava alla vittoria sembrò essere in discesa.

Al suo secondo anno NBA Olajuwon era già un leader e un dominatore, e con quella squadra poteva veramente avere la chance di fare incetta di Titoli.

Foto di slam.com

Invece non fu così.

La strada verso la vittoria per il centrone da Lagos fu molto più lunga, ardua e tortuosa del previsto.

Nella stagione successiva Sampson cominciò a soffrire di infortuni alle ginocchia e alla schiena, portando Houston nel 1987/88 a scambiarlo con Golden State in cambio di Sleepy Floyd e Joe Barry Carroll, dividendo così le Twin Towers. Anche grazie a questo Hakeem prese definitivamente in mano le redini della propria squadra e della carriera, affermandosi nelle stagioni successive come uno dei più forti giocatori della Lega. Olajuwon fu il leader dei Rockets in 13 categorie statistiche, punti segnati, rimbalzi, stoppate, palle recuperate, minuti giocati e tante altre voci.

Foto di HoopsHype

Nelle stagioni successive Hakeem fu tre volte All NBA First Team, tre volte All Defensive First Team, quattro volte titolare allAll Star Game, miglior rimbalzista e miglior stoppatore per due stagioni consecutive, fu il primo giocatore nella storia della NBA ad essere nella Top 10 in punti, rimbalzi, recuperi e stoppate per due stagioni consecutive, e fu uno dei quattro giocatori nella storia NBA a totalizzare una quadrupla doppia, in punti, rimbalzi, assist e stoppate.

Questo era Hakeem Olajuwon fino ai primissimi anni novanta. Un giocatore totalmente dominante, ma che in quelle NBA Finals del 1986 aveva perso il primo e forse ultimo treno per la vittoria, treno arrivato quando era troppo giovane ma che comunque lo colse pronto e preparato.

I Rockets infatti negli anni successivi non furono più all’altezza della squadra con le Twin Towers, e dopo alcune apparizioni ai playoff condite da delusioni e quasi sempre da meste uscite al primo turno, Hakeem era frustrato. Vi fu un lungo braccio di ferro tra lui e il front office, Hakeem voleva andarsene senza mezzi termini, sia perché il suo contratto non era adeguato al proprio status di superstar, sia perché Houston stava sprecando i suoi anni migliori forzandolo a rimanere in una squadra senza prospettive.

Le stagioni 1990-91 e 1991-92 segnarono i momenti più bassi della sua carriera, fuori per infortunio per 26 partite a causa di una gomitata allo zigomo regalatagli da Bill Cartwright, multato e sanzionato dai Rockets per presunta finzione di infortunio, un continuo botta e risposta via TV e stampa su quanto fossero distanti le posizioni tra lui e il club a riguardo di futuro, contratto e attitudine, l’addio a Houston sembrava già essere segnato, tanto che un po’ ovunque i giornali titolavano con “Dream Ends”, il sogno finisce.

Molti giocatori, anche dominanti, alla soglia dei trent’anni hanno avuto il proprio momento critico, un turning point di carriera dal quale spesso sono usciti sconfitti, per mancanza di motivazioni, per appagamento, per infortuni, per vizi malcelati, o più semplicemente perché il fuoco sacro della competizione non bruciava più dentro di loro.

Questo ad Hakeem non accadde.

La sua fortuna fu l’approdo nel ruolo di head coach di Rudy Tomjanovich, che a metà della stagione 1991-92 subentrò a Don Chaney, dando ai Rockets la sferzata di cui avevano bisogno, di cui Hakeem aveva bisogno. Poco prima dell’inizio della stagione 1992-93 Olajuwon e il front office dei Rockets riuscirono finalmente ad accordarsi per un nuovo contratto, e per Hakeem, per i Rockets e per la città di Houston fu come una liberazione. Hakeem sembrò disinnescare il freno a mano tirato, e nonostante il già lungo chilometraggio di leadership e statistiche, snocciolò una serie di fantastiche stagioni inarrivabili, anche grazie al nuovo motto di Rudy Tomjanovich, ovvero “Defense and feed Hakeem”. Difendere duro e servire Hakeem ad oltranza, questa era la idea vincente di Coach Rudy T, e tutto funzionò alla perfezione.

