Domani notte ricomincia la NBA, e come sempre abbiamo preparato una comoda Guida nella quale trovate i roster e le analisi semi-serie di ogni squadra, le info su dove vederla in tv e in streaming. Alla fine di tutto trovate un grafico interattivo di Fabio Fantoni: potete perderci una marea di tempo cliccandoci sopra e scoprendo una valanga di statistiche.

La Guida è stata realizzata con passione, sangue, sudore e tequila di: Matteo Soragna, Roberto Gennari, Marco Munno, Davide Romeo, Giorgio Barbareschi, Luca Spadacenta, Daniele La Spina, Fabio Fantoni ed Emanuele Venturoli.

Per prima cosa, rispondiamo alla domanda che ci viene fatta 365 giorni l’anno, giorno e notte, mattino e sera:

DOVE SI VEDE L’NBA?

Rispetto all’anno scorso non c’è nessun cambiamento. L’NBA resta visibile tramite il player ufficiale della NBA, Nba League Pass, e tramite il canale tv di SkySport.

L’abbonamento a Nba League Pass (potete farlo cliccando QUI) costa molto meno rispetto all’anno scorso: € 99 anziché i € 169 dell’anno scorso (regular season + playoff) e permette di vedere tutte le partite di tutte le squadre in diretta e On Demand. In aggiunta ci sono altri servizi come ad esempio gli highlights di 10 minuti di ogni partita tutte le mattine, un archivio con molte partite del passato ed tanto altro. Anche l’abbonamento premium (che permette la visione contemporanea su due dispositivi) cosa molto meno: € 129 anziché i 199 dell’anno scorso.

Sky, come sempre, è l’unica possibilità per vedere le partite NBA con telecronaca in italiano di Tranquillo, Pessina, Mamoli, Soragna, Crespi, Bonfarderci, Vismara. Le partite trasmesse in diretta ogni settimana sono di norma 6 e l’abbonamento (per i neo-abbonati) parte da € 30,90 al mese (pacchetto TV+SPORT e potete farlo cliccando QUI). Oltre alle partite, SkySport trasmette tutto il week end dell’All Star Game, la notte del Draft, degli speciali e una striscia quotidiana all’interno del telegiornale di SkySport 24.

I canali Sky sono visibili anche sulla piattaforma online NOW: l’abbonamento (pass sport) costa € 9 il primo mese oppure 19 euro per 4 mesi, e potete sottoscriverlo QUI.

 

Ed ora ecco il nostro ranking per l’Est ed anche per l’Ovest. Importante: il 99.9% di chi fa pronostici ad inizio anno, non li azzecca. E noi di certo non rientriamo nello 0.1%.

Buona lettura!

 

 

 

#15 INDIANA PACERS

di Roberto Gennari

Quando uno guarda ai movimenti di mercato degli Indiana Pacers ha un po’ la stessa sensazione che ha quando per la prima volta alle superiori il prof di matematica cerca di spiegargli le derivate: non ci capisco niente, quindi o è una roba per pochi eletti o una cosa inutile – o magari entrambe le cose insieme.

Posto che sia palese il tentativo di mettere in piedi un rebuilding, non certo il primo di questi anni, ma sicuramente necessario dopo le stagioni in fotocopia con coach McMillan (sempre fuori al primo turno di playoff, in tre occasioni su quattro con lo sweep), quella a dir poco incolore con coach Bjorkgren e la scorsa, la prima col “cavallo di ritorno” Rick Carlisle, c’è da capire da che parte vogliano farsi i paladini dello stato dell’Indiana, zona dove peraltro si è piuttosto esigenti in quanto a basket. Via Sabonis, via Brogdon, via financo Caris LeVert, le chiavi della squadra sono state lasciate nelle mani di Tyrese Haliburton e Buddy Hield, che statisticamente hanno anche fatto bene, peccato che la squadra sia arrivata al terzultimo posto della Eastern Conference, con appena quattro squadre in tutta la NBA capaci di fare peggio delle 25 vittorie messe insieme dai Pacers, che hanno poi convertito la sesta scelta del draft 2022 nella guardia canadese Bennedict Mathurin (sulle sue dichiarazioni prestagionali siamo tutti d’accordo che possiamo sorvolare, si?), che andrà a spartirsi i minuti nello spot di 2 con la guardia canadese Chris Duarte, che non aveva sfigurato nel suo anno di debutto in NBA, finendo anche nel secondo quintetto all-rookie. A completare il quintetto ci saranno, negli spot 4 e 5, l’ex Maryland Jalen Smith, uno che  che a Phoenix aveva lasciato dubitare circa un futuro in NBA per lui -tranne un breve lasso di tempo in cui aveva approfittato dell’assenza di Ayton per mettere insieme cifre interessanti – e che invece nello scampolo di stagione scorsa disputato a Indianapolis si è assestato su buoni livelli, e Myles “né-carne-né-pesce” Turner, uno che è alla sua ottava stagione in maglia Pacers e che probabilmente porterà alla causa i consueti 12 punti a partita, poco più o poco meno, e i soliti 7 rimbalzi, poco più o poco meno. Uno che, come Hield del resto, non è stato lasciato partire perché probabilmente non c’era la fila di pretendenti alla porta del front office dei Pacers. Ora, lasciando per un attimo da parte il fatto che hai una discreta guardia al secondo anno e al draft scegli un’altra guardia, il problema poi è che il resto della second unit non sembra di livello: TJ McConnell, detto “Rocco” vai a capire perché, Oshae Brissett, Isaiah Jackson, Goga Bitadze, che ahilui rischia di farsi ribattezzare “Godot”…

