illustrazione grafica di Paolo Mainini
articolo di Roberto Gennari

 

 

The ones that hate me the most look just like me

You tell me what that means

Make a slick comment and see what that brings

[…]

My homeboy Tyler, he play in South Beach

He told me this summer he gon’ fix my jumper

 

La stagione da incorniciare dei Miami Heat 2019-2020, capaci di tornare alle NBA Finals dopo un relativamente breve calvario iniziato con l’addio di LeBron James e proseguito con le sfortune incredibili capitate a Chris Bosh e terminato con l’addio al basket giocato di Dwyane Wade, è sicuramente figlia di tanti fattori, primo tra tutti la firma di Jimmy “Buckets” Butler, uno dei giocatori più competitivi dell’intera NBA. E senza tralasciare la crescita esponenziale di Bam Adebayo e Duncan Robinson, la presenza nel roster di giocatori d’esperienza come Goran Dragic, Andre Iguodala e Jae Crowder, e last but not least l’apporto alla causa fornito dai rookie terribili Kendrick Nunn (primo quintetto all-rookie) e Tyler Herro (secondo quintetto). Proprio quest’ultimo, però, con il passare delle partite di playoff si è ritagliato un ruolo sempre più centrale nelle rotazioni di coach Spoelstra, complici anche i numerosi problemi fisici di alcuni compagni, certo, ma sapendo sfruttare nel migliore dei modi l’occasione che gli si parava davanti: quella di recitare un ruolo da protagonista, con la faccia tosta dei suoi vent’anni, in una cavalcata trionfale che ha portato gli Heat alla loro quinta finale NBA degli ultimi 10 anni, la sesta della loro storia.

 

Falsa partenza.

Chissà chi l’avrebbe detto, dei quasi 19000 spettatori presenti quella sera del 6 novembre 2018 alla Bankers Life Fieldhouse di Indianapolis, Indiana: probabilmente nessuno. Chi l’avrebbe detto che neanche due anni dopo la smorfia cattiva di quel giocatore che aveva indosso la maglia numero 14 dei Kentucky Wildcats sarebbe diventata virale in tutto il mondo, durante delle NBA finals giocate tra fine settembre e inizio ottobre, ad Orlando, senza pubblico, in una bolla progettata per preservare i giocatori e gli addetti ai lavori della NBA da una pandemia mondiale.

I Wildcats guidati da coach John Calipari, squadra numero 2 del ranking universitario prestagionale, si beccano, nel Champions Classic che segna il loro debutto stagionale, un’imbarcata colossale dalla Duke di coach Krzyzewski e del trio delle meraviglie composto da Zion Williamson, R.J. Barrett  e Cam Reddish. Una bella passata di straccio che suggella come i Blue Devils quell’anno saranno la squadra-copertina per tutta la stagione: 118-84, ovvero la sconfitta più sonora nei 10 anni di gestione di Calipari, la peggiore dal -41 patito da Vanderbilt nel 2008 e la dodicesima peggiore nella storia di Kentucky. Duke che fa tutto quello che vuole per tutta la partita e UK che si salva solo a rimbalzo, dove il differenziale dalla squadra di Durham è minimo: 38-37 sotto le plance, grazie soprattutto ai 9 rimbalzi tirati giù da… Tyler Herro?

Un momento: da Tyler Herro? Non da PJ Washington, ora titolare agli Hornets? Non dal senior Travis Reid, che rispetto a Tyler ha in più circa 10 cm e 20 kg, oltre ai tre anni di esperienza? No, da Herro, che nel naufragio totale di quella partita chiude con 14 punti, 9 rimbalzi, 5 assist e 2 stoppate, risultando il migliore dei suoi nelle ultime tre voci statistiche citate. Non si poteva immaginare un debutto peggiore a livello di squadra, ma se non altro il freshman da Milwaukee ha dato segnali confortanti.

Foto Espn

Giocatore che Calipari ha voluto fortemente dopo che la sua stagione da senior alla Whitnall HS (32.9 punti, 7.4 rimbalzi, 3.6 assist e 3.3 recuperi le sue medie, con oltre il 50% dal campo e il 43% da tre punti) lo aveva issato fino al numero 30 della ESPN Top 100, il ranking più cliccato relativamente ai prospetti provenienti dalle High School. Lo aveva voluto così tanto da fargli ritirare la preiscrizione a Wisconsin University, procurandogli così involontariamente la più tosta esperienza di vita che gli sia mai successa. Da celebrità locale a traditore, una mattina gli Herro si svegliano e trovano l’esterno della loro casa completamente vandalizzato con della vernice rossa e la scritta “FUCK B.B.N.! GO WISCONSIN!” (dove con B.B.N. Si intende la Big Blue Nation, ovvero come si definiscono i tifosi di Kentucky). Il non ancora diciottenne figlio di Chris e Jennifer Herro riceveva insulti, minacce di morte e amenità simili ogni volta che metteva un piede fuori di casa. Tutto per aver deciso di giocare per un college che gli dava delle prospettive migliori di approdare in NBA.