Foto di hdnux.com

I Rockets passarono da una stagione fuori dai playoff con un record di 42-40 (1991-92) ad una stagione da 55 vittorie e 27 sconfitte, riuscendo a superare il primo turno di playoff dopo sei lunghi anni, sconfiggendo i Los Angeles Clippers ma venendo poi eliminati nelle semifinali di Conference dai Seattle SuperSonics, dopo una battaglia durata 7 tiratissime partite, battaglia culminata nella sconfitta 103-100 all’overtime contro i giovani ed esplosivi Gary Payton e Shawn Kemp.

Ma la cosa più importante era che Hakeem era tornato, e più forte di prima.

Nell’immaginario generale, e anche per sua stessa ammissione, Hakeem Olajuwon è riuscito a rendere al massimo, forse più di altri giocatori, anche grazie alla sua fede incrollabile nella religione. Mussulmano praticante, Hakeem durante il Ramadan giocava, se possibile, con ancora più intensità e ferocia.

Durante le partite pomeridiane (il Ramadan impone il digiuno dall’alba al tramonto sia per cibi sia per bevande, per 29 o 30 giorni in occasione del nono mese del calendario islamico), Olajuwon rimaneva senza mai bere una singola goccia d’acqua per tutta la partita, persino durante i time out. A riguardo di questo, Hakeem dichiarò:

“Durante il Ramadan sono sempre stato pieno di energia, addirittura più esplosivo del solito. E quando arrivava il tramonto e potevo bere, mi accorgevo di quanto preziosa fosse ogni singola goccia d’acqua. Quel momento era la motivazione più importante del giorno della partita”.

Le sue statistiche nelle partite giocate durante il Ramadam

Nella stagione 1992/93 le sue statistiche migliorarono sensibilmente, soprattutto in attacco, passando da 21.6 a 26.1 punti a partita, e con una migliore percentuale, da 50% a 53%. Hakeem era pronto, e il proprio cast di supporto pareva essere all’altezza. Otis Thorpe e Vernon Maxwell erano due grandi realizzatori, Kenny Smith in regia dettava sempre i tempi giusti, e la crescita del giovane Robert Horry da Alabama e del journeyman Mario Elie diedero ai Rockets una solidità e una fiducia nei propri mezzi infinite.

Anche se tutto girava sempre intorno a Hakeem.

Lui e i suoi celestiali movimenti in attacco erano un rebus irrisolvibile per tutti i centri della Lega, tutti, vecchi e giovani, Patrick Ewing, Alonzo Mourning, Dikembe Mutombo, David Robinson, Shaquille O’Neal, nemmeno le ali forti e fisiche del tempo, Karl Malone, Dennis Rodman, Charles Oakley riuscivano a contenerlo.

Nessuno poteva competere con la varietà di movenze di Olajuwon. Il suo movimento principe, il Dream Shake, divenne un marchio di fabbrica e il più temuto dagli avversari.

Praticamente tutti i suoi avversari sono caduti almeno una volta nella trappola del Dream Shake o in una delle sue varianti. La cosa più importante, e che pochi centri riescono tuttora a fare, è essere perfettamente cementati a terra con il piede perno. Ricevuta palla in post basso, con un palleggio di avvicinamento Hakeem battezzava solidamente un perno, il più delle volte il sinistro ma senza disdegnare il destro, e partiva con alcune varianti, ovvero fintare disegnando un semicerchio con il larghissimo compasso delle sue gambe per poi ritornare indietro e partire con un fade away jumper oppure fintarlo, ed eventualmente aggiungere una finta di tiro con spalle e avambraccio per indurre l’avversario a saltare, e una volta che il malcapitato era in aria avendo abboccato alla finta appoggiare a canestro in avvicinamento.