Che dire? Con ogni probabilità saranno una delle squadre in corsa per Wembanyama, ma intanto il popolo dell’Indiana, per quanto appassionato di basket, ha deciso di aspettare tempi migliori, e i Pacers rischiano di finire in fondo alla lega anche per presenze alle partite casalinghe, dove già lo scorso anno hanno chiuso al ventottesimo posto su 30.

Stagione da 20 punti e 10 assist di media per Tyrese? Non ce la sentiamo di escluderlo a priori… 

 

#14 ORLANDO MAGIC

di Marco Munno

Per una squadra in piena ricostruzione, uno dei principali obiettivi è strappare la scelta numero 1 assoluta nel draft, e in quello del 2022 per i Magic è andata alla grande. Tra i tre candidati (Banchero, Holmgren e Smith) ad Orlando, nonostante le voci contrastanti, hanno virato sull’italiano, con Paolo a rappresentare la prossima speranza di diventare giocatore franchigia per un team che, riempitosi di prospetti, ora ne attende l’esplosione. Già nella scorsa stagione ci sono stati alcuni segnali positivi, alternati tanti a momenti negativi, in un’altalena tipica di un gruppo giovane: ci si attende che, con il nucleo del presente e nei migliori auspici del futuro ad avere un’annata di esperienza in più (coach Mosley compreso), aumentino le luci e diminuiscano le ombre. Ad esempio, in attacco: i Magic nella scorsa stagione sono risultati i peggiori della Lega per Offensive rating e i penultimi per punti segnati a gara. Le esplosioni individuali sono state discontinue (come quelle di Cole Anthony) o ancora all’inizio, come quella di Franz Wagner che ad Eurobasket ha confermato come non fosse un’esagerazione inserirlo nel discorso fra i migliori rookie della scorsa stagione. Al loro fianco, in un quintetto completato da Wendell Carter Jr. (nella scorsa stagione al massimo in carriera per media punti e rimbalzi, con 15 + 10.5) e un altro ragazzo dalle grandi prospettive come Jalen Suggs, sarà Banchero stesso a dover assicurare punti e a dover cementare la stessa intesa difensiva con gli altri componenti del quintetto base che aveva Mo Bamba, in una lineup sorprendentemente sesta assoluta per defensive rating fra le 27 ad aver giocato assieme almeno 200 minuti nel 2021/22. Al fianco di Bamba, ci saranno R.J. Hampton e Bol Bol come ragazzi interessanti in uscita dalla panchina (oltre al veterano Terrance Ross, a Chuma Okeke e al maggiore dei fratelli Wagner), mentre le speranze su una carriera luminosa per Markelle Fultz diventano sempre meno, visti i suoi ripetuti infortuni. E pensare che non è neanche il più bersagliato da quegli infortuni che sono stati una piaga nella passata stagione per i Magic (che hanno visto 449 gare saltate per problemi fisici dai propri giocatori, primi nella speciale graduatoria), vista la presenza a roster di quel Jonathan Isaac dedicatosi nel corso del suo interminabile recupero alle più disparate teorie complottiste. E’ molto difficile che questa stagione nella città di DisneyWorld ci si ritrovi ai playoff: ma se il giovane talento ammassato inizierà a maturare, non mancherà neanche troppo.


