illustrazione grafica di Christina Pignoli
articolo di Roberto Gennari e Marco Munno

 

 

 

“Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo”

Qoèlet 3:1

L’avevano predetto in tanti che non si sarebbe trattato di una comune serie di primo turno. Non si erano sbagliati. È vero che per primeggiare bisogna superarle tutte; ma i Clippers, che desideravano finalmente di imporsi, avrebbero preferito non iniziare dai campioni in carica. La regola che assicurava uno dei primi quattro posti nel tabellone dei playoffs ai vincitori di Division premiò i Blazers; di conseguenza gli Spurs scalarono in sesta posizione, inaugurando la postseason contro i Clippers terzi, nonostante una sola vittoria di differenza durante la stagione regolare. Era la San Antonio del beautiful game, che aveva strabiliato il mondo nelle Finals dell’anno precedente con la loro pallacanestro di letture e pulizia tecnica.

Le stesse caratteristiche distintive del gioco del leader losangelino Chris Paul, point guard dal playmaking celestiale, tanto da valergli il soprannome di Point God. Uno che con gli Spurs aveva un vecchio conto in sospeso dal 2008, quando sotto 3-2 nella serie la ribaltarono ai suoi Hornets, eliminandolo dopo l’annata da trascinatore. Nel duello con Tim Duncan fra i due migliori giocatori mai prodotti da Wake Forest, sentì che quello avrebbe dovuto essere il suo turno di prevalere.

foto uproxx.com

Nella serie i Clippers erano partiti bene, gli Spurs avevano replicato passando due volte in vantaggio nel computo totale, ma la terza vittoria losangelina aveva rinviato il verdetto finale alla settima partita. CP3 sapeva di non avere troppe altre occasioni per capitalizzare sul talento della squadra di cui era la gemma; non aveva intenzione di lasciare un’altra gara 7 ai neroargento.

Il suo flessore sinistro però non era d’accordo. Dopo 9 minuti e 52 secondi abbandonò la causa, con la mano di Chris a toccarlo durante lo sprint, per poi passare a circondare il volto disperato all’inevitabile sostituzione.

La clip con la tripla segnata sul dolore sembrava perfetta per l’inizio di un nuovo episodio della serie sui “What if” della carriera di Paul.

 

 

“Ammaestra il fanciullo sulla via da seguire, ed egli non se ne allontanerà neppure quando sarà vecchio”

Proverbi 22:6 

Una carriera nella pallacanestro a cui sembrava destinato sin da bambino. Se Duke-North Carolina è la Tobacco Road rivalry per antonomasia, a pochi chilometri da entrambe c’è Winston-Salem, sede di una delle maggiori compagnie di produzione di sigarette al mondo, nonché (dal 1956) del campus di Wake Forest, e città che ha dato i natali ad un tot di giocatori di livello: primo tra tutti Earl “The Pearl” Monroe, ma oltre a lui si possono annoverare giocatori come Ricky Hickman, Othello Hunter e Josh Howard, e andando un po’ più indietro nel tempo Hubert Davis, Happy Hairston e il “nostro” Randolph Childress. Proprio a Winston-Salem mosse i primi passi il piccolo (in tutti i sensi) Chris. La sua carriera in high school, infatti, non iniziò da subito col botto. Complice un fisico non proprio da LeBron, i suoi primi due anni alla West Forsyth HS di Clemmons lo videro far parte del junior varsity team (grosso modo, la “squadra B”) dei Titans. Al terzo anno CP3 (che a quel punto della sua esistenza era “CP3”semplicemente in quanto terzo membro della famiglia ad avere le iniziali C.P.) passò a far parte della “squadra A” e certe caratteristiche sviluppate sin dagli 1 contro 1 col fratello maggiore, come rapidità di mani e aggressività sul portatore di palla, nonché una certa durezza nei contatti, gli tornarono comode da subito. Finì infatti sotto i riflettori grazie ad una stagione da 25 punti a partita conditi da 5.3 assist e la bellezza di 4.4 recuperi per match. In estate, peraltro, la squadra di Winston-Salem si laureò campione nazionale AAU Under 17, con Chris nelle vesti di MVP. Il suo ultimo anno ai Titans, poi, andò ancora meglio dal punto di vista statistico: le sue medie si aggirarono sui 31 punti, 6 rimbalzi, 6 recuperi (!) e 9.5 assist a partita, con l’ovvia conseguenza di ricevere l’onorificenza di “Mr. Basketball” del North Carolina per il 2003. Nonostante le insistenze di North Carolina, comunque, CP3 scelse di giocare al college per Wake Forest, praticamente sotto casa. Il giorno dopo l’annuncio, però, successe uno di quegli avvenimenti che danno una svolta alla vita di un ragazzo: il nonno di Chris, a cui il ragazzo era legatissimo, viene trovato ucciso in un parcheggio in seguito a una rapina. Aveva solo 61 anni. Chris era distrutto, non voleva giocare la partita successiva, poi una zia gli disse “il modo giusto di onorare tuo nonno sarebbe scendere in campo e segnare 61 punti. Chris ci pensò su e scese in campo. Quando mancavano poco meno di 2 minuti alla fine, il box score segnava 59. Paul si buttò dentro, subì il fallo ma segnò lo stesso. 61. Il record statale della North Carolina in una partita liceale era di 67 punti, ma Chris, in lunetta, tirò intenzionalmente un airball che finì fuori dal campo. Il suo coach lo richiamò in panchina, e il giovane Paul scoppiò a piangere tra le braccia di suo padre. La missione era compiuta.

Il suo debutto in maglia Demon Deacons non fu certo morbido, come spesso accade in NCAA: la prima partita infatti vide Wake Forest opposta a Memphis. Le “Tigri” di coach John Calipari si stavano affermando in quegli anni come una potenza a livello nazionale nel basket collegiale. Campioni NIT due anni prima, qualificati al torneo NCAA la stagione precedente, in quegli anni reclutavano giocatori che poi sarebbero andati in NBA: Wagner nel draft 2002, Carney e Williams in quello del 2006. Il battesimo del fuoco per CP3 lo vide disputare una partita complicata, contro una squadra che faceva della difesa il suo marchio di fabbrica. Nonostante fosse da subito il Demon Deacon in campo per più minuti, il suo tabellino recitò uno scarno 1/7 dal campo, in parte compensato dal 8/8 dalla lunetta, per 10 punti totali ai quali aggiunse 4 rimbalzi e 1 assist. Ma coach Prosser, che lo aveva voluto fortissimamente con sé a Wake Forest, spese per lui parole al miele nella conferenza stampa post-partita. “Chris Paul will get better and better”, disse. E aveva ragione da vendere. Il primo tassello del suo biennio leggendario a WFU fu probabilmente messo però nell’epica sfida del 20 dicembre 2003 contro North Carolina al Dean Smith Center. Di là c’erano Sean May, Raymond Felton e Rashad McCants: i ragazzi di coach Prosser espugnarono il fortino biancoceleste nella prima delle “sfide del tabacco” al termine di una partita conclusasi solo al terzo overtime: per CP3, prima dell’uscita per falli, 46 minuti in campo per 18 punti, 4 rimbalzi, 8 assist, 6 perse ma 5 recuperi.

 

 

“Chi punge un occhio lo fa lacrimare, chi punge un cuore ne scopre il sentimento”

Siracide 22:19

Ma fu soprattutto contro Duke, in quegli anni, che Paul e i Demon Deacons diressero la loro attenzione e il loro agonismo. E “contro Duke”, in quegli anni, significava soprattutto, senza nulla togliere agli altri, “contro JJ Redick”, uno dei giocatori offensivamente più devastanti che si siano visti nella pallacanestro collegiale. La prima sfida tra i due, per quella che in quegli anni divenne una vera e propria rivalità, ebbe luogo al Cameron Indoor di Durham. I Blue Devils comunque non erano solo Redick: con lui in quintetto coach Krzyzewski schierava Chris Duhon, Shelden Williams e Luol Deng. Ma a prendersi la scena e la partita fu il numero 4 in maglia Duke: per Redick 23 punti in 29 minuti con 7/11 dal campo, con la difesa predisposta da coach K su Paul che lo limitò a 7 punti e 7 assist in 30 minuti giocati. Però fu probabilmente nella seconda sfida tra i due, che questa rivalità si cementò appieno. JJ, abituato a collezionare trentelli in serie, venne provocato apertamente, attaccato in ogni possesso e in ogni modo, verbale e fisico, fino a quando perse le staffe e venne alle mani con Chris Paul. La stella di Krzyzewski venne tenuta a 2 soli punti con 0/5 dal campo, mentre dall’altra parte CP3 mise a referto 23 punti con 8-12 dal campo, 5 rimbalzi e 8 assist. Cosa ancor più importante, Wake Forest ricevette dagli arbitri il referto in carta rosa. Un po’ a sorpresa, non ci furono ulteriori occasioni per le due squadre per incontrarsi quell’anno, vista la prematura uscita dei Demon Deacons nel primo turno del torneo della ACC, e l’eliminazione di Wake Forest per mano di St. Joseph, che all’epoca aveva un backcourt composto da Jameer Nelson e Delonte West, che misero insieme 48 punti in due e soprattutto seppero contenere Paul a soli 6 tiri dal campo per un fatturato totale di 12 punti, 8 assist e un insolito 0 nella casella dei rimbalzi.