Il tutto eseguito con la sua velocità e la maestria nell’uso dei piedi, condito da un’eleganza innata e da una devastante efficacia.

“Solve Hakeem? You don’t solve Hakeem”, queste furono le lapidarie parole di un mesto David Robinson dopo l’ennesima sfida persa dall’Ammiraglio contro di lui, e mai affermazione fu più veritiera di questa.

La stagione 1993-94 sembrava essere la stagione del destino, ma non per i Rockets, per i New York Knicks. La squadra del destino, è tempo per loro, la città lo merita, dicevano tutti. “E’ tempo di Double” titolavano i giornali newyorkesi durante quella primavera di passione 1994, con i New York Rangers che si dividevano il Madison Square Garden con i Knicks per le infuocate partite di playoffs.

Hakeem guidò i Rockets ad una stagione da 58 vinte e 24 perse, incrementando ancora di più la propria media realizzativa, attestandosi sul 27.3 punti di media a partita.

Houston era pronta per i playoff, e una dopo l’altra fece fuori le avversarie, 3-1 al primo turno i Portland Trail Balzers, 4-3 al secondo eliminando i campioni in carica della Western Conference Phoenix Suns, 4-1 gli Utah Jazz di John Stockton e Karl Malone, arrivando alle Finals per affrontare la squadra del destino, i temibilissimi Knicks di Patrick Ewing.

Foto di NBA

Furono sette partite tiratissime, che videro però i Knicks godere sempre dei favori del pronostico. Allenati da Pat Riley, New York era una squadra spigolosa, con Patrick Ewing, Charles Oakley, Anthony Mason, Derek Harper e John Starks, tutti giocatori duri e capaci di giocare fisicamente al limite e anche oltre.

Le intimidazioni su Hakeem non funzionavano, il gioco fisico su di lui non funzionava, non c’era assolutamente verso di limitarlo o di contenerlo. Ogni gara fu una battaglia ma dopo cinque partite i Knicks erano avanti 3-2, con le due ultime partite rimanenti da giocare al Summit di Houston.

Foto di Bill Baptist/Getty Images

Forse New York soffrì troppo la pressione mediatica a riguardo del Double cittadino, perché i Rangers di Mark Messier e Brian Leetch vinsero qualche giorno prima la Stanley Cup in sette tirate partite contro i Vancounver Canucks. I Knicks infatti dopo la vittoria in Gara 5 al Garden, vennero sconfitti nelle due successive gare al Summit di Houston, 86-84 Gara 6 e 90-84 Gara 7 in favore dei texani, consegnando nelle mani di un monumentale Hakeem Olajuwon il Titolo NBA.

Ovvio e naturale MVP delle Finals, Olajuwon aveva finalmente coronato il proprio sogno, vincere un Titolo NBA a distanza di 8 anni dalla sua prima Finals persa contro i Celtics. Hakeem incrementò sensibilmente il proprio rendimento nelle 23 partite di Playoff, 28.3 punti e 4 stoppate di media a partita, una presenza totale e costante su entrambi i lati del campo, punto di riferimento e faro illuminante dei neo Campioni NBA.

Ma Hakeem non ne aveva ancora abbastanza.

Il Re-Peat è difficilissimo, si sa, soprattutto per una squadra che compie un exploit con una sola vera superstar in campo, seppur ovviamente circondata di ottimi giocatori.

Nella stagione successiva i Rockets tentarono l’All In, cercando in extremis un colpo a sorpresa, consapevoli del bisogno di un’altra superstar da affiancare a Hakeem. Nella sessione di mercato di febbraio infatti portarono a Houston Clyde Drexler da Portland, in cambio di Otis Thorpe.

Foto di slam.com

Ormai nella parabola discendente della carriera, The Glide, vecchio compagno di squadra di Olajuwon alla Houston University, aveva comunque ancora parecchie cartucce da sparare a livello di esperienza e talento, pur soffrendo di un logico e naturale calo di esplosività fisica. Non fu una stagione facile nemmeno dopo l’arrivo di Drexler, che non ebbe l’impatto sperato dal front office dei Rockets, perlomeno all’inizio. Houston si piazzò solo al Sesto posto nel Playoff Seed della Western Conference, con un record di 47-35, mentre i San Antonio Spurs di David Robinson e Dennis Rodman snocciolarono una stagione da 62 vinte e 20 perse, veri e unici favoriti per la vittoria finale, visto che nella Eastern non vi era una vera e propria favorita. Era si tornato Michael Jordan, ma ancora non aveva il ritmo stagionale e oltretutto ai Bulls mancava Horace Grant, un giocatore capace di proteggere le proprie superstar.

Man mano che l’importanza delle partite aumentava, i Rockets sembravano essere sempre più uniti compatti e coesi. Ai playoff eliminarono al primo turno gli Utah Jazz, al secondo i Phoenix Suns, arrivando a giocarsi la finale di Conference contro i super favoriti San Antonio Spurs.

Dennis Rodman, nel suo libro Bad as I Wanna Be, parlò di quelle Western Conference Finals, e non usò di certo parole tenere nei confronti del suo ex compagno di squadra David Robinson:

“Robinson voleva vincere il Titolo ma non aveva le palle per farlo. Era sistematicamente mangiato vivo da Hakeem Olajuwon, e chiedeva il mio aiuto. ‘Potete aiutarmi se volete’ diceva nei time out. Che si fotta”.

1…
2…
e 3…

Questa fugace testimonianza per dire che a questo livello non bastano l’immenso talento, lo strapotere fisico, la disciplina militare intrinseca e la faccia giusta. Oltre a tutto questo devi anche e soprattutto avere motivazioni, personalità e PALLE. Vincere dev’essere OGNI COSA, per il leader di una squadra degno di questo nome. E Hakeem lo era, sempre pronto a prendersi le proprie responsabilità, pronto ad esserci nei momenti chiave della partita, pronto e desideroso di prendersi la squadra sulle spalle, per essere di esempio e da traino a tutti e per tutti.

Questo faceva un leader, e questo faceva lui.

I Rockets eliminarono gli Spurs 4-2, con Olajuwon che finì la serie con 35.3 punti di media a partita, contro i 25.5 di media del più conclamato ma annichilito David Robinson.

Dopo quella Serie di Western Conference Final dove i Rockets eliminarono i favoriti Spurs, nelle NBA Finals Houston si trovò a giocare contro i giovani e rampanti Orlando Magic dell’esplosivo Shaquille O’Neal.

Foto di Fernando Medina/Getty Images

Furono storiche le parole di Shaq a riguardo di quella Finale:

“Avevo il mondo nelle mie mani, in area ero nel mio ambiente, e non c’era nulla che potesse intimidirmi. Ero io che intimidivo gli altri, una gomitata, un canestro, e bum, era fatta, erano miei. Con Hakeem però era impossibile. Primo gioco della Finale, ho la palla in post basso, gli dò una forte gomitata per prendere posizione e segnare il mio territorio, jump hook e segno. Lo guardo con soddisfazione, lui non dice niente, e sorride. Dall’altra parte sfodera subito uno dei suoi venti movimenti d’attacco e segna. E mi dice ‘questa è per te, Big Fella’. Mi si è gelato il sangue. Ho subito cercato di restituirgli il favore, ma non ci sono riuscito, non ci sono più riuscito”.

I quattro tiri liberi consecutivi sbagliati dalla guardia dei Magic Nick Anderson con 7.9 secondi da giocare in Gara 1, con Orlando in vantaggio 110-107 (ne sarebbe bastato uno) hanno sicuramente aiutato Hakeem e i Rockets a partire con il piede giusto in quelle Finals, vincendo al supplementare Gara 1 in trasferta nella bolgia della Orlando Arena, ma già da Gara 2 fu chiaro che questi Rockets avevano una marcia in più.

La leadership, l’esperienza e la solidità mentale di Olajuwon fu contagiosa per tutti i suoi compagni, che giocarono una serie magistrale e spazzarono via in quattro partite i Magic, conquistando, contro ogni pronostico pre-playoff, il Titolo NBA per la seconda volta consecutiva.

Ovviamente Hakeem fu nominato MVP delle Finals, concludendo la sua campagna playoff con 33 punti, 10.3 rimbalzi, 4.5 assist, 1.2 rubate e 2.8 stoppate di media a partita, tirando con il 53% dal campo. Un’altra ennesima prova di dominio totale da parte di Hakeem, ma con una discriminante fondamentale che è bene sottolineare: le sue cifre sono cifre da leader, non sono cifre di un giocatore egoista che pensa ai propri numeri per poi richiedere un contratto più remunerativo nelle successive stagioni, e nemmeno cifre di un talentuosissimo perdente, uno di quelli mal supportati dai compagni di squadra, che segna valanghe di punti in un classico losing effort. Sono cifre da dominatore perfettamente al servizio della squadra, con in testa un unico obiettivo, vincere.

Il back to back quindi era servito, per Houston, Hakeem aveva finalmente dimostrato di essere un vincente e un duro, dominando tutto e tutti, riuscendo a redimersi dopo le stagioni in tono minore a cavallo del 1990, scolpendo il proprio nome nella storia della NBA in mezzo a tutti i veri vincenti del gioco.

The Dream giocò ancora ad altissimo livello per altre 7 stagioni, provando fino in fondo assieme ai suoi Rockets a ritrovare una giusta armonia attorniandosi di stelle sempre però un po’ in declino, come accadde con l’arrivo di Charles Barkley nella stagione 1996-97, e quello di Scottie Pippen nella stagione accorciata 1998-99. In queste occasioni però non riuscì mai a ripetere i fasti delle due Finali vinte, arrivando al massimo alla Western Conference Finals nel 1997, eliminati dagli Utah Jazz di John Stockton e Karl Malone.

Foto di Bleacher Report

Hakeem giocò fino a 39 anni, quando concluse la propria carriera in Canada con la canotta dei Toronto Raptors, ormai fisicamente indebolito dal lungo chilometraggio e dai problemi alla schiena.

Foto di NBA

Le ultime 61 gare in NBA le giocò lontane dalla sua Houston e con statistiche di gran lunga inferiori alla eccellenza a cui aveva abituato il popolo texano, ma nonostante ciò ovviamente i Rockets non si dimenticarono di lui. Il 9 novembre 2002 la sua Canotta Numero 34 venne ritirata dai Rockets, come giusto tributo a tutto ciò che Hakeem ha dato alla città e alla squadra.

Oggi Hakeem è uno dei preparatori più accreditati delle off season per i giocatori che, assieme a lui e seguendo i suoi dettami, vogliono cercare di migliorare la propria tecnica e il proprio lavoro di piedi e gambe in post basso. Con lui hanno lavorato grandi nomi come Kobe Bryant, Shaquille O’Neal e Dwight Howard, ma anche molti altri come Amar’e Stoudemire, Andre Drummond, Greg Monroe o Jonas Valanciunas.

Altri giocatori di massimo livello come Joel Embiid si ispirano totalmente ed apertamente alle sue movenze, tra l’altro ben riconosciute, ammirate ed approvate dallo stesso Hakeem, chiaro sintomo di quanto questo saggio uomo di origine africana abbia lasciato il segno nella storia della NBA.

Foto di eduardodiazmunoz.com
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