Novembre 2021: Cole Anthony diventa il terzo più giovane della storia dei Magic a mettere un trentello contro i Jazz a novembre e a fine gara al microfono si presenta così 



 

#13 DETROIT PISTONS

di Marco Munno

Quando due anni fa Troy Weaver diventò il General Manager dei Pistons, la situazione che si ritrovò davanti era disastrosa: da Van Gundy ereditò un roster pieno di giocatori poco congeniali per tornare in alto, dai contratti pesanti e dalla tenuta fisica e mentale relativa, quasi senza spazio salariale. Passate due stagioni, con una frenetica attività sul mercato da 17 trades e 150 milioni sborsati nella free agency, ha trasformato la squadra della Motor City in quella più avanti nel proprio processo fra quelle impegnate nella ricostruzione basata sui giovani. Da Andre Drummond, Blake Griffin e Christian Wood a impattare negativamente su spaziature, spogliatoio e cap si è passati ad un gruppo con le proprie punte di diamante sul perimetro, dedito al lavoro e con una serie di contratti in scadenza proprio nella prossima estate, così da liberare tanto spazio per la free agency del 2023. Non tutte le scelte fatte dal GM sono state sempre condivisibili (come riempire inizialmente il roster di lunghi, o sacrificare delle scelte, come nella cessione di Kennard, sebbene fosse un controsenso rispetto allo status di squadra in ricostruzione); tuttavia ad oggi la visione di Weaver sembra chiara, con il desiderio di puntare specificatamente su giocatori dalla buona attitudine sul parquet e pesche di livello ai draft. A partire dal ragazzo designato come prossimo uomo franchigia, quel Cade Cunningham prima scelta assoluta nella scorsa stagione, dove dopo le fatiche iniziali ha messo in mostra i motivi per cui è considerato una delle star del futuro: su un telaio di tutto rispetto ha montato un tiro e un playmaking sempre più convincenti, per non parlare delle qualità in difesa che massimizzano le potenzialità del fisico (a partire dalla lunghezza degli arti). Mentre dalla panchina si alzeranno come cambi nel backcourt i veterani Cory Joseph e Alec Burke e un altro giovane come Killian Hayes, a fargli compagnia come guardia ci dovrebbe essere Jaden Ivey, una delle storie più interessanti dello scorso draft (nonno ex defensive back in NFL ai Detroit Lions, madre ex cestista nella WNBA alle Detroit Shocks, padre ex cestista nella high school alla Detroit Country Day School, lui non poteva che finire a Detroit). L’altro esterno sarà Sadiq Bey, diventato sempre più una certezza come realizzatore. A proposito di realizzatori affidabili, è arrivato Bojan Bogdanović, scaricato dai Jazz e accolto nella Motor City per il suo contratto in scadenza: potrebbe portare preziosa esperienza alla causa insieme al tiro da fuori, giocando in ala. Dove le gerarchie non sono del tutto chiare, relativamente allo spot da occupare insieme al lungo di riferimento. Bojan, così come il sophomore Isaiah Livers, fanno da alternative per quintetti small; Marvin Bagley e un Isaiah Stewart provato come ala forte in preseason (dove ha mostrato miglioramenti al tiro da fuori) possono dare a coach Dwane Casey maggiore fisicità nel ruolo, giocando eventualmente anche insieme o in combinazione a Jalen Duren, il rookie più giovane di questa classe, paragonato dallo stesso coach a un giovane Shawn Kemp. Probabilmente è ancora presto per l’ingresso dalla porta principale dei playoff, ma un pensierino al play-in nella Motor City si può già fare…

Per Jaden Ivey, Detroit è una questione di famiglia



 

#12 CHARLOTTE HORNETS

di Giorgio Barbareschi

Dopo aver perso nei play-in in ciascuna delle ultime due stagioni, gli Charlotte Hornets hanno deciso di cambiare allenatore: via James Borrego dopo quattro anni e dentro Steve Clifford, che ha allenato la squadra dal 2013 al 2018 raggiungendo per due volte la postseason (quando ancora Kemba Walker era… Kemba Walker). 

Obiettivo che non appare per nulla semplice, a meno che oltre alle pentole LaMelo Ball non inizi a fare anche i coperchi. Dopo aver vinto il titolo di Rookie of the Year nel 2021, nella passata stagione Ball è stato per la prima volta All-Star ed è stato uno dei soli cinque giocatori della NBA a registrare una media di oltre 20 punti, sette assist e sei rimbalzi a partita, anche se può ancora migliorare in difesa, nella selezione di tiro e nella gestione della sfera (3,3 perse di media non sono poche, anche per uno che ha quasi sempre la palla in mano).

La tegola più grossa che è cascata sulla testa degli Hornets durante la offseason ha un nome e un cognome: Miles Bridges è attualmente in attesa di giudizio dopo essere stato accusato di violenza domestica e, anche se si è dichiarato non colpevole (ma gli indizi sono pesanti), la squadra lo ha sospeso a tempo indeterminato. Nella scorsa stagione Bridges è stato il miglior marcatore degli Hornets, con una media di 20.2 punti, 7 rimbalzi e 3.8 assist a partita. 

Sostituirlo non sarà facile, perchè Rozier è un discreto role player ma ha limiti evidenti mentre Gordon Hayward è ormai l’ombra del giocatore che era a Utah (sempre che riesca a rimanere sano). Si punterà sui giovani, in particolare James Bouknight, P.J. Washington e Jaden McDaniels: tutti e tre hanno meno di 24 anni e dovranno sfruttare tutte le opportunità che gli verranno offerte. 

Sarà anche interessante vedere in campo il big man esordiente Mark Williams, centro da Duke che ha vinto il premio di difensore dell’anno della ACC. Aspetto che lo rende particolarmente adatto a Charlotte, visto che gli Hornets l’anno scorso erano 22esimi come rating difensivo. 

L’impressione è però che quello in arrivo sarà un anno difficile per la franchigia del North Carolina, purtroppo non il primo e presumibilmente nemmeno l’ultimo…


E pensare che gli Hornets hanno un giocatore in grado di fare queste cose qui.



 

#11 WASHINGTON WIZARDS

di Giorgio Barbareschi

Dopo un paio d’anni di tira e molla, in estate Bradley Beal ha finalmente sciolto le sue riserve e firmato un rinnovo contrattuale da 251 milioni di dollari che lo legherà ai Wizards per i prossimi cinque anni (salvo ulteriori ripensamenti, che nella NBA attuale sono ormai all’ordine del giorno). La dirigenza ora si augura che possano arrivare anche le vittorie, considerato che la franchigia della capitale ha mancato la postseason in tre delle ultime quattro occasioni, e che nell’unica stagione “buona” è comunque arrivato soltanto un gentleman sweep dai 76ers al primo turno.

Oltre al rinnovo del loro All Star, in offseason la franchigia si è assicurata anche i servizi di Will Barton e Monte Morris, entrambi in uscita da Denver, Taj Gibson e Delon Wright. Nulla per cui strapparsi i capelli, ma tutti giocatori che in modi e tempi diversi potranno dare il loro contributo alla causa. Con la pick numero 10 al draft è stato scelto Johnny Davis, guardia da Wisconsin dotata di un fisico importante, che sa far valere su entrambi i lati del campo, tiro e personalità.

Se aggiungiamo questi nomi a quelli di Kyle Kuzma, Kristaps Porzingis (arrivato a stagione in corso da Dallas), Rui Hachimura, Corey Kispert e Dani Avidja possiamo capire come i Wizards che si presentano ai nastri di partenza della prossima stagione saranno una squadra profonda e con alternative credibili in quasi tutti i ruoli. Basterà però questo a garantirsi i playoff e, possibilmente, magari anche un passaggio del turno? Difficile, perché per arrivarci Washington avrà probabilmente bisogno di una stagione monstre di Beal, di un Porzingis sano e magari (ma magari) disposto a far valere i propri centimetri in mezzo all’area, oltre che di un Kuzma capace di compiere un ulteriore salto di qualità. Se anche solo uno di questi fattori dovesse venire a mancare, è probabile che Washington si ritroverà ancora a battagliare per una posizione tra la otto e la dodici, aprendo il fianco a nuovi malumori di Beal che, supermax o meno, potrebbero di nuovo finire per metterlo sul mercato.

In estate, Beal si è divertito a seguire la cavalcata dell’amico Frances Tiafoe agli US Open

 

 

#10 TORONTO RAPTORS

di Daniele La Spina

I Toronto Raptors sono uno dei prototipi del gioco moderno, divertenti e dinamici da vedere e hanno nel roster quelli che potrebbero tranquillamente essere gli asset del futuro per le squadre da anello. Con quasi nessun movimento operato in off-season, la loro stagione non si prospetta tanto diversa da quella della rinascita dell’anno scorso, il 48-34 di record e il primo turno Playoff.

Insomma margini di crescita e possibilità di far diventare stelle le proprie starlette è sotto gli occhi di tutti, ma ha l’obbligo di andare pari passo al gap che si è creato con le Contender ad Est: tutte in un modo o nell’altro apparentemente migliori della scorsa stagione. I Raptors si candidano quindi a essere di nuovo la quinta o sesta forza, approfittando di qualche buco strutturale e/o di fato in quelle che partono davanti ai blocchi di partenza. Per essere competitivi il tutto passa sicuramente dalla forte atipicità del gioco della squadra di Nick Nurse, che l’anno scorso è stata quint’ultima per percentuali effettive dal campo ma è stata in grado di giocare 7 opportunità di tiro in media più della squadra affrontata. Non una grande precisione ma alta attenzione sui recuperi e sulle costruzioni delle azioni. Il tutto grazie ai suoi tre nomi principali: Pascal Siakam, Fred VanVleet e Scottie Barnes.
Siakam è un giocatore chiave: ala forte atipica, “piccolo” ma dinamico, ha chiuso la scorsa stagione a 23 punti e 8 rimbalzi di media, dimostrando di saper sopperire alle caratteristiche fisiche con la duttilità. Se la tenuta fisica di OG Anunoby sarà solida, e con l’arrivo di Otto Porter Jr., il suo spazio si ridurrà leggermente, per minuti sotto canestro e per numero di tiri. Potrebbe guidare per alcuni minuti la second unit e in generale alzare i propri volumi alla voce assist, già più che decenti. In ogni caso i prodromi per un’altra ottima stagione ci sono, magari quella di un nuovo picco, se si adatterà velocemente ai cambiamenti.

Chi si è adattato molto velocemente alla lega è stato invece Scottie Barnes, che ora dovrà dimostrare di non essere un fuoco di paglia. Nulla lo fa pensare, dato che il Rookie Of The Year si è meritato largamente il premio. Se già l’anno scorso ha trovato spazio, quando tutti pensavano partisse dalla panchina, figuriamoci quanto i Raptors saranno disposti a fidarsi di lui ora. Questo toglierà palloni a VanVleet, su cui il prodotto di Florida State dovrà lavorare ancora dai tre punti. Nell’off-ball la lacuna maggiore da colmare è quella sulle marcature difensive, a tratti lascive, ma è nelle sue corde e in quelle della squadra. Il costume da uomo franchigia sembra potergli calzare a pennello.

Ultimo ma non ultimo è Fred VanVleet, su cui resta poco da dire: i suoi numeri parlano per lui e il resto lo delinea il suo talento. È innegabilmente il punto fermo della squadra e conoscendo i suoi limiti nel pitturato sta estendendo sempre più il proprio raggio d’azione. Dal punto di vista difensivo è una roccia, specie a fianco a Gary Trent Jr, da quello dello smistamento nulla fa pensare che non possa fare un ottimo lavoro nonostante le tante bocche da sfamare.

Funambolici e già costruiti, c’è solo da migliorare per i canadesi. Drinking game per fegati allenati: shottino ogni volta che trovano una soluzione offensiva che non vi aspettavate.


Varietà e fantasia in attacco, rocciosità in difesa: i Raptors giocano come avremmo sempre voluto giocare noi a NBA 2K

 

 

 

#9 NEW YORK KNICKS

di Davide Romeo

Nella mia tesi di laurea ho postulato che le squadre che operano in grandi market godono di un vantaggio naturale nell’attrarre nomi di prestigio. Città più grandi, maggiore visibilità mediatica, numerose opportunità commerciali: ha senso vero? Ecco, nonostante ciò, per una ragione o per l’altra, ogni anno i Knicks vanno a caccia del grande nome della free agency e ogni anno si ritrovano rifiutati come tutti noi con la nostra prima cotta alle medie. 

Fallito il tentativo di assicurarsi Donovan Mitchell, rilevato lo scarso interesse di Kevin Durant, la squadra di New York ha puntato un centone di milioni su Jalen Brunson, emerso prepotentemente a Dallas come secondo regista alle spalle di Doncic e leader offensivo all’occorrenza. Il potenziale c’è, ma si tratta di un giocatore con lacune evidenti (difesa, tiro da tre) e che dovrà trovarsi a gestire un attacco molto meno funzionale di quello di Dallas con 104 milioni di motivi per sentirsi sotto pressione e senza Doncic come coperta di Linus nei momenti difficili: qualche dubbio è dunque legittimo. 

Altri complessivi 200 milioni sono stati impiegati per i rinnovi della guardia-ala RJ Barrett e del centro Mitchell Robinson, ovvero dei due giocatori che, insieme ad Obi Toppin e tre prime scelte, erano stati offerti per Donovan Mitchell… Barrett è forse la gemma più pregiata del roster, ha pochi rivali nella capacità di attaccare il ferro ed è anche un ottimo difensore sugli esterni: se riuscisse a trovare costanza e solidità al tiro potrebbe fare il salto di qualità e diventare un All-Star. Robinson ha mezzi atletici fuori dal comune che lo rendono ottimo a rimbalzo e come stoppatore, ma ha un repertorio offensivo scadente e il suo IQ cestistico lascia a desiderare, specie dopo quattro anni da titolare, però il suo rinnovo era necessario perché era il meglio che offriva il convento.
L’innesto di Isaiah Hartenstein in questo senso è ottimo, il tedesco è forse il miglior rim protector in uscita dalla panca e potrà dare un ottimo contributo. 

Julius Randle al momento è un enigma: due anni fa era l’All-Star trascinatore della squadra, adesso, pur registrando su numeri importanti (20+10),  sembra che la squadra giochi meglio senza di lui.
Non ha certo aiutato il rapporto deteriorato con la tifoseria, che lo ha più volte fischiato e ne ha chiesto a gran voce la cessione, acclamando per contro il giovane Obi Toppin che si è dimostrato di portare costantemente energia e punti in uscita dalla panca.

Evan Fournier partirà ancora titolare, ma non ha certo dimostrato la gravitas o la costanza per potersi imporre da leader nella giovane squadra dei Knicks: è lecito aspettarsi che si troveranno soluzioni alternative nel backcourt, con il solido Immanuel Quickley e l’ottimo difensore Quentin Grimes che hanno dimostrato affidabilità e potranno diventare dei buoni comprimari. In panchina ci sarebbe anche Derrick Rose con una quindicina di punti nelle mani, il tema è che nelle ultime stagioni ha giocato appena una cinquantina di partite: sarebbe un successo riuscire a preservarlo almeno per il finale di stagione, quando i palloni diventano pesanti.

I Knicks si trovano nella terra di nessuno, troppo forti per un convinto tanking e troppo deboli per sperare in un accesso diretto ai playoff: le quaranta vittorie e la qualificazione al play-in sono però alla portata. Il fallito tentativo di fare all-in su Mitchell ha consentito al front office di mantenere una serie di scelte al draft e di giovani talenti che potrebbero tornare utili in una stagione che, con ogni probabilità, avrà un mercato molto attivo: dunque non è da escludere assistere a partenze inaspettate e piccole rivoluzioni nel giro di qualche mese.


Il figlio di Randle è un vero tifoso Knicks

 

 

#8 ATLANTA HAWKS

di Giorgio Barbareschi

Considerando il calibro degli altri nomi che si sono mossi in estate, definire blockbuster deal la trade con cui gli Hawks si sono garantiti i servigi di Dejounte Murray potrebbe sembrare eccessivo, ma allo stesso tempo il valore dell’operazione non può essere sottostimato.

In primo luogo per la contropartita che Atlanta ha concesso ai San Antonio Spurs (tre prime scelte, di cui due non protette, e una pick swap), in secondo perchè Murray è un All Star giovane, completo e con ancora grandi margini di miglioramento. Che però questa mossa possa cambiare radicalmente il destino degli Hawks è tutta un’altra faccenda.

Atlanta è reduce da una stagione ampiamente al di sotto delle aspettative. Se è vero infatti che, dopo la rocambolesca finale di Conference conquistata nel 2021 ai danni dei Sixers, nella scorsa offseason i dubbi che gli Hawks avrebbero potuto confermarsi come una reale contender erano molti, altrettanto è stato deludente vedere Young e compagni languire per tutta la regular season nei bassifondi dell’Est, zavorrati da una difesa (vabbè, “difesa” è forse un termine eccessivo) ben al di sotto dello standard di accettabilità, fino alla mesta uscita contro i Miami Heat al primo turno dei playoff.

In questa nuova stagione, la presenza di Murray dovrebbe sia aiutare a contenere le emorragie difensive sul perimetro che a tenere a galla l’attacco nei minuti in cui Young va in panchina (lo scorso anno il differenziale su cento possessi era di quasi dieci punti in meno). Dal canto suo, Trae dovrà accettare di giocare un po’ di più off the ball, magari esplorando qualche situazione in più in uscita dai blocchi, ed elevare almeno un po’ il commitment nella sua metà campo, fino ad oggi davvero ai limiti della decenza.

La cessione di Huerter rischia di essere una mossa rischiosa, perché priva gli Hawks di un giocatore molto pericoloso dal perimetro che avrebbe fatto sicuramente comodo, ma Atlanta spera di poter compensare con un maggiore impiego di Bogdan Bogdanović riducendone la permanenza in infermeria.

Al momento non è ancora chiara la posizione di Collins, per molto tempo indicato come possibile partente a causa di alcune frizioni caratteriali con Young ma ad oggi titolare di regolare armadietto alla State Farm Arena. Dal draft è arrivato AJ Griffin, ala di Duke che in molti accreditavano di una scelta più alta e scivolato fino alla 16 a causa di alcune incertezze rispetto alla sua integrità fisica.

In conclusione, nonostante l’arrivo di Murray le migliori della conference sembrano ancora decisamente su un altro livello, ed è quindi difficile pensare che Atlanta possa ambire a qualcosa di meglio di un primo/secondo turno dei playoff. A meno che Young non decida di volerci stupire ancora una volta.

Per esempio, segnando 31 punti in 19 minuti con questo livello di arroganza cestistica.

 

 

 

#7 BROOKLYN NETS

di Daniele La Spina

Nel dire che è la stagione del “O la va, o la spacca” per i Nets si avverte un forte senso di déjà-vu. I piani ambiziosi si susseguono da anni ormai, ma i tempi di consegna aprono il fianco a facili battute con l’altra grande azienda tra le mani di Joseph Tsai. Anche perché alla vigilia della stagione, il problema di Brooklyn sembra sempre lo stesso: l’instabilità.

Dopo un’estate a dir poco travagliata, Tsai è riuscito a far rientrare quasi tutti i problemi. Bisogna solo capire se durerà più d’un gatto in tangenziale. L’insofferenza ormai cronica di Kevin Durant e l’imprevedibilità di Kyrie Irving sono ottimo materiale da meme per tutti gli altri, ma chiaramente motivo di grattacapi e preoccupazione per il front office dei Nets. I due non sono chiaramente in discussione per doti e impatto ed è bastato il differenziale tra la loro assenza e la loro presenza a dimostrarlo, specie la scorsa stagione. Serviranno molte più delle 45 partite in 3 anni giocate insieme fin qui dai due, tra infortuni, vaccini e capricci, ma con una costante preoccupazione riguardo alle loro decisioni che probabilmente accompagnerà i tifosi bianconeri per tutta la stagione.

Steve Nash avrà anche il suo bel da fare con Ben Simmons. Se tutto si allinea, la versatilità dell’australiano sarà una risorsa importante e la sua presenza sul parquet sembra equilibrarsi alla perfezione nella composizione dei Big Three: la produzione offensiva sarebbe in mano a Irving e KD, togliendogli responsabilità e mitigando il suo rendimento a canestro; lui invece sopperirebbe dall’altro lato del campo, con l’efficacia difensiva che è specialità della casa, potendo anche concentrarsi di più sulla gestione del pallone. Anche qui c’è un “se” abbastanza grosso ed è chiaramente legato alle condizioni della sua schiena. L’ex 76ers è tornato a giocare in preseason dopo oltre un anno d’assenza e Nash ha già predicato calma sul suo utilizzo.

Va detto che Sean Marks ha lavorato sodo per provare a puntellare le varie assenze, nei limiti del monte ingaggi esorbitante. L’aggiunta di Claxon e Royce O’Neal aiutano gioco su perimetro e rim protection e il contratto strappato per TJ Warren – se Warren torna quello visto in Indiana – potrebbe essere un colpaccio in termini di rapporto qualità-prezzo. Potendo fare affidamento su Seth Curry, Joe Harris e Patty Mills, oltