illustrazione grafica di Paolo Mainini
articolo di Daniele Vecchi

 
 
 

“Se parli di Jordan, devi parlare anche di Pippen.

Tutti dicono che io ho vinto questi Titoli NBA, ma non avrei vinto senza Scottie Pippen.

Ecco perché lo considero il miglior compagno di sempre”

Michael Jordan

 

 

Il nome di Scottie Pippen è e sarà sempre indelebilmente legato a quello di Michael Jordan.

Lo sappiamo.

Ma è anche vero il contrario.

Scottie Pippen non ha mai vinto un Titolo NBA senza Michael Jordan.

Ma è anche vero il contrario.

Sei volte Campione NBA, due Ori Olimpici, sette volte All-Star e una volta MVP dell’All Star Game, otto volte consecutive NBA All-Defensive First Team, tre volte All-NBA First Team, membro del Dream Team originale di Barcelona 1992, uno dei 50 Greatest Players in NBA History, uno dei soli sei giocatori NBA ad aver totalizzato almeno 3000 punti, 1000 rimbalzi e 1000 assist nei playoff, uno dei pochi nella storia ad aver vinto almeno due titoli NBA e due Ori Olimpici.

Il partner ideale per Michael Jordan, una sicurezza in difesa e il primo giocatore di cui Michael si è fidato offensivamente. Senza strafare, senza togliere spazio offensivo a MJ, pur dando il massimo di quello che poteva dare. Infatti nelle due stagioni del primo ritiro di Jordan dopo il primo Three-Peat, 93-94 e 94-95, le medie punti di Scottie non sono particolarmente variate, rimanendo sempre sui 21-22 punti di media a partita. Investito di una leadership che nessuno poteva avere, né a Chicago né da nessun’altra parte, i Bulls e il mondo si sono accorti che nemmeno Scottie poteva supplire alla mancanza di Michael. Ma con il ritorno di Jordan, Pippen è ritornato ad essere un fattore fondamentale per Chicago, pur rendendo la vita un po’ più difficile alla sua squadra nella ultima stagione 1997-98, a causa della operazione al tendine della caviglia fatta volutamente (per sua stessa ammissione) durante la stagione, per danneggiare i Bulls e in particolare Jerry Krause, ritenuto da Scottie il responsabile della sua situazione contrattuale poco remunerativa.

Infatti dopo i primi tre anni di contratto da rookie (equivalente a 765.000 dollari l’anno), Pippen ha firmato con i Bulls un contratto di sette anni non rinegoziabile. Quello è stato il vero cruccio della carriera di Scottie.

Alla cerimonia di consegna degli Anelli allo United Center di Chicago l’1 novembre 1997. Scottie Pippen, in borghese per l’operazione, si presentò al pubblico visibilmente emozionato, pronunciando parole che somigliavano molto ad un discorso d’addio.

“Nel caso fosse l’ultima occasione, vi ringrazio” ha detto, con la voce rotta, e a tutti sembrava che il suo tempo nella windy City fosse finito.

Fu chiaro infatti fin dalla off season 1997 che Jerry Krause aveva intenzione di rinnovare completamente la squadra dopo la fine della successiva stagione, e non ne faceva mistero. Fu qui infatti che nacque l’idea di “The Last Dance”, la documentazione di tutta la stagione, che è sfociata nel fortunato documentario di Netflix uscito nella primavera del 2020. Proprio da The Last Dance arrivano questi numeri che risultano essere chiarissimi, a riguardo dello sbilanciamento tra stipendio percepito da Pippen e il suo rendimento sul campo per i Bulls:

-2° in punti realizzati

-2° in rimbalzi catturati

-2° per minuti giocati

-1° in assist

-1° in palle recuperate

Tutto questo nella squadra campione NBA e tra le più forti di tutta la storia NBA. Da contraltare infatti vi sono questi altri numeri impietosi:

-6° tra i Bulls come stipendio

-122° tra i giocatori NBA come stipendio

Nel 1991 Scottie ha infatti firmato un contratto per sette anni, per un totale di soli 18 milioni di dollari, una cifra che già dopo pochi anni non rendeva assolutamente onore al valore di Pippen all’interno del pianeta NBA. Per quanto si parli sempre di stipendi astronomici per comuni mortali, è indubbio che Scottie sia stato per anni sottovalutato, se si paragona il suo stipendio al suo rendimento. E i Bulls, c’è da dire, ne hanno approfittato, sempre, fino all’ultimo.

Intervistato in The Last Dance, l’allora proprietario dei Bulls Jerry Reinsdorf dichiarò:

“Non ricordo bene i termini di quel contratto, ma ricordo che era un contratto lungo,  poco conveniente per lui. Gli dissi le stesse cose che avrei detto a Michael, che se fossi stato in lui non avrei firmato quel contratto, ti stai sottovalutando in un contratto troppo lungo. Ma sappi che non rinegozio mai i miei contratti”.

foto ESPN

E così fece, quindi Pippen rimase intrappolato nel suo contratto, pur divenendo ben presto uno dei migliori giocatori della NBA.

Pippen: “Non me la sentivo di rischiare. Se mi fossi infortunato non avrei più avuto modo di mantenermi, dovevo pensare alla mia famiglia e a prendermi cura di loro”.

La firma di quel contratto coincise proprio con il boom mondiale della NBA, gli stipendi ben presto si alzarono a dismisura, e parecchi giocatori molto meno bravi di Scottie ottennero contratti di gran lunga superiori al suo.

Nella stagione 1997/98, l’ultima del suo contratto, Scottie era arrabbiato, dopo tutto quello che aveva dato ai Bulls, si sentiva sminuito e frustrato, indirizzando la sua rabbia sempre verso colui che riteneva essere il principale responsabile di tutta quella situazione, Jerry Krause, peraltro l’artefice della sua scoperta, a Central Arkansas, letteralmente in mezzo al nulla cestistico.

Pippen in quella ultima stagione a Chicago fece un “dispetto” ai Bulls.

Aveva problemi al tendine d’achille della caviglia sinistra fin dai Playoffs 1997, e invece che farsi operare nella off season, si fece operare all’inizio della stagione successiva, lasciando i Bulls senza di lui per alcuni mesi.

Le sue testuali parole:

“Avevo il tendine della caviglia sinistra messo molto male, ma decisi di farmi operare in seguito. Ho pensato che non avevo intenzione di buttare via l’estate con la riabilitazione, tanto…non credevo sarei mancato più di tanto alla squadra. Mi sono goduto l’estate e ho usato la prima parte della stagione per prepararmi”.

foto www.chicagotribune.com

Scottie voleva usare la minaccia di non giocare metà stagione per avere un adeguamento del contratto, ma Krause non aveva intenzione di mollare, quindi Pippen non ottenne nulla, e si operò ad inizio ottobre 1997, all’inizio del training camp, mettendo in difficoltà Chicago.

 

Nato a Hamburg, Arkansas, cittadina rurale di 3500 abitanti, ultimo di 12 figli, Scottie aveva in mente solo una cosa, giocare a basket per uscire dalla povertà e dai problemi, anche se le parole del fratello Billy sono un monito e fanno riflettere:

“Eravamo molto affiatati, condividevamo tutto, erano tempi belli, non sapevamo di essere poveri”.

Parole meravigliose che mettono sotto una luce diversa anche uno stato di indigenza dichiarato. La felicità familiare prescindeva dalla ricchezza, per la famiglia di Scottie, anche in tempi che si fecero via via sempre più duri.

Robbie, il fratello di Scottie, secondogenito della famiglia, durante una lezione di educazione fisica alle scuole superiori, fu vittima di un incidente con un compagno, che gli cadde addosso, costringendolo sulla sedia a rotelle per tutta la vita.

A questo si aggiunse sei anni dopo anche la tragedia che colpì il padre, Preston, quando Scottie aveva circa 12 anni:

“Mio padre era appena rientrato a casa, e mentre stava cenando cadde all’indietro, aveva avuto un ictus. Rivedo ancora quella scena ogni volta che ci ripenso… perse l’uso della parola e fu costretto per tutto il resto della sua vita su una sedia a rotelle e a letto”.

foto Scottie Pippen-Twitter

L’indigenza della sua famiglia fu uno dei motivi che portarono Pippen a sottoscrivere il prima possibile un contratto vantaggioso, a quel tempo, per poter sistemare tutti, un gesto nobile e comprensibile, che però negli anni si è quasi ritorto contro di lui. Scottie infatti è risultato essere suo malgrado “troppo forte” per il suo contratto, dimostrando di essere una pedina fondamentale della scacchiera dei Bulls in vista della corsa al Titolo NBA e soprattutto della lotta contro i Detroit Pistons per la supremazia  della Eastern Conference.

Ma il suo viaggio per arrivare nella NBA non è di certo stato un percorso da predestinato.

Passato assolutamente inosservato alla Hamburg High School, non ricevendo nessuna offerta di Scholarship universitaria per il basket, pur avendo portato i Lions ai playoffs di stato (da playmaker), Scottie arrivò alla Università di Central Arkansas, non esattamente North Carolina, come addetto all’equipaggiamento della squadra, cercando di allenarsi con la squadra come poteva.

Pippen al liceo

Non era ancora molto alto ed era magrissimo, pur avendo un grande agonismo e saltando moltissimo.

Scottie era ai margini della squadra, al suo primo anno, ma accadde che si liberarono alcune borse di studio per il basket, e Pippen parlando insistentemente con il coach, riuscì ad averne una, tra lo scetticismo generale.

Da freshman era 1.84 per 70 chili, e aveva un amplissimo spazio per migliorare. Nell’estate successiva crebbe di 13 centimetri, per poi arrivare a 2 metri nella stagione successiva, prendendo peso muscolare, tecnica, e una immensa fiducia in sé stesso. Una guardia nel corpo di una solida ala, con tutte le caratteristiche dell’uno e dell’altro ruolo espresse al massimo, il tutto condito da una atleticità dirompente e una voglia di emergere fuori dal normale. Persino l’allora Governatore dell’Arkansas e futuro Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton si mosse per andare a vedere questo giovane da UCA che stava facendo faville, pur essendo sempre comunque nel NAIA Tournament e non nell’NCAA. Questo non impedì a Jerry Krause di tenere sott’occhio Pippen, dandogli fiducia invitandolo ai workout dei Bulls, dove l’allora GM di Chicago si rese definitivamente conto di quale perla stava per accingersi a scegliere.

In uno scambio all’ultimo secondo con i Seattle SuperSonics, Krause riuscì ad accaparrarsi Pippen alla Quinta chiamata assoluta all’NBA Draft del 1987, cedendo alla Città della Pioggia la Ottava (utilizzata per chiamare lo Sceriffo Olden Polynice, a quel tempo alla Hamby Rimini).

foto www.chicagotribune.com

A quel tempo nessuno aveva mai sentito parlare di Pippen, prima di lui vennero chiamati nomi altisonanti della NCAA come gli All American David Robinson, Armen Gilliam, Dennis Hopson e Reggie Williams, tutti prospetti dall’apparente grande futuro, su cui gli scout NBA riponevano grandi aspettative.

Con il sennò di poi ovviamente abbiamo scoperto che il solo Ammiraglio David Robinson ha poi mantenuto in pieno le promesse, divenendo uno dei più forti centri della NBA in quegli anni, vincendo poi alcuni Titoli NBA con gli Spurs al fianco di Tim Duncan.

L’impatto di Pippen su quei Bulls fu importante, fin dalla sua stagione da rookie.

La sua energia, il suo atletismo e la sua fame di vittoria aiutò Chicago ad essere una squadra stabilmente da Playoff, anche se con qualche meccanismo ancora da oliare.

Scottie era carico a mille, aveva talmente tanto entusiasmo che talvolta dimenticava di essere “solo” un rookie, cosa che gli veniva ricordata costantemente dai duri dello spogliatoio, come Charles Oakley, che lo bullizzava continuamente (sempre bonariamente, pare), come anche testimoniato in una breve clip in The Last Dance.

foto ESPN

Dopo il suo primo anno di assestamento, chiuso con una media di 7.9 punti a partita e 1.2 palle recuperate a gara (il migliore dei Bulls assieme a Sam Vincent) venendo dalla panchina, Scottie divenne ben presto un punto di riferimento non solo difensivo ma anche offensivo per i Bulls di Doug Collins, una spalla perfetta per Jordan in attacco (in quella stagione totalizzò 14.4 punti a partita) e un difensore fisico e scaltro.

In quella stagione 1988-89 e in quella successiva però, nonostante Chicago si presentasse alla post season da vera contender per la Eastern Conference, i rossoneri cozzarono duramente contro i Detroit Pistons, in una delle rivalità più accese di sempre. Le Eastern Conference Finals erano, al Chicago Stadium e alla Joe Louis Arena, vere e proprie battaglie, i Bad Boys di Detroit misero a dura prova la magistrale qualità offensiva di Jordan, con i giovani sophomore Scottie Pippen e Horace Grant, due duri al servizio di MJ, che trovarono pane per i loro denti con Bill Laimbeer, Dennis Rodman, John Salley e l’arcinemico di Jordan, Isiah Thomas.

Furono serie spettacolari e durissime, quelle del 1989 e del 1990, che videro sempre i Pistons avere la meglio, vincendo poi di rincorsa anche il Titolo NBA in entrambe le stagioni.

Scottie in quei due anni di Playoff, ne uscì parzialmente ridimensionato, vedendo la propria produttività offensiva e la propria incisività difensiva calare nettamente quando i Bulls arrivavano ad affrontare Detroit. L’ “apice” del ridimensionamento di Pippen in quegli anni di rivalità con i Pistons, arrivò in Gara 7 della Eastern Conference Finals 1990, quando Scottie fu colpito da una forte emicrania, tirando 1 su 10 dal campo e giocando una pessima partita, come tutti i Bulls, asfaltati da Detroit 93-74 al Palace di Auburn Hills. In quei giorni i media parlarono di Scottie Pippen e della sua emicrania, venne dipinto come un timorato dei Pistons, come un giocatore che soffre fisicamente e mentalmente la durezza di Detroit, e come un giocatore in fondo inutile alla causa di Michael Jordan e dei Bulls, se non riesce a salire di livello con questi picchi di fisicità.

L’impatto dell’uomo da Central Arkansas è stato comunque importante, Jerry Krause aveva pescato un giocatore dal torneo NAIA e lo aveva fatto diventare la spalla ideale per il più forte giocatore della NBA. Il futuro era roseo, per quei Bulls.

Dopo le delusioni del 1989 e del 1990 infatti arrivarono gli anni del primo Three-Peat dei Bulls, di cui la apoteosi arrivò proprio all’inizio, nelle Eastern Conference 1991, dove Chicago annichilì i Pistons sul loro stesso piano, sul piano del gioco fisico, della durezza e della aggressività, culminando nella famosa e famigerata uscita da parte di Detroit senza salutare o dare la mano ai Bulls dopo la sconfitta, situazione ben raccontata anche questa in The Last Dance.

E quella fu la grande rivincita di Pippen dopo le ingenerose critiche dell’anno prima.

In Finale quell’anno i Bulls sconfissero 4-1 i Los Angeles Lakers di Magic Johnson, in un ideale passaggio di consegne, da dinastia a dinastia.

foto John W. McDonough

Pippen intanto stava crescendo sempre più, le sue cifre offensive e la sua tenacia difensiva miglioravano di stagione in stagione (passò da 7.9 punti nel 1988 a 21 di media nel 1992), dimostrando di essere senza mezzi termini la vera seconda superstar dei Bulls. Al momento di firmare un contratto importante, nella off season del 1991, come detto, Scottie scelse di firmare un contratto lunghissimo, 7 anni, per un totale di 17 milioni di dollari.

Nel 1992 i Bulls vinsero il Titolo NBA sconfiggendo in finale i Portland Trail Blazers di Clyde Drexler, mentre nel 1993 fu il turno dei Phoenix Suns dell’MVP Charles Barkley, andato in Arizona da Philadelphia per “Vincere un Titolo”, cosa che non è mai accaduta.

foto Getty Images

Scampoli e flash di immagini di Jordan e dei Bulls in quelle due Finals, la faccia beffarda e sorridente di MJ di fronte al compianto Cliff Robinson dopo l’ennesima tripla consecutiva messa a segno al Chicago Stadfum su Portland, o lo scarico di Horace Grant per John Paxon per il tiro vincente a tre secondi dal termine di Gara 6 a Phoenix, ma Scottie, quasi nell’ombra, ha lavorato duramente, in attacco, essendo il terminale offensivo degli scarichi dopo il raddoppio su Jordan, e soprattutto in difesa, limitando al meglio prima Clyde Drexler e poi Charles Barkley, impedendogli di fatto di essere così devastanti come d’abitudine.

Fu questo il vero miracolo di quei Bulls, non solo la magia dei 30, 40, 50 punti di Michael, o la durezza di Horace Grant o il sangue freddo di John Paxon. Il segreto di quei Bulls veniva da Hamburg, Arkansas, ed era maledettamente efficace e vincente.

Arrivò il primo ritiro di Jordan, nella stagione 1993-94, e tutto il peso dell’attacco dei Bulls ricadde suo malgrado su Scottie, che però non ebbe una particolare impennata di rendimento, barcamenandosi sui 22 punti di media a partita, supportato da Horace Grant e da BJ Armstrong, con il rookie Toni Kukoc che comunque prometteva bene.

Scottie giocò comunque una grande stagione, portando i Bulls ad una stagione da 55 vittorie e 27 sconfitte, giocando forse il suo miglior basket in carriera.

All Star Game 1994 – foto NBA

Le critiche però ovviamente non mancarono, incapace di prendere in mano la squadra senza Jordan, leader mancato, poca personalità e tante altre cose che lo fecero andare in crisi, soprattutto nella postseason. I Bulls rimanevano sempre comunque una ottima squadra da Playoff, e dopo aver superato il primo turno eliminando ancora una volta i Cleveland Cavaliers 3-0, la truppa di Phil Jackson si abbattè sui New York Knicks di Pat Riley, con i quali ingaggiarono una dura serie lunga sette partite, finendo per soccombere di fronte ai più motivati Knicks di John Starks e Pat Ewing.

In Gara 3, con Chicago sotto 0-2 nella serie, accadde il fattaccio che diede ragione a tutti i detrattori di Pippen.

Durante quella gara vi fu una brutta rissa tra Derek Harper e Jo Jo English, rissa che terminò tra le prime file del Chicago Stadium in mezzo agli spettatori, con Phil Jackson che nel tentativo di sedare si ritrovò a terra, e con David Stern basito e pensieroso ad osservare il parapiglia a pochi metri di distanza.

A 5 secondi dal termine, con i Bulls avanti di un punto, Pippen aveva tra le mani la palla per chiudere la gara, sbagliando malamente il tiro incolpando Kukoc del proprio errore con un errore di posizione. Nel possesso successivo Pat Ewing andò a segno con un gancio, portando i Knicks avanti a 1.8 secondi dal termine.

Durante il successivo timeout di Chicago, Jackson chiamò un gioco per Toni Kukoc e non per Pippen.

Scottie si arrabbiò tantissimo e non si presentò in campo per l’ultima azione.

Phil Jackson disse “Fuck him! Pete Myers, come on in!”

Kukoc fece giro e tiro e segnò, vincendo lui Gara 3 per i Bulls.

Chicago perse quella serie, ma perse soprattutto Scottie Pippen e tutte le residue velleità di leadership che gli erano rimaste. Era chiaro che un leader non si comportava in quel modo, non anteponeva le proprie smanie realizzative per la squadra, e che così facendo avrebbe mancato di rispetto a tutti, compagni, avversari e tifosi. Michael Jordan invece, in The Last Dance, prese le difese di Pippen, non spiegandosi il motivo per cui Jackson, che conosceva molto bene Pippen e sapeva quanto se la sarebbe presa, fece quella chiamata.

Verrebbe da dire “per vincere”, come in effetti è stato. Se quello che contava era vincere, ha avuto ragione Phil Jackson.

L’ambiente Bulls era comunque destabilizzato dalla scelta di Scottie, che si dichiarò dispiaciuto per essersi comportato così, ma che in un secondo momento dichiarò che, nella stessa situazione, probabilmente si sarebbe comportato ancora allo stesso modo. In quella serie i Knicks ebbero la meglio 4-3, proiettadosi verso le NBA Finals, in cui vennero sconfitti dagli Houston Rockets di Hakeem Olajuwon.

Con il ritorno di Jordan nella parte finale della stagione 94-95 i Bulls ritornarono ad essere una contender vera, e Scottie Pippen ritornò ad essere lo Scottie Pippen che avevamo ammirato fino al 1993, ovvero un magnifico secondo violino per i Bulls. Vi fu la grandissima stagione 95-96, con l’arrivo di Dennis Rodman ad aumentare l’intensità difensiva di Chicago, il combo Jordan-Pippen-Ron Harper fu uno spettacolo offensivo e di esecuzione del Triangolo, anche grazie all’intelligenza cestistica di Rodman e Luc Longley, e dei giocatori che venivano dalla panchina come Toni Kukoc, Steve Kerr e Bill Wennington.

foto www.fadeawayworld.net

I Bulls vinsero il Titolo NBA dopo una straordinaria stagione regolare da 72 vinte e 10 perse, volando nei Playoff eliminando Miami, New York e Orlando, maltrattando poi i Seattle Supersonics di Shawn Kemp in Finale, suggellando ancora una volta la apoteosi di Michael Jordan, in una sorta di perfetto romanzo sportivo a lieto fine.

Nelle due stagioni successive continuavano ad esserci grandissime aspettative attorno a Chicago, prima con il Re-Peat e poi con il Repeat the Three-Peat, aspettative ampiamente ripagate dai Bulls, che come sappiamo batterono due volte in Finale nel 97 e nel 98, gli Utah Jazz di John Stockton e Karl Malone, consegnando alla storia NBA una delle più grandi dinastie di sempre.

Come era intuibile, durante queste tre stagioni vincenti, le statistiche di Pippen rimasero circa le stesse del primo Three-Peat e dell’era senza Jordan, sempre con una grande dedizione difensiva e sempre al massimo, a dispetto di tutte le diatribe contrattuali e di tutta la situazione societaria, con il front office che, come detto, aveva già ampiamente dichiarato la prossima epurazione a partire dalla stagione 1998-99.

foto ESPN

Questo la dice lunga sul livello di professionalità di Pippen durante quegli anni, che pur commettendo errori e pur facendo anche scelte sbagliate, quando si trattava di vincere, da squadra, Scottie faceva sul serio, al pari di Jordan.

Dopo la stagione di Repeat the Three-Peat, come già ampiamente annunciato nei mesi precedenti, Pippen lasciò i Bulls, accasandosi agli esperti Houston Rockets, raggiungendo una pattuglia di veterani (Charles Barkley, Hakeem Olajuwon e Eddie Johnson) con l’intento di vincere il Titolo velocemente, tribolando però tra infortuni e condizione fisica, anche a causa del lockout e della stagione ridotta.

foto Slam

I Rockets di Scottie vennero eliminati al primo turno di Playoff dai Los Angeles Lakers, gialloviola che saranno sulla strada di Scottie anche nella stagione successiva, in una delle più grandi rimonte della storia NBA.

Correva infatti la stagione 1999-2000, e Pippen si accasò agli ambiziosi Portland Trail Blazers, con Damon Stoudamire, Rasheed Wallace e Bonzi Wells nel pieno della loro esplosione al massimo livello, e con i veterani europei Arvydas Sabonis e Detlef Shrempf a dispensare chicche di intelligenza cestistica. Quei Blazers erano una squadra favolosa, ed erano i più accreditati sfidanti ai Lakers, che nonostante la diatriba tra Shaq e Kobe sempre ai ferri corti, erano i favoriti per rappresentare la Western Conference alle NBA Finals.

Lakers e Blazers si affrontarono nelle Western Finals, e sul risultato di 3-3, allo Staples Center, Portland giocò tre quarti da favola, sopra di 13 punti con il quarto quarto da giocare. Los Angeles rimontò e andò a vincere quella gara, guadagnando l’accesso alle Finals, conquistando poi l’Anello NBA battendo 4-2 gli Indiana Pacers in finale.

Da quella gara i Blazers non si riebbero più, per stagioni intere, e fu anche l’ultima chance per Scottie di conquistare un Titolo NBA lontano da Chicago, con la volontà di dimostrare che poteva farcela anche senza Michael Jordan.

foto www.slamdunk.gr

Pippen trascorse altre tre stagioni a Portland (stavolta ben retribuite) senza particolari sussulti, prima di tornare a Chicago nella sua ultima versione NBA nella stagione 2003/2004, in una tormentata squadra perdente che ha avuto tre allenatori in stagione (Bill Cartwright, Pete Myers e Scott Skiles), chiamato dall’ex compagno di squadra John Paxon, ai Bulls come GM.

Investimenti sbagliati e amici sbagliati sono stati purtroppo i protagonisti della vita di Pippen dopo la carriera cestistica, problemi finanziari reiterati hanno segnato la esistenza post-basket di questo straordinario giocatore, visto comunque in gran forma in The Last Dance.

Ecco, The Last Dance.

Le parole di Scottie sulla fortunata serie di Netflix sono al vetriolo, ovviamente nei confronti di Michael Jordan:

“Mi ha fatto passare come un comprimario.

‘Il mio miglior compagno di sempre’, ha detto.

Ogni episodio era uguale all’altro, Michael sul piedistallo e i suoi compagni in secondo piano, come sempre ci ha spacciati per il suo supporting cast.

Se vincevamo era Michael a vincere, se perdevamo invece tutte le critiche erano per noi.

Michael Jordan non sarebbe mai stato Michael Jordan senza di me, Horace Grant, Toni Kukoc, Dennis Rodman, John Paxon, Steve Kerr, Bill Cartwright, Ron Harper, B.J. Armstrong, Will Perdue e Bill Wennington. Mi scuso per quelli che non ho nominato”.

 

Parole forti, quelle di Scottie, che si uniscono al coro di altri ex giocatori dei Bulls che non hanno gradito il modo in cui sono stati dipinti in The Last Dance. In difesa di Michael, semmai ce ne fosse stato bisogno, è corso immediatamente il famoso giornalista Stephen Smith, solitamente senza peli sula lingua:

“Io voglio bene a Scottie, è stato uno dei più grandi giocatori di tutti i tempi, ma il problema principale per lui, è semplicemente che lui NON è Michael Jordan”.

Parallelamente all’uscita lo scorso anno del suo libro Unguarded, Pippen ha lanciato il suo nuovo brand di bourbon, una nuova avventura imprenditoriale per lui, che al momento sembra andargli bene.

Nella promozione del suo libro, Scottie fu anche intervistato da Michael Strahan (leggendario giocatore dei New York Giants campioni NFL 2008, battendo anche grazie a lui gli imbattuti -fino a quel momento- New England Patriots) per la ABC, ripercorrendo la sua carriera e ribadendo ciò che aveva dichiarato su Jordan dopo The Last Dance.

La ultima domanda di Strahan fu questa:

“Come ti piacerebbe essere ricordato?”

Scottie ha risposto così, senza nessun tentennamento:

“Come il più grande di tutti i tempi”.

Questa affermazione la dice tutta sulla opinione che Scottie ha di sé stesso, anche se il suo sorriso finale può anche essere interpretato come autoironia, nello sdrammatizzare la diatriba con Michael Jordan post The Last Dance.

Ognuno ovviamente ha le proprie opinioni, rimane il fatto, probabilmente inconfutabile, che Scottie Maurice Pippen Jr. è stato uno dei più grandi giocatori della storia del gioco.

Previous

Guida alla stagione NBA 2022-2023

Next

"Il fattore L": intervista a Luca Banchi

1 comment

  1. Vivo a due passi dal Farris Center, la palestra della University of Central Arkansas dove Scottie spiccò il volo. Bello vedere il vostro tributo a colui che qui considerano una leggenda. Grazie!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Check Also