illustrazione grafica di Paolo Mainini

 

 

Ready or not?

Il 31 ottobre 1997 Bill Berry ha annunciato da pochi giorni il suo addio ai R.E.M., ma in Italia la notizia è appena arrivata, insieme a quella dell’avvio di una nuova stagione NBA che si annuncia ancora una volta sotto il segno dei Chicago Bulls, freschi bicampioni e pertanto ufficialmente a caccia del repeat the threepeat. Nella remota ipotesi in cui non abbiate visto The Last Dance, non vi spoileriamo il finale. E in ogni caso, non è di Jordan e soci che parleremo oggi.

La prima volta che è giunta notizia di Tracy McGrady al sottoscritto è stato in un vecchio numero di American SuperBasket in cui veniva riportato un suo virgolettato, risalente alle interviste prima del Draft, in cui diceva di sé qualcosa come “Sono due metri ma posso anche portare palla, potrei diventare una sorta di Penny Hardaway”. Mettiamo un momento nel contesto la frase:  nel 1997 Penny è forse il terzo giocatore più popolare della NBA dopo Jordan e Shaquille O’Neal, o comunque siamo lì. Viene da tre stagioni consecutive in cui è stato all-star e all-NBA. T-Mac è “solo” un prospetto che viene dalla high school in un momento in cui dalla High School alla NBA erano passati solo in tre, di cui due erano pronti per il salto e il terzo già un po’ meno. Tutti gli analisti, gli esperti e gli appassionati aspettavano al varco il numero 1 dei Toronto Raptors (di nuovo: il numero 1 era quello di Penny. Scelta dettata dal fatto che Hardaway era stato la folgorazione sulla via di Damasco della carriera cestistica di McGrady: essere alti ma giocare lontano da canestro), per stabilire se doveva essere inserito tra i “pronti” o i “non pronti”, con una voglia matta di bollarlo e metterlo tra i secondi. Il 31 ottobre 1997 a Miami i Toronto Raptors schierano in quintetto Damon Stoudamire, Doug Christie, Walt Williams, Marcus Camby e Zan Tabak. John Wallace è il sesto uomo di quella squadra, a cui danno minuti di sostanza anche Carlos Rogers e Popeye Jones. McGrady fa il suo debutto in NBA quando mancano 31 secondi alla fine del primo quarto, sostituendo proprio Damon Stoudamire, da cui lo separano circa 25 centimetri di altezza e con cui formalmente condivide il ruolo di point guard. Resta in campo per i primi 4 minuti del secondo quarto, prendendo un rimbalzo, quando cede nuovamente il posto a Stoudamire. Che gli cederà ancora una volta il posto quando mancano due minuti alla sirena finale e gli Heat sono avanti di 15. Commette un’infrazione di passi a 10 secondi dalla fine della partita, che chiude con zero punti, zero tiri tentati, zero assist, un rimbalzo e una palla persa. Il ragazzo, a 18 anni e 160 giorni, è già bollato. Not ready.

Foto bleacherreport

Poco importa se nel prosieguo della stagione farà vedere alcuni lampi del suo talento, e se alla fine metterà insieme 7 punti e 4 rimbalzi a partita nonostante i 18 minuti e rotti giocati di media: i Raptors, che non sono certo una squadra costruita intorno a lui, finiscono ultimi nella Eastern Conference, penultimi in tutta la NBA con un record di 16-66. Tracy gioca una decina di minuti nel rookie game dell’All-Star Game (giocatore meno in campo tra tutti i convocati) e non trova un posto neanche nei quintetti all-rookie di fine stagione. Leggenda vuole che il soprannome The Big Sleep ebbe origine durante la sua stagione da matricola, in cui – si dice – arrivava a stare a letto anche 20 ore al giorno.

 

The Reggie Harding Club.

In principio fu Reggie Harding, nel draft del 1962, quando esistevano ancora le territorial picks, quel sistema per cui una franchigia poteva rinunciare alla propria scelta di primo giro e selezionare (prima della prima scelta assoluta) un giocatore che fosse originario di una città, o avesse giocato in un college situato entro 50 miglia dalla sede della squadra NBA stessa. Con questo sistema, di cui i GM si avvalsero per 23 volte tra il 1949 e il 1965, i team cercavano di incrementare la popolarità della squadra, e globalmente della NBA, firmando la celebrità locale. Che poi di questi 23 giocatori, 15 siano diventati All-Star in NBA, e 12 addirittura siano membri della Hall of Fame, ecco, è un dettaglio non proprio secondario. Ma torniamo a noi. Reginald “Reggie” Harding viene scelto con la chiamata numero 29 del draft 1962 dai Detroit Pistons (che poi, non avendolo firmato, lo chiamano nuovamente nel 1963, stavolta alla 48, ma riuscendo infine ad averlo nelle proprie fila). Reggie è bianco ed è sette piedi, ma la sua caratteristica più rilevante, se escludiamo il fatto che fosse un gangster e per giunta completamente pazzo, è che viene chiamato in NBA senza aver mai messo piede in un college, ed è il primo a fare questo grande salto. Due stagioni ai Pistons in doppia doppia di media, salta la terza due to legal problems, finisce ucciso in una sparatoria a 30 anni: adesso se avete sentito il suo nome è probabilmente perché i giocatori NBA che sono passati dal carcere vengono definiti “membri del Reggie Harding Club”, oppure perché è stato l’ispiratore di questa scena che va diritta nella storia del cinema.

 

The road to Toronto.

Da quella chiamata nel 1962 facciamo un salto in avanti di 35 anni tondi tondi. Siamo al Charlotte Coliseum, e la più ambita delle palline della draft lottery, che statisticamente sarebbe dovuta andare a Boston, Massachussets, prende invece la strada di Fort Alamo e se ne va in Texas, a San Antonio, dove viene poi utilizzata per quel numero 21 che ha scritto un numero considerevole di pagine di Storia della NBA negli anni a venire. In questo lasso di tempo, altri cinque giocatori sono stati chiamati direttamente dall’High School, di cui un paio avete visto abbastanza spesso negli highlight da metà anni 90 in poi. Prima che qualcuno obietti che sono più di cinque: no, Shawn Kemp, Moses Malone e Connie Hawkins non rientrano in questa lista, per vari motivi che qui sarebbe tedioso e poco utile elencare. Insomma, a Charlotte il 25 giugno 1997 c’è David Stern che snocciola le chiamate. The Philadelphia 76ers select Keith Van Horn from the University of Utah; the Boston Celtics select Chauncey Billups from the University of Colorado, eccetera. Fino alla chiamata numero 9, con la quale l’allora commissioner NBA ci annuncia che i Toronto Raptors scelgono Tracy McGrady from Mount Zion Christian Academy. Le TV dell’epoca si soffermano subito dopo la scelta sul cartello esposto da un giovane tifoso presente al Coliseum: IS MCGRADY READY? Appunto.

Foto di Ron Turenne/Getty Images

Arrivato ai Raptors col “sigillo” di USA Today High School Player of the year, un riconoscimento che negli anni immediatamente precedenti aveva identificato come future stelle NBA gente come Alonzo Mourning, Kenny Anderson, Chris Webber, Jason Kidd, Rasheed Wallace, Kevin Garnett e Kobe Bryant (ecco, diciamo che gli osservatori aventi diritto di voto non erano esattamente malaccio), T-Mac era un abbastanza illustre sconosciuto fino al suo ultimo anno di liceo, quando scelse di trasferirsi nella militaresca Mount Zion Christian Academy proprio per avere una visibilità maggiore rispetto al liceo di Auburndale dove la sua superiorità nei confronti degli avversari locali era talmente netta da mettere in dubbio se le cifre che metteva insieme (parliamo di 23 punti, 12 rimbalzi, 4 assist e quasi 5 stoppate a partita nel suo terzo anno liceale in Florida) fossero dovute a bravura sua o a un livello troppo basso del campionato liceale in cui giocava. I dubbi vennero fugati abbastanza rapidamente dopo che T-Mac venne invitato con uno degli ultimi pass disponibili (secondo alcuni, letteralmente con l’ultimo) all’ABCD camp del 1996.

Foto static.wixstatic.com

I riflettori di quell’edizione erano tutti puntati su un giovane newyorkese di 2.08 che giocava da point guard, tal Lamar Odom, che comunque un po’ di strada nella pallacanestro l’ha poi fatta. “I miei amici in Florida mi dicevano ‘hey, c’è questo tizio da New York che è 2.08 e gioca da point guard, saranno tutti lì per lui!’, e io che pensavo alle squadre contro cui giocavo abitualmente, dove se eri 2.05 eri sicuramente il più alto del roster, se eri sopra 1.95 giocavi centro e mi dicevo; come fa questo ad essere 2.08 e giocare point guard? Per fortuna poi ho capito che potevo competere a quel livello, e direi che le cose sono andate piuttosto bene, se pensiamo che sono arrivato a quel camp come prospetto numero, boh, 500 negli States e ne sono uscito come probabile numero 1 degli underclassmen (i giocatori che non sono all’ultimo anno di liceo)”. Una sua famosa schiacciata, con il povero James Felton dalla parte sbagliata della storia che cerca di fermarlo con un antisportivo decisamente palese, è stata definita da Lamar Odom “one of the best moment of my basketball life”.

Tracy non lo sapeva ancora, ma la windmill diventerà poi uno dei suoi marchi di fabbrica anche in NBA, dove peraltro uno dei pochi che schiaccia meglio di lui è suo cugino. Sad but true.

Abbiamo definito Mount Zion militaresca: può suonare altisonante, adesso vi spieghiamo il perché. Nel suo anno in North Carolina, T-Mac, abituato all’assolata Florida, dormiva in una camerata da 18 studenti, aveva la sveglia alle 4:45 del mattino per la corsa di otto chilometri quando ancora fuori neanche albeggiava. Aveva 15 ore settimanali di servizio in chiesa e studi della Bibbia. Tra le cose vietate ai circa 200 studenti della Christian Academy, c’erano, in ordine sparso: orecchini, telefonate, walkman, fidanzate, gite al centro commerciale. Ma erano al tempo stesso una delle high school più “in vista” degli States, al punto che nel suo unico anno in North Carolina Tracy giocò solo 6 partite casalinghe contro le 22 esterne, dove era puntualmente oggetto di raddoppi aggressivi e bersaglio di tifosi, diciamo così, non troppo benevoli nei suoi confronti. E infatti T-Mac mise a segno la miseria di 27,5 punti a partita, a cui aggiungeva poco meno di 9 rimbalzi, 8 assist, 3 recuperi e 2 stoppate. Ecco, diciamo che se dopo la windmill su Felton i riflettori si erano accesi, dopo la sua stagione a Mount Zion erano tutti decisamente puntati su di lui, tanto da affibbiargli il soprannome di Showtime. E pensare che appena un anno prima, quando se n’era andato da Auburndale era ancora soprannominato Pumpkinhead (testa di zucca).

 

Getting ready.

Se il debutto del numero 1 dei Raptors non è stato di quelli destinati a passare alla storia, così come la sua intera stagione da rookie, già dall’anno seguente, con l’approdo in Canada del cugino di cui sopra, le cose cominciano a cambiare in meglio. Nella stagione accorciata a 50 partite, in cui tutta la NBA – e il mondo del basket in generale – si domandava “e adesso?” (sempre per via dell’epilogo di The Last Dance che faremo finta non abbiate visto), i Raptors guidati da coach Carter (no, non è quel coach Carter) chiudono la stagione con un record di 23-27, che percentualmente rappresentava il miglior record della franchigia fino a quel momento, grazie sicuramente alle prestazioni del rookie-meraviglia di cui sopra, nonché cugino di Tracy, ma anche al suo sesto uomo con la maglia numero 1, che a fine stagione risulterà terzo miglior rimbalzista e secondo miglior stoppatore della squadra, nonostante i soli 22 minuti di media in campo, tanto da concludere la sua seconda stagione nella Lega al ventesimo posto nel Player Efficiency Rating. Ma non è questo, non è qui e non è in generale a Toronto che The Big Sleep diventerà una star. Studierà per esserlo, però, quello sì. L’anno seguente, la coppia di cugini porta infatti i Raptors alla prima stagione con record positivo (e conseguente qualificazione ai playoff) della loro storia, e T-Mac completa ufficialmente il suo periodo di apprendistato: i punti a partita da 9 diventano 15, i minuti sul parquet sono oltre 31 a sera, finisce perfino dodicesimo di tutta la NBA nelle stoppate a partita, mostrando anche momenti di quel talento all-around che fin lì si era solo potuto intuire, come nella partita contro i Rockets del 19 marzo del 2000. Houston è già abbastanza fuori dai giochi dei playoff, Toronto in piena corsa.

Foto di Noren Trotman/NBAE via Getty Images

Tracy non ha ancora 21 anni. Metterà a referto 16 punti, 7 rimbalzi, 4 assist, 2 recuperi e 7 stoppate, a fronte di una sola palla persa. La playoff campaign dei Raptors sarà però rivedibile, anche se il 3-0 con cui i Knicks li fanno fuori al primo turno dei playoff è veritiero solo fino a un certo punto: in 3 partite, infatti, lo scarto complessivo sarà di appena 12 punti in favore degli arancioblù, nonostante un apporto di McGrady altalenante (25 punti, 10 rimbalzi ma 6 perse in gara 1, cifre dimezzate nelle due partite successive). I Raptors vogliono fare il salto di qualità, Tracy viene giudicato non ancora pronto a fare il secondo violino di Vince Carter, ruolo peraltro che avrebbe ricoperto controvoglia. Ci si saluta, la prossima meta dell’ex Mount Zion HS è Orlando, dove può vestire la maglia numero 1 che fu del suo idolo d’infanzia.

 

Magic Moments.

La prima stagione nella sua natia Florida vede un’esplosione di Tracy McGrady che forse neppure i Magic speravano così deflagrante. Il premio, a fine stagione, di Most Improved Player della Lega è quasi riduttivo per il numero 1 dei Magic, che a fine stagione avrà raccolto anche la prima convocazione per l’All-Star Game, un posto nel secondo quintetto della NBA, il sesto posto nelle votazioni come MVP e che soprattutto per la prima volta nella sua carriera da professionista si trova ad essere il fulcro di una squadra considerata in ascesa e con grandi prospettive. Oltre a T-Mac, infatti, agli ordini di coach Doc Rivers c’è anche il Rookie of the year, Mike Miller, sostanzialmente intercambiabile negli spot di 2 e 3 nelle rotazioni di Orlando di quell’anno, oltre a un nucleo ben rodato di giocatori solidi ed affidabili. I punti a partita saranno 26.8, per la prima di otto stagioni consecutive sopra quota 20 PPG.

Foto Espn

Orlando, che nel giro di un lustro ha perso, nell’ordine, una finale NBA, poi Shaquille O’Neal e infine Penny Hardaway, ci mette pochissimo ad innamorarsi di Tracy. Che non è ovviamente il timido ragazzetto che debuttò coi Raptors a Miami tre anni prima: nella sua prima partita con la maglia numero 1 dei Magic, di nuovo il 31 ottobre, il referto dice 32 punti, 12 rimbalzi, 4 assist, 3 stoppate. La corsa di Orlando, però, si ferma al primo turno dei playoff, come era stato per Tracy l’anno prima coi Raptors, come sarà di nuovo nelle stagioni successive: 3-1 dai Bucks, 3-1 dagli Hornets, 4-3 dai Pistons. È difficile dire quanto di lui ci sia nelle sconfitte ai playoff: se il suo modo di giocare abbia in qualche modo “tarpato le ali” ai Magic, o se semplicemente sia stato l’ultimo ad alzare bandiera bianca. Nelle tre serie di Playoff, complessivamente, ha tenuto una media di 32 punti a partita con il 44% dal campo, il 77% dalla lunetta, 6,5 rimbalzi e quasi 6 assist. Il problema, però, è che come sempre la storia la scrivono i vincitori, e in queste 15 partite il record di Orlando è stato di 5 vinte e 10 perse. La statistica, poi, non migliorerà a Houston: fuori in 7 gare contro i Mavs nel 2005, fuori in 7 gare contro i Jazz due anni dopo, fuori in 6 ancora contro i Jazz l’anno dopo. A Houston, poi, il suo fisico comincia a scricchiolare, decisamente troppo presto: fuori per più di metà stagione nel 2005-06 per problemi alla schiena, in campo solo per 35 partite – a poco più di mezzo servizio – nel 2008-09, quando per la prima volta dopo otto anni scende sotto i 20 punti di media e sotto il 40% dal campo. Purtroppo per lui, la sua carriera NBA si chiuderà con questa macchia indelebile: non aver mai vinto una serie di playoff, se non da infortunato (nel 2009 con Houston, ultima partita giocata il 9 febbraio) o da comprimario in fondo alle rotazioni (A San Antonio, dove viene arruolato di ritorno dalla breve esperienza cinese e disputa gli unici 14 minuti di finali NBA della sua carriera).

 

More Magic Moments.

Ci sarebbe da scrivere ancora per ore delle cifre di McGrady, ma alla fine della sua carriera quello che resta sono i due titoli di miglior marcatore NBA vinti nel 2003 e 2004, le tre gare 7 perse consecutivamente tra Orlando e Houston. Le sue statistiche negli elimination game disputati prima del grave infortunio del 2009 ci parlano di sette partite a 27 punti di media, 5,4 rimbalzi, 7,1 assist col 42% dal campo e il 72% dalla lunetta. Per dirci che allora sì, forse era davvero, semplicemente, l’ultimo dei suoi ad alzare bandiera bianca. Adesso che The Big Sleep è un membro della Hall of Fame, di lui, come nelle migliori storie d’amore finito, ci restano i momenti, sprazzi di atletismo, fluidità di movimenti e classe pura in cui era, per davvero, il giocatore più forte del pianeta.

 

Come quella volta in cui ha mandato al bar Kobe Bryant, uno che sulla difesa sapeva il fatto suo.

(come si evince dall’azione immediatamente successiva, Kobe non la prese benissimo)

 

O il Christmas Game del 2003, Magic vs. Cavs, LeBron James nel suo anno da rookie e T-Mac per nulla intenzionato a lasciarlo spadroneggiare a casa sua. Il 23 dei Cavs chiude con 34 punti, 6 assist (e 8 perse), il numero 1 dei Magic risponde con 41 punti, 8 rimbalzi, 11 assist e si porta a casa il referto rosa. Di questi 41, ce ne sono 2 in cui il commentatore originale dice “Michael Jordan, Doctor J e George Gervin nella stessa giocata!”

 

O i tanti alley-oop per sé stesso, da quello, famosissimo, all’All-Star Game del 2002 in mezzo tra Nash e Nowitzki, a questo, il nostro preferito, in una gara di regular season e non in una partita di esibizione: palla al tabellone, salto e conclusione in schiacciata, un movimento poi ribattezzato “remix dunk”

(se pensate che sia casuale il fatto che l’abbia fatto proprio contro i Raptors siete dei poveri illusi)

 

Quella volta in cui ha ribadito il concetto per cui, quando era in serata, era molto più di un “semplice” realizzatore: di là c’erano i Nets di Jason Kidd, che stampò una prestazione da 26 punti, 11 rimbalzi, 15 assist, 6 recuperi. Tracy prese 10 rimbalzi e distribuì 13 assist. I suoi punti, a East Rutherford, invece, furono 46, per la vittoria dei Magic.

 

O infine quando, in una partita di marzo 2004, annichilisce i 40 punti di Gilbert Arenas segnandone 62, diventando così l’undicesimo giocatore nella storia della NBA ad issarsi così in alto e mettendo a referto la miglior prestazione offensiva dai 71 di David Robinson nel 1994. Meglio di lui, da allora, solo Kobe Bryant e Devin Booker.

 

Titoli di coda. Riscriviamo la storia, cambiamo il finale.

E se fossimo ancora insieme

E se questa fosse l’ultima canzone

Abbiamo finito le parole

E tu che non hai mai capito

Da dove cominciare

Prendiamoci da bere

Come se questa fosse l’ultima notte insieme

Oh, poi magari è vero, anzi, sicuramente è vero, sarà stato discontinuo in partita, discontinuo in allenamento, capace di coinvolgere i compagni solo a tratti, ai Raptors non voleva fare il secondo violino, ai Magic la squadra gli si è sgretolata intorno, a Houston il mix con Yao Ming non ha funzionato, ad Atlanta era già l’ombra del T-Mac che tutti conoscevamo, agli Spurs magari ha portato pure un po’ sfiga, ma è lui stesso a prendere la cosa con filosofia: “quando ho scelto di saltare il college e andare direttamente in NBA, confesso che non sapevo nemmeno cosa fosse la Hall of Fame, ma adesso che mi guardo indietro mi dico che certo, non tutti vincono un titolo NBA, anche se chiunque può ritrovarsi a vincerlo, ma che diamine, non tutti possono far parte della Hall of Fame, ed essere incluso in questa lista di giocatori, insieme ai più grandi di tutti i tempi, è una cosa che dà un senso a tutta la mia carriera”.

A un certo punto, specialmente adesso che possiamo guardare le cose da una certa distanza, tanti dettagli, piccoli e grandi, svaniscono e resta solo la luce più splendente, quella di un ragazzo nato a Bartow, Florida, il 24 maggio del 1979, e che quella sera del 9 dicembre 2004, a Houston, Texas, mentre gli spettatori presenti al Toyota Center cominciavano ad abbandonare i loro posti a sedere per evitare gli ingorghi post-partita, e i telecronisti lodavano Popovich e i suoi per essere riusciti a limitare Yao Ming grazie ad un sontuoso Tim Duncan e aver vinto la diciassettesima partita su 21 da inizio stagione, contenendo McGrady a 20 punti con 8 su 25 dal campo, prese carta e penna e riscrisse da zero il finale di una favola che aveva lui come protagonista

 

E lasciati andare

Respira forte

La nostra ultima canzone

E non ti girare

Adesso parte

La nostra ultima canzone.

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