foto Slam

La prima stagione NCAA di Chris Paul si concluse così alle Sweet Sixteen, che comunque fu il miglior risultato dell’ateneo da quando sotto le plance c’era quello col numero 21 che al tempo stava già iniziando a scrivere la storia del ruolo di power forward con la maglia neroargento degli Spurs. Purtroppo per Chris e per Wake Forest, però, quello del 2004 è ancora oggi il miglior risultato della squadra di basket nel torneo NCAA da allora. Si chiuse con medie intorno ai 15 punti, 6 assist, 3 rimbalzi, 50% dal campo e i riconoscimenti di rookie dell’anno della ACC e la presenza nei quintetti all-conference sia difensivi che generali, riconoscimenti questi ultimi due che gli verranno poi confermati anche l’anno seguente. Che si aprì con la partita dominata dai Demon Deacons contro USC Upstate, con un larghissimo 103-57 in cui Chris mise a segno 11 punti con 9 rimbalzi e 6 palle rubate. La particolarità di questo esordio stagionale sta nel fatto che a USC Upstate giocava il fratello maggiore di Chris, CJ, che ebbe modo di rendersi conto come le sfide in famiglia fossero state interiorizzate piuttosto bene dal fratellino. Finite le partite exhibition, Wake Forest aprì la stagione vera e propria con la vittoria del torneo NIT prestagionale e la voglia di CP3 e compagni di rubare il palcoscenico e la ribalta ai più prestigiosi atenei della North Carolina, da UNC a NC State a – soprattutto – Duke. E nella seconda stagione collegiale i faccia a faccia tra CP3 e JJ aggiunsero ulteriore pepe alla rivalità “statale” e personale tra i due.

In NCAA in generale, ma nella ACC in particolare, è così. L’avversario più pericoloso viene provocato, pungolato continuamente per farlo innervosire: non bisogna dimenticare che si parla di partite tra ragazzi poco più che maggiorenni, che nella maggior parte dei casi non avranno più una ribalta altrettanto prestigiosa. Ed è così che la rivalità tra i due più accreditati candidati al premio di MVP della conference si autoalimentò, si nutrì della passione sanguigna dei tifosi dei Demon Deacons e dei Cameron Crazies, raggiunse vette impensabili anche solo pochi mesi prima. Il primo di questi faccia a faccia ebbe luogo il 2 febbraio 2005 al Lawrence Joel Coliseum, casa di Wake Forest. Duke ci arrivò con un record di 16 vinte e una sola persa, Wake Forest di 17-3, le due squadre erano rispettivamente al numero 4 e al numero 7 del ranking settimanale NCAA. JJ Redick era assolutamente intenzionato a cancellare la partita da incubo dell’anno precedente, il career-lowdi un giocatore altrimenti immarcabile nel basket collegiale: restò in campo tutti e 40 i minuti di quella partita, giocando offensivamente in modo impeccabile. Wake Forest impostò la difesa sul “non voglio dare neanche mezzo tiro facile a Redick, costi quel che costi”,e infatti nei primi 5 minuti di partita il numero 4 in maglia Blue Devils si prese solo un tiro: non sarebbe durata, tuttavia. JJ chiuse con 33 punti, 5 assist e una sola persa. Il tiro sulla sirena da metà campo avrebbe potuto addirittura portare la gara all’overtime. Già, perché la partita la portò a casa coach Prosser, grazie ad un CP3 chirurgico: 9-14 dal campo per 23 punti, 6 assist, 5 recuperi e solo 2 perse. Terza vittoria consecutiva di Wake Forest contro Duke tra le mura amiche, mica male.

Per il rematch non ci fu da aspettare molto. 20 febbraio 2005, Cameron Indoor Stadium: per i Blue Devils, in campo a sorpresa Patrick Davidson in quintetto. Per lui 51 minuti giocati in carriera con la maglia di Duke, eppure da quelle parti sanno ancora oggi tutti chi sia. Primo possesso, 5 secondi di gioco, fallo abbastanza deciso su Chris Paul. Due minuti e mezzo in campo, giocati con un’intensità altissima, per far innervosire il numero 3 avversario, tornare in panchina e beccarsi l’abbraccio di coach K. Provocazione verso l’avversario più temuto? Sicuramente. Ma funzionò. JJ era ancor più deciso a prendersi lo scalpo di Wake Forest e scrisse 38, con 9/15 dal campo e 14/15 dalla lunetta. CP3 ne mise comunque 27 (più 6 rimbalzi e 7 assist), ma con un insolito 6/15 da 2: vittoria Duke 102-92 in una partita di intensità strepitosa. Quella sconfitta fu l’inizio di un concatenarsi di situazioni negative che fecero sì che la stagione di Wake Forest, iniziata sotto i migliori auspici (seconda nel ranking prestagionale dietro alla sola Kansas, che ne mandò SEI in NBA di quella squadra, poi per due settimane al numero 1 a fine novembre) e terminata anzitempo su tutti i fronti. La sconfitta contro Duke costa ai ragazzi di coach Prosser la testa di serie numero 1 nel torneo ACC in favore dei futuri campioni nazionali di North Carolina. Nell’ultima partita di regular season, poi, CP3 assestò un pugno a Julius Hodge di NC State e venne squalificato per la prima gara del torneo di conference, sempre contro NC State, che contro i Demon Deacons privi di Paul passò per 81-65, compromettendo le possibilità di ottenere una testa di serie numero 1 al torneo NCAA. Ebbero comunque la 2, e dopo un debutto tutto sommato abbastanza morbido contro Tennessee-Chattanooga, al secondo turno subirono una sorprendente rimonta nel secondo tempo da West Virginia, guidata da quel Mike Gansey poi visto a Fabriano in LegaDue, e dopo due overtime vennero eliminati col punteggio di 111-105. Per Paul, in quella che sarebbe stata la sua ultima partita in NCAA, 22 punti, 6 rimbalzi, 9 assist ma anche 5 palle perse, e soprattutto i falli 4 e 5 della sua partita nel corso del secondo overtime, quando Wake Forest era sotto di 4, in un lasso di tempo di 10 secondi. The greatest college basketball game ever played in Cleveland (con LeBron James tra gli spettatori) ebbe un vincitore, e quel vincitore furono i Mountaineers.

 

 

“E’ sulla via della vita chi osserva la disciplina, chi trascura la correzione si smarrisce”

Proverbi 10:17 

Il draft 2005 si tenne al Madison Square Garden il 28 giugno 2005. Chiamata 1: Milwaukee Bucks, Andrew Bogut. Chiamata 2: Atlanta Hawks, Marvin Williams. Chiamata 3: Utah Jazz, Deron Williams. Chiamata 4: New Orleans Hornets, Chris Paul. La carriera NBA del Point God iniziò in quella squadra che fino a pochi anni prima era a Charlotte, North Carolina, a poco più di un’ora di macchina da Winston-Salem, e che a causa della devastazione compiuta dall’uragano Katrina non giocò a New Orleans nei primi due anni di carriera di Chris Paul, bensì a Oklahoma City. Questa segniamocela, che tornerà utile più avanti.

foto pelicandebrief.com

La stagione da rookie di Chris, in effetti, sembrò tutto tranne una stagione da matricola. 16 punti, quasi 8 assist, 5 rimbalzi e 2.2 recuperi a partita (primo di tutta la NBA per palle rubate totali), un rapporto di 3,34 assist per palla persa. Gli Hornets vinsero 20 partite in più rispetto all’anno precedente, CP3 si accaparrò 124 voti su 125 disponibili per il titolo di rookie dell’anno 2006. Le vittorie diventarono 39 l’anno seguente, ma fu nella terza stagione in maglia Hornets, la prima con la riga gialla e il ritorno in pianta stabile in Louisiana, che Chris Paul entrò ufficialmente a far parte dell’élite della NBA. New Orleans, forse per la prima volta senza problemi di infortuni da diversi anni a questa parte, poté schierare in pianta stabile il quintetto che vedeva al suo fianco Morris Peterson, Peja Stojaković, David West e Tyson Chandler. Con una squadra così, guidata dal coach of the year Byron Scott, CP3 poté dispiegare tutta la sua potenza di fuoco: 21.1 punti a partita, 11.6 assist, la prima convocazione (di nove consecutive) all’All-Star Game giocato tra le mura amiche per festeggiare la “rinascita” di New Orleans, il secondo posto nella corsa all’MVP dietro a Kobe Bryant, il primo posto della Western Conference perso solo nelle battute finali della stagione (4 sconfitte nelle ultime 6 gare di regular season, quando erano primi in solitaria ad Ovest). Prima di lui, solo altri cinque giocatori erano stati in grado di mettere insieme almeno 21 punti e 11 assist di media (Robertson, Archibald, Isiah Thomas, Magic, Kevin Johnson) e, cosa più importante, arrivarono i primi playoff NBA della sua carriera. L’esordio di Chris nella postseason ebbe luogo il 19 aprile del 2008, pochi giorni prima del suo 23esimo compleanno. Di fronte a lui, i Dallas Mavericks, e soprattutto un altro fenomeno del playmaking: Jason Kidd. I timori reverenziali di Paul di fronte al più blasonato dirimpettaio, però, durarono lo spazio di un battito di ciglia: se Kidd sfiorerà la tripla doppia con 11 punti, 9 rimbalzi e 9 assist, il numero 3 Hornets marchierà a fuoco la gara con 35 punti, 10 assist, 4 recuperi e 15-23 dal campo. New Orleans farà sua la serie in cinque gare, e avanzerà alle semifinali di conference per una delle più epiche serie di playoff della storia recente della NBA, quella contro i campioni in carica dei San Antonio Spurs. Gli Hornets, pur andando in vantaggio prima 2-0 e poi 3-2 contro i neroargento, perderanno poi gara-6 in Texas e la decisiva gara-7 in Louisiana. Nel periodo in maglia Hornets, tuttavia, quella contro Dallas resterà l’unica serie di playoff vinta da Chris Paul. La stagione successiva, infatti, il supporting cast apparve evidentemente in fase calante (Chandler, Stojaković ma soprattutto Peterson, rimpiazzato nello starting five da un non altrettanto efficace Rasual Butler), e anche se il record disse 49-33 e arrivarono lo stesso i playoff, il settimo posto a Ovest fu il preludio ad una veloce eliminazione per mano dei Denver Nuggets griffati Billups e Melo. L’anno successivo, poi, nonostante le aggiunte di Okafor e dei giovani Collison e Thornton, il record scese ad un triste 37-45, che significò niente postseason e nubi che si addensavano all’orizzonte. Gli innesti di Trevor Ariza e Marco Belinelli in estate non sembravano in teoria dover spostare in modo sostanziale gli equilibri ad Ovest, anche se fu forse in questa stagione, più che in altre, che si vide come CP3 sia veramente un giocatore speciale, in grado di innescare i compagni nel migliore dei modi: dopo un anno di “break”, torna a guidare la NBA in recuperi, diminuendo al contempo le palle perse. Il suo rapporto assist/turnover fu uno strepitoso 4.16. Oltre a lui, altri cinque giocatori degli Hornets segnarono in doppia cifra, tra cui proprio Belinelli che grazie a lui metterà a segno il 41.4% delle triple tentate (farà meglio solo a San Antonio nell’anno del titolo). New Orleans tornò ai playoff, sia pur perdendo al primo turno contro i Lakers. Sarà la sua ultima apparizione con la maglia degli Hornets, che lasciò con dei massimi in carriera di 43 punti, 21 assist, 12 rimbalzi, 9 recuperi.

 

Al collo nel frattempo mise una medaglia di bronzo ai Mondiali (nel 2006, in cui steccò la partita contro la Grecia perdendo nettamente il duello contro il pariruolo Spanoulis, ma rimandendo comunque il migliore di Team USA per assist e recuperi) e un oro olimpico (nel 2008, come membro tutt’altro che secondario del Redeem Teamdi cui fu il miglior assistman). Bisserà poi l’oro ai giochi di Londra 2012, in cui sarà il giocatore più utilizzato insieme a Kevin Durant, finendo primo nei recuperi e secondo negli assist.

 

 

“L’uomo non vive soltanto di pane”

Deuteronomio 8:3

Per le ambizioni di Chris un contesto come quello della franchigia di New Orleans non bastava più: annunciò al front office l’intenzione di non rinnovare il contratto in scadenza l’estate, di fatto spingendo il gm Demps alla cessione per non rischiare di perderlo senza alcuna contropartita. Si vocifera di una buona offerta ricevuta dai Warriors, che comprendeva uno Stephen Curry ancora lontano dall’esplosione e un Klay Thompson appena scelto al draft, che piacque agli Hornets ma non si completò per il rifiuto di Chris di giocare con Golden State. L’accordo per il suo passaggio ai Los Angeles Lakers invece era cosa fatta: i gialloviola avrebbero mandato Lamar Odom agli stessi Hornets, che si sarebbero assicurati anche Luis Scola, Goran Dragic, Kevin Martin e una prima scelta dai Rockets con Pau Gasol quale risarcimento.

A stoppare però la formazione della spettacolare coppia con Bryant non fu la telefonata di Kobe, che aveva già chiamato Chris per gli auguri, ma quella di David Stern. Il commissioner della Lega in quel periodo fungeva anche da proprietario degli Hornets, rimessi nelle mani della NBA dal precedente possessore George Shinn. Pose il veto sulla trade, adducendo“basketball reasons” alla base della decisione: ovvero, a suo giudizio la contropartita avrebbe avuto un valore discreto per l’immediato (nonostante lo squilibrato risparmio losangelino di 40 milioni di dollari sul salary cap, come contestato dalla lettera del proprietario dei Cavs Dan Gilbert), ma troppo basso per il futuro. Un futuro che invece sarebbe stato da preservare, così da rendere la franchigia appetibile per i nuovi acquirenti. Ecco perché all’offerta dei Lakers, che non prevedeva scelte al draft, fu preferito il pacchetto proveniente dall’altra squadra di Los Angeles, che prevedeva Eric Gordon, Chris Kaman, Al-Farouq Aminu e la prima scelta 2012 dei Timberwolves (acquisita nel 2005).

(…)

Con gli Hornets che si indebolirono a tal punto da concorrere per la prima scelta assoluta nel successivo draft (vincendola, per poi tramutarla in Anthony Davis) e i Lakers che dopo due playoffs consecutivi vissero il peggior lustro della propria storia, il 14 dicembre i Clippers accolsero nel proprio roster Chris Paul.

“Se la ricchezza è un bene desiderabile in vita, quale ricchezza è più grande della sapienza, la quale tutto produce?”

Sapienza 8:5 

Nella franchigia sfigata della Lega per eccellenza prese il posto di Baron Davis sia come playmaker titolare che come volto di spessore da contrapporre, in qualche modo, a quello di Kobe dei rivali concittadini. CP3 però migliorava esponenzialmente il contributo del Barone, giungendo a Los Angeles con minor chilometraggio e maggior produzione, che lo piazzava tra i migliori 5 della Lega sia in attacco che in difesa. Fu ritenuto il complemento giusto da affiancare alla stella nascente di Blake Griffin (che curiosamente nella precedente annata fu Rookie del mese per la Western Conference in tutte e sei le mensilità, primo a riuscirci dallo stesso Chris Paul). Proprio Griffin, che ai tempi degli Oklahoma Christians nell’high school potè osservare il talento di Paul sbocciare in NBA proprio nella sua Oklahoma City, coniò il soprannome che avrebbe accompagnato quell’epoca dei Clippers. Ricevuta da DeAndre Jordan la notizia della trade, non contenne l’eccitazione per gli assist che già pregustava: “Yeah! It’s going to be Lob City!”

E Lob City fu

L’effetto-CP3 sulla squadra losangelina fu roboante.

Rallentando un pò le proprie folate in favore di uno stile più compassato, Chris rese la fase offensiva dei Clippers stabilmente fra le migliori della NBA.

Le accelerazioni sincopate, combinate con la pazienza nella ricerca dell’opzione più efficiente, lo rendevano una minaccia costante per le difese avversarie. Creatore di soluzioni ad alta percentuale tanto per sé quanto per gli altri ragazzi, non sacrificava possessi per spettacolo fine a sé stesso, brillando sia nella voce delle assistenze (tante) quanto in quella dei palloni persi (molto pochi).

Divenne il direttore di un’orchestra in cui il livello degli spartiti dei compagni saliva sempre di più.

L’elemento più virtuoso al suo fianco era Blake Griffin. La selezione dei due come titolari per la Western Conference all’All-Star Game 2012, prima volta nella storia della franchigia con due starter nell’All-Star Game nel medesimo anno, fu solo la punta dell’iceberg dell’impatto della coppia negli equilibri della Lega. Il loro gioco a due rappresentò un rompicapo sempre più difficile da risolvere per le difese avversarie. Blake iniziò tirando giù il ferro ad ogni alzata di Chris dopo le rollate a canestro, per poi aggiungere un solido tiro sempre da distanza maggiore aprendosi in pop. L’onere di raccogliere gli assist all’altezza dell’anello venne lasciato sempre più spesso a DeAndre Jordan, utilizzato nel gioco denominato “45” come bloccante insieme a Griffin per le iniziative di Paul.

Parallelamente ai lob per i due colossi, si alzavano via via le ambizioni dell’intera franchigia. Arrivarono gli altri componenti di quello che divenne il nucleo base. JJ Redick seppellì l’ascia di guerra con Paul, diventando l’alternativa dal perimetro ai giochi ai due coi lunghi; il gioco floppyper liberarlo al tiro veniva scaramanticamente chiamato da Chris nella prima azione di ogni partita. Jamal Crawford sommò punti dalla panchina, con il mix di ball handling funambolico e senso del canestro mozzafiato che in alcune fiammate lo rendeva immarcabile. Matt Barnes portò versatilità, difesa e tiro da fuori sugli scarichi, con una sfrontatezza non esattamente da chierichetto. Doc Rivers aggiunse maggiore esperienza a livelli alti in panchina, sostituendo il defenestrato coach Vinny Del Negro (complice una vociferata spintarella dello stesso Paul) e assumendo in breve anche il compito di presidente delle basketball operations.

Col titolo di MVP dell’All Star Game messo nel frattempo nel palmares, nell’universo losangelino Chris era l’assoluto monarca della Terra di Mezzo. In quella fetta di campo del midrange sempre più vituperata, poichè meno redditizia di quelle sotto canestro e fuori dalla linea da 3 punti, la produzione di CP3 rispetto alla media era un’eccezione. La precisione al tiro e la predisposizione al passaggio, combinate con gli amati blocchi dei due titani Griffin e Jordan, completavano una ricetta che risultava indigesta per tutte le difese della Lega.

foto bleacherreport.net

Per non essere punito dal tiro da fuori in caso di passaggio sotto o esporsi a complicati mismatch in caso di cambio, sui giochi a due solitamente il suo marcatore lo spingeva ad avventurarsi dentro l’arco. Grazie alla sua robustezza Chris riusciva a proteggersi dal successivo recupero (oltre a forzare spesso la creazione della collaborazione offensiva). Il difensore rimasto nei pressi del canestro si sarebbe ritrovato come Trevor Berbick contro Mike Tyson, di fronte alla raffica di colpi da KO: un cambio di velocità con successivo appoggio se fosse avanzato, uno scarico al rimorchio in caso di spostamento laterale, un arresto e tiro se fosse indietreggiato.

In quella situazione, Paul era un manuale di pallacanestro in movimento.

 

 

“Chi disprezza la sapienza e la disciplina è infelice. Vana la loro speranza e le loro fatiche senza frutto, inutili le opere loro”

Sapienza 3:11

Progressivamente però la luce di CP3 al centro del sistema solare dei Clippers non venne ritenuta illuminante, ma accecante. L’atteggiamento me against the worldche in partita compattava i ragazzi nelle usuali scaramucce con arbitri e avversari, all’interno del gruppo li divideva fra loro. Lo status all’interno della Lega di Griffin e Jordan, ormai cresciuto, non portò solo i desiderati benefici, ma anche spiacevoli effetti collaterali. Quello che ormai era diventato un terzetto di star non riuscì a trovare una nuova quadra per la convivenza.
Blake non riuscì a tenere a freno un carattere troppo suscettibile ai propri errori e alle altrui provocazioni (per informazioni, chiedere a Zach Randolph). DeAndre, nonostante la richiesta di maggiori palloni da gestire in attacco (alla base della decisione di lasciare per i Mavericks, col successivo clamoroso dietrofront), non mise su un appropriato bagaglio offensivo. Chris, forte del contributo dato alla causa gettando più volte il cuore oltre l’ostacolo (con picchi come il “sacrificio” per evitare il fallo sistematico su Jordano la difesa su Durant nella semifinale di Conference nel 2014), non riuscì a cedere responsabilità ai compagni. Di conseguenza, i suoi errori personali pesarono di più (come lo sciagurato finale di gara 5 nella stessa serie coi Thunder).

Nei playoffs della spietata Western Conference vennero allora puntualmente a galla i lati negativi della squadra: la tendenza a sparire nei momenti caldi di Griffin, il mancato miglioramento tecnico di Jordan, la difesa lacunosa di Redick, l’anarchia di Crawford, la discontinuità di Barnes, lo scarno apporto della panchina, il fallimento delle varie scommesse nella second unit.

 

Esempio tipico della disfunzionalità dei Clippers: Jordan raccoglie il rimbalzo sulla sirena di fine azione, la confonde per quella di fine match, non tira, i regolamentari terminano in pareggio, Paul non la prende benissimo

Gli equilibri, già delicati come i fisici delle stelle losangeline che puntualmente facevano crack nei playoffs, si incrinarono del tutto quando Chris percepì un trattamento di favore da parte del coach al figlio Austin. Il rifiuto da parte di Doc di mandarlo insieme a Crawford e Pierce ai Knicks, in cambio di Vujacic e del pezzo forte della trade Melo Anthony, fu la goccia che fece traboccare il vaso.

Fu addio.

 

 

“Se sei sapiente lo sei a tuo vantaggio, se sei spavaldo tu solo ne porterai la pena”

Proverbi 9:12

Accettò l’opzione di prolungamento di un anno del contratto solo per permettere ai Clippers con uno scambio di ricevere una (corposa) contropartita: in cambio di Beverley, Lou Williams, Harrell e una prima scelta 2018 (oltre a Dekker, Hilliard, Liggins e Wiltjer per far quadrare i conti), CP3 prese la via di Houston.

Anche la serie di spot della State Farm, col finto fratello gemello Cliff, dovette interrompersi

A proposito di vie: la sua conoscenza di un passaggio segreto per lo spogliatoio dei Clippers, dove guidò i nuovi compagni al regolamento di conti con Rivers e Griffin nel suo ritorno allo Staples Center, si rivelò falsa. Ma era innegabile che la pirotecnica eliminazione dei losangelini nella semifinale di Conference del 2015, firmata dai Rockets, fosse ancora una ferita aperta.

Si ipotizzò una difficile coesistenza sul campo con un James Harden a sua volta catalizzatore di possessi offensivi; tuttavia i due riuscirono a trovare un equilibrio, alternati per vari tratti di partita da coach D’Antoni, con giovamento di tutte le parti in causa.

foto Espn

Il Barba, secondo in graduatoria nella stagione precedente, fu proclamato MVP; i Rockets fissarono il miglior record in una stagione regolare della loro storia con 65 vittorie; Chris si tolse di dosso il peso della mancata partecipazione ad una finale di Conference. Dal 2000, le uniche due squadre della Western Conference a non averne disputata alcuna furono gli Hornets e i Clippers, le due squadre di cui CP3 era stato uomo franchigia.

Paul si occupò della questione in prima persona: dominò contro i Jazz la decisiva gara 5 per accedervi, realizzando il proprio primato di punti in una gara di playoffs con 41. Non solo: si trattò della prima partita nella storia dei playoffs da 40 punti, 10 assist e 0 palle perse (da quando i palloni persi sono stati contati nel 1977/78).

Nell’ultimo quarto, CP3 andò in completa trance agonistica 

Di fronte c’erano gli schiacciasassi Warriors con l’aggiunta estiva di Kevin Durant, ma i Rockets non sembravano pronti a cedere l’onore delle armi facilmente. Si portarono anche in vantaggio nella serie, per 3-2. Una lesione al bicipite femorale negli ultimi secondi di gara 5 si mise però di traverso, costringendo Chris a saltare gara 6 e 7 in cui Houston venne sconfitta e quindi eliminata. Chissà come sarebbe andata se il fisico non l’avesse nuovamente tradito; d’altro canto, l’ultimo a fermare Golden State in una serie ad Ovest era stato proprio lui a Los Angeles.

Una nuova occasione contro i ragazzi della Baia non venne colta nell’annata successiva: nonostante l’infortunio in gara 5 di Kevin Durant, nella sesta gara della serie i Rockets si piegano nuovamente ai Warriors nonostante i 62 punti messi a referto dal duo Harden/Paul. Sarà la loro ultima partita assieme con la divisa di Houston.

Per una di quelle circostanze abbastanza singolari che capitano spesso nella vita delle persone, anche di quelle comuni, CP3 si ritrovò ad essere sostanzialmente scaricato dai Rockets dopo che l’operazione coesistenza con Harden non portò – per incompatibilità caratteriali, più che per motivi tecnici – ai risultati sperati. Paul è in un certo senso jordanesco nel suo approccio alla partita e all’allenamento. Tutti devono dare il massimo per potersi presentare in partita al massimo dell’intensità. Questa cosa, probabilmente, lo ha portato più fuoriche dentroi meccanismi dei Rockets; ; Houston decise di provare a percorrere il sentiero stretto che porta a ricomporre la coppia Westbrook-Harden, cercando di piazzare da qualche parte un max contract ingombrante all’età ormai raggiunta da Chris (possibile solo in virtù della regola modificata dall’associazione giocatori da lui presieduta dal 2013).

 

 

“Non essere invadente per non essere respinto, ma non allontanarti troppo per non essere dimenticato”

Siracide 13:10

A 34 anni il play di Winston-Salem tornò dove tutto era iniziato: Oklahoma City. Che lo vide ventenne Rookie of the year, e lo accolse nuovamente a braccia aperte come se gli anni trascorsi tra l’addio degli Hornets a Oklahoma City e il presente non fossero mai esistiti. CP3, però, è un giocatore profondamente diverso rispetto al giovane di belle speranze che esordiva tra i pro. Dopo anni in cui era stato indubbiamente la migliore point guard della Lega, non era più un all-star ormai da tre stagioni consecutive, e qualcuno cominciò a pensare a lui come un giocatore che potesse ritagliarsi poco più che un ruolo da senatore in uno spogliatoio di giovani di belle speranze.

foto minutemediacdn.com

Il Chris Paul che arrivò ai Thunder nell’ambito dell’operazione-Westbrook, invece, non è più il giocatore che da giovane mirava a battere il record di assist di Stockton, ma resta comunque un arciere che ha ancora diverse frecce nella faretra. E ci tiene a farlo sapere al mondo intero. In questa stagione,nei momenti clutch delle partite (ovvero quelli con differenziale di 5 punti a 5 minuti dalla fine) ha segnato più punti di chiunque. Certo, è stato aiutato dal fatto che i Thunder abbiano giocato finali di gara con questo scarto per 42 volte, più di tutte le altre squadre della Lega. Per Chris però non si tratta solamente di quantità: per i giocatori con almeno 60 tiri tentati in quelle situazioni (fra cui è terzo assoluto per tiri totali, con 68) è il secondo per percentuale realizzativa, con il 68% dietro solo al 70.6% di Terry Rozier. Il record dell’ex bostoniano in quei finali tuttavia recita 15 vittorie e 16 sconfitte, quello di Paul un ben più ragguardevole 29-13. Un’eccellenza di portata storica: prendendo i migliori 15 per numero di canestri dal campo tentati nelle ultime 24 stagioni (ovvero da quando i dati sono disponibili sul sito della NBA), solo Mehmet Okur nella stagione 2006/07 ha registrato una percentuale migliore, del 68.4%.

Il tutto senza dimenticare l’orto felice del midrange, dove con almeno 100 tiri tentati è il primo per percentuale realizzativa, con il 53.9%.

Il suo è un contributo a cui i Thunder non possono fare a meno. Su 100 possessi, quando è in campo segnano 6.7 punti in più degli avversari, quando è fuori, 6.7 in meno: +13.4 di differenza. Con almeno 1000 minuti giocati, nessuno migliore di lui.

Impressionante la carrellata dei suoi tiri decisivi in questa stagione

Insomma, dopo la crescita e la presunta morte “sportiva”, una rinascita. Un ciclo di cui si era già sentito parlare riferito ad un Dio, ripetutosi per il Point God.

Eppure, una sequenza di questo tipo nella carriera di Chris Paul non è esattamente una novità.

Quel 2 maggio, la gara 7 contro gli Spurs non finì con l’ingresso nel tunnel degli spogliatoi. A 6 minuti e 27 secondi dal termine della prima metà di gara, CP3 tornò in campo. Nonostante un movimento per nulla fluido riprese da dove aveva lasciato, come se fosse guidato da una forza superiore. Oltre i problemi di falli di Griffin, oltre la solidità di Duncan e le fiammate di Green, continuò a tenere a contatto i Clippers, con una tripla sulla sirena di fine terzo quarto che lasciava intravedere bagliori di una gloria futura.
8 secondi e 8 decimi dalla fine del match. Punteggio sul 109 pari. Rimessa in attacco per i Clippers, per l’ultima occasione concreta per decidere la gara. Ricezione per Griffin, pallone consegnato a Paul all’altezza della metà campo. Con un incedere barcollante si lanciò a canestro; Green era attaccato, Duncan arrivò in aiuto a centro area.

Chi ha sempre avuto fede nel Point God sapeva già come sarebbe andata a finire.

 

“Il paziente sopporta fino al momento giusto, ma alla fine sgorgherà la sua gioia. Fino al momento opportuno terrà nascoste le sue parole e le labbra di molti celebreranno la sua saggezza.”

Siracide 1:23-24

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