Quell’anno Kentucky aveva reclutato ben cinque prospetti di interesse nazionale, e tuttavia Herro era solo il quinto in questa graduatoria, con un grade di 89: prima di lui, nei report, venivano Keldon Johnson, proveniente dalla fucina di campioni di Oak Hill Academy, accreditato del settimo posto con un grade di 94, E.J. Montgomery, Ashton Hagans e Immanuel Quickley.

Comunque, nonostante i cinque esordienti di assoluto livello, la stagione di Kentucky ha una falsa partenza, addio alla posizione numero 2 del ranking NCAA, mai più raggiunta durante tutta la stagione, anche se poi, alla fine, Duke e Kentucky chiuderanno entrambe la stagione il 31 marzo, ad un passo dalle Final Four.

 

Interludio.

Facciamo un sunto: Keldon Johnson ha giocato qualche partita coi San Antonio Spurs e qualcuna in G-League con gli Austin Spurs. E.J. Montgomery ha giocato un altro anno a Kentucky, e dopo due stagioni tutt’altro che memorabili in NCAA si trova attualmente in Lituania nelle fila del BC Nevėžis. Ashton Hagans ha giocato anche lui un paio di stagioni a Kentucky per poi dichiararsi eleggibile per il draft 2020, finire undrafted, firmare un two-way contract coi Minnesota Timberwolves – ad oggi non ha ancora giocato un minuto in NBA. Immanuel Quickley è stato invece scelto nel draft 2020, veste la maglia dei New York Knicks di cui guida la second unit facendo da cambio ad Elfrid Payton e tirando più o meno qualsiasi pallone gli capiti fra le mani. Tyler Herro ha messo a referto 20 partite consecutive in doppia cifra nei playoff nel suo anno da rookie (record NBA), segnando più di 300 punti nella sua prima postseason (meglio di lui solo Kareem Abdul-Jabbar, Jayson Tatum e Alvan Adams) e diventando il giocatore più giovane di sempre a partire in quintetto in una partita di finale NBA, a 20 anni e 256 giorni, superando di soli otto giorni il primato precedente, appartenente ad un certo Magic Johnson.

Foto gq.com

 

Riscossa e caduta.

Kentucky, però, non è così tremenda come il debutto contro Duke lasciava temere i tifosi dei Wildcats. Dopo la sonora batosta della partita sopra citata, UK vince 10 delle 11 partite successive, si prende lo scalpo di North Carolina in una partita giocata allo United Center di Chicago, e nel corso della regular season vince 17 delle 18 gare giocate tra le mura amiche della Rupp Arena. Tyler Herro, come spesso capita ai freshmen, va a corrente alternata. Nella seconda partita, contro Southern Illinois, il suo tabellino dice 0 punti con 0-6 dal campo. Le cose vanno meglio andando avanti nella stagione: 18 punti con 5 recuperi contro Norht Dakota, per altre 5 volte segna 15 o più punti nelle successive 8 gare. Ritoccherà il suo season high per altre due volte: il 29 dicembre contro Louisville (24 e 10-13 dal campo) e il 26 febbraio contro Arkansas, indubbiamente la sua miglior prova balistica nell’anno trascorso a Kentucky: 29 punti con 9-10 dal campo e 6-6 dalla lunetta. Ma la cosa che maggiormente impressiona Calipari e gli addetti ai lavori è la sua capacità di difendere. Certo, non parliamo di Gary Payton, ma per uno che al liceo era conosciuto come un realizzatore onnipotente, al punto di esclamare agli avversari “I’m a bucket” mentre la palla doveva ancora infilarsi in fondo alla retina (e sì, ovviamente ci hanno fatto la maglietta, su questa frase, la trovate per esempio qui), il suo coach si era detto impressionato positivamente della sua attitudine in single coverage sulle guardie avversarie al punto da affidargli spesso il tiratore avversario più temuto, pur avendo in squadra Keldon Johnson che era invece noto per la tenacia difensiva già al liceo. Tyler ha voglia di emergere, ed è intelligente a sufficienza, nonostante la giovane età, da capire che le partite non si vincono mai su un solo lato del campo.

Foto Ben Solomon/NCAA Photos via Getty Images

Kentucky approda alla March Madness chiudendo la regular season con due vittorie, ottenendo il secondo posto della SouthEastern Conference alle spalle di LSU, un po’ a sorpresa in testa alla SEC. Il secondo posto, frutto di 15 vittorie e 3 sconfitte, permette a UK di avere qualche giorno di riposo: dopo la vittoria con Florida alla Rupp Arena, che vede Herro miglior realizzatore di Kentucky a quota 16 con 6 rimbalzi e zero palle perse, ci sono ben sei giorni di riposo prima del quarto di finale del torneo SEC che vede i Wildcats affrontare Alabama. Sono le sei di pomeriggio quando i ragazzi di Calipari scendono sul parquet della Bridgestone Arena di Nashville, Tennessee, e da circa quattro ore sono i favoriti numero uno alla vittoria del torneo di conference, visto che nella prima partita dei quarti di finale Florida ha eliminato a sorpresa LSU. UK però non sente troppo la pressione, anzi. Herro è il miglior realizzatore dell’incontro a quota 20 con 8 su 14 dal campo, Alabama è tenuta al 30% dal campo e sconfitta 40-30 sotto le plance. Una delle migliori partite dell’anno per UK, ma non ci si può rilassare. Il giorno dopo è in programma la semifinale, l’avversario è più probante.

Tennessee è 28-4 fin lì in stagione, ma soprattutto è stata capace di rifilare 19 punti di scarto ai Wildcats un paio di settimane prima. La partita va avanti punto a punto per 31 minuti abbondanti, quando sul 58-57 in favore di Tennessee, Kentucky piazza un parziale di 10-2 che la porta al primo vero break della gara quando mancano 6 minuti alla sirena finale. Gli uomini di Calipari riescono a conservare il vantaggio e quando il cronometro dice 2:58 dalla fine, il gioco da tre punti di Keldon Johnson manda i suoi avanti 72-64. Ma come spesso accade nelle partite di pallacanestro collegiale, basta un nulla per cambiare l’inerzia della partita: Grant Williams mette a segno cinque punti in tredici secondi, complice anche una persa sanguinosa di Herro, ed ecco che le certezze di Kentucky cominciano a scricchiolare. In meno di un minuto e mezzo, il controparziale di Tennessee dice 11-2, e alla fine la partita si chiuderà sul punteggio di 82-78 per Tennessee. Tyler Herro chiude con 10 punti, ma non segna mai negli ultimi 16 minuti di gara.

Addio finale del torneo di conference, che poi sarà vinta da Auburn, al suo secondo successo dopo quello del 1985, ma adesso si fa sul serio.

Inizia The Big Dance, e Kentucky strappa comunque una testa di serie numero 2. Il primo turno è poco più di una formalità, Abilene Christian sepolta con un 79-44 che la dice lunga sul divario tra le due squadre, con Herro e soci capaci di chiudere 44-17 la sfida a rimbalzo. Ma è al secondo turno che il nome di Tyler viene scritto con inchiostro indelebile nei taccuini di un numero sempre più ampio di scout NBA, e paradossalmente ciò avviene in una partita in cui le polveri del diciannovenne del Wisconsin erano decisamente bagnate. Se Herro chiude infatti con soli 9 punti, frutto di un 2-11 dal campo abbastanza tremendo, mitigato in parte dai 6 rimbalzi e dai 4 assist, la partita contro Wofford toglie ogni residuo dubbio che il numero 14 di Kentucky sia uno che fa sul serio. Di fronte a lui, Fletcher Magee, il giocatore col maggior numero di triple segnate nella storia della Division I NCAA, ben 509 in 133 partite, col 44% di realizzazioni. Calipari lo affida ad Herro, e Tyler lo ripaga alla grande. Il suo avversario chiuderà con 0-12 da tre, nuovo record negativo nella storia del torneo. Wofford torna a casa, UK si sposta da Jacksonville, dove ha giocato le prime due gare, a Kansas City, dove ad attenderla c’è Houston. E Herro si prende ancora una volta il palcoscenico, risultando ancora una volta il miglior realizzatore di Kentucky con 19 punti. Si va alla finale del regional, di fronte Auburn che non ha nulla da perdere, avendo già vinto il torneo di conference e messo insieme una delle migliori performance della propria storia in un torneo NCAA. Chi vince va alle Final Four, e in partita secca si sa, può succedere di tutto. Anche che Kentucky, che a inizio di secondo tempo è avanti di 7, sbagli per due volte il tiro della vittoria e perda all’overtime. Herro non gioca una gran partita dal punto di vista offensivo, è contratto, sente la tensione del momento e chiude con 3-11 dal campo e 6 assist. Non va mai in lunetta, che per lui è sempre stata un rifugio sicuro: la sua unica stagione a Kentucky si chiude con il 93,5% a cronometro fermo e 14 punti di media.

 

Il numero 14 alla numero 13.

Gli scout lo danno a metà primo giro del draft NBA, per la sua capacità di accendersi offensivamente e trovare buoni tiri, e per l’abnegazione messa in mostra anche sul lato del campo dove, inevitabilmente, tra i professionisti è destinato ad avere le difficoltà maggiori. Zion Williamson, che poi verrà chiamato alla 1, dice di lui che è il più sottovalutato tra i prospetti del draft. Herro, che da bambino andava a vedere le partite di Marquette, è cresciuto nel culto di Dwyane Wade, che proprio in maglia Golden Eagles ha mosso i primi passi di una carriera leggendaria. Miami ha la scelta numero 13, ed è intenzionata a chiamare una guardia per supportare Goran Dragic e Jimmy Butler. Sa di giocarsela con Romeo Langford, che solo un anno prima era molto più quotato di lui (ESPN lo dava come quinto miglior liceale d’America), è sicuramente più atletico ma meno disposto ad applicarsi in difesa e meno tiratore da oltre l’arco. Così, nei workout pre-draft, è lui a dissipare ogni dubbio di Pat Riley.

Foto Steve Freeman/NBAE via Getty Images

La chiamata numero 13 viene spesa dai Miami Heat per lui. E Tyler trova spazio da subito nelle rotazioni di coach Spoelstra. 14 punti, 8 rimbalzi e 2 recuperi all’esordio contro i Grizzlies, altri 14 contro i Bucks tre giorni dopo, addirittura 29 con 7 rimbalzi alla sua quarta presenza contro gli Hawks. Miami aveva già capito di avere tra le mani un giocatore che aveva qualcosa di speciale, e non parliamo della sicurezza nei propri mezzi quanto della voglia di fare sempre cose utili per la squadra. Gli Heat però hanno intenzione di creare un contesto vincente da subito, rinvigoriti nelle proprie ambizioni dal roster messo a disposizione del coach, che li fa a detta di tutti gli addetti ai lavori una possibile mina vagante ad Est. Per Herro vale il discorso del bastone e della carota: quando gioca bene, il suo tempo sul parquet è cospicuo. Quando non è in serata, da buon rookie può tranquillamente guardare i suoi compagni dalla panchina. C’è bisogno di fare in modo che questa sicurezza nei propri mezzi non diventi presunzione, è questa la convinzione di coach Spo: e allora, dopo essere andato per 25 volte in doppia cifra nelle sue prime 38 presenze in maglia rossonera, ecco i primi dolori della crescita. DNP contro gli Spurs a metà gennaio, DNP la partita successiva contro i Thunder, solo 9 minuti sul parquet con 0 punti ancora contro gli Spurs, appena meglio contro i Kings, quando viene schierato per 17 minuti e chiude con 6 punti, il giorno del suo ventesimo compleanno. Negli Heat in quei giorni brilla la stella di Kendrick Nunn, che rispetto a Herro ha 5 anni in più e una continuità di rendimento maggiore. Ma Tyler è più maturo di quanto i suoi vent’anni e la sua faccia da bambino lasciano pensare: aspetta il suo momento, sa che coach Spoelstra ha fiducia in lui e che deve solo farsi trovare pronto. Lo sarà poco dopo, quando torna di nuovo sopra i 20 punti contro i Wizards (due giorni dopo la gara coi Kings) e contro i Magic, quando ne realizza 23 in 26 minuti. Nei minuti iniziali della partita con Philadelphia del 3 febbraio però si infortuna ad un piede: sta fermo un mese, e rientra gradualmente a partire dall’11 marzo. Nell’ultima partita che Miami gioca prima del lockdown dovuto alla pandemia. Per lui appena 7 minuti, giusto per fargli riprendere confidenza col campo.

 

Orlando.

We’ve been living life inside a bubble

Confidence in you is confidence in me

Is confidence in high speed

Lo stop forzato, lunghissimo, della stagione gli permette di riprendersi appieno dall’infortunio subito, e quando Miami entra nella bolla di Orlando Tyler è un giocatore più determinato che mai. Col senno di poi, in molti hanno detto che Miami ha beneficiato più di altre squadre della scelta della bolla di Orlando, perché l’assenza di pubblico ha permesso al coregiovane degli Heat di esprimersi senza troppe pressioni: certo, può esserci del vero, ma è una visione riduttiva della faccenda. Tyler Herro, per chi lo segue da prima delle minacce di morte, degli insulti e in generale da prima della sua strepitosa post-season, è sempre stato questo tipo di giocatore qui. Che non ha paura di prendersi i tiri pesanti, come del resto aveva fatto anche prima dello stop alla stagione. Come successe contro i Chicago Bulls, avanti 95-94 a 15 secondi dalla fine. Jimmy Butler va in penetrazione, Harrison non si fa battere, Dunn collassa su di lui, Jimmy la scarica fuori dove Herro è solo, fronte a canestro, il cronometro dice che mancano meno di 9 secondi alla sirena, Tyler riceve palla mentre sta già caricando il tiro: solo rete. O ancora, contro Philadelphia il 28 dicembre 2019, una partita che i Sixers sembravano intenzionati a portarsi a casa dopo che la tripla di Embiid li aveva portati sul 106-101 con un minuto da giocare e Adebayo e Butler avevano riportato sotto Miami. Embiid riceve spalle a canestro, praticamente sulla linea dei tre punti, mancano 12 secondi alla fine. Butler gli tocca la palla, Herro ci si avventa prima di tutti, guida la transizione, ha la lucidità di non chiudere il palleggio e riportarsi fuori dalla linea dei tre punti (senza mai guardare a terra), si prende la tripla e manda Miami avanti 107-106 con 6.9 secondi dalla sirena, mandando in visibilio una American Airlines Arena strapiena.

Gli Heat vinceranno queste due partite ai supplementari, e chi ai tempi di Whitnall HS lo paragonava ad un serpente non aveva tutti i torti: di sicuro non gli è mai mancato il sangue freddo. Ovvio, nella bolla tutto è diverso, e la concentrazione può essere massimizzata. Complice l’assenza di Dragic nelle due partite contro Bucks e Suns, Herro vede aumentare il suo minutaggio sopra i 30 minuti, e ripaga la fiducia di coach Spo con grandissime prestazioni. 20 punti contro i Bucks, 25 più 10 assist e 8 rimbalzi contro i Suns di uno dei suoi giocatori preferiti, quel Devin Booker di cui ha ammesso più volte di studiare il gioco cercando di replicarne i movimenti. Quattro giorni dopo, contro i Thunder, ritocca il suo career high segnando il suo primo trentello (con 6 rimbalzi). Nelle prime dieci partite giocate nella bolla, Tyler è 25-25 dalla lunetta. E qui comincia la parte della storia che sappiamo tutti. 4-0 ai Pacers, Herro sempre sopra i 15 punti. 4-1 ai Bucks, con Tyler sempre in doppia cifra e capace di tirare giù 8 rimbalzi in gara 3 e in gara 5. 4-2 ai Celtics, con la tripla doppia sfiorata (12 punti, 11 rimbalzi, 9 assist) in gara 1 e i 37 punti in gara 4, vinta da Miami soprattutto grazie alle giocate del suo numero 14, capace di metterne a referto 17 nel solo quarto quarto. Le finals, la giocata che chiude gara-3, la smorfia ormai famosissima

La sensazione sempre più nitida che quello di Herro sia un libro con ancora un sacco di capitoli da scrivere, adesso che è al suo secondo anno e Spoelstra gli ha aperto, probabilmente in via definitiva, le porte del quintetto base. I 21 punti con 15 rimbalzi contro i Bucks, i due trentelli consecutivi contro Washington e Philadelphia. Ci saranno altri momenti difficili, come spesso accade ai giocatori NBA al secondo anno, quando nessuno è più disposto a farsi fregare da loro. Ma quello che più di ogni altra cosa stupisce e riempie gli occhi di meraviglia sono gli istinti di questo giocatore, che sa sempre con esattezza dov’è la linea dei tre punti, dove sono i suoi compagni per imbeccarli con un passaggio, anche nel traffico, dove andrà la palla per raccogliere il rimbalzo, quando è il momento di attaccare e quando è meglio rendersi utile per la squadra. Il contesto, rispetto ad altri rookie, lo ha certamente aiutato: a Miami non si è dovuto mai caricare la squadra sulle spalle, e questo gli ha permesso e gli sta permettendo di crescere tecnicamente molto in fretta. Lui sa che non deve strafare, e quando lo fa, Spoelstra è abilissimo a riportarlo nei giusti binari. Sicurezza in sé stessi, mai presunzione. Così si spiega il nickname del suo account Instagram, @nolimitherro.

Ci credereste che ha appena 21 anni?

Foto Usa Today

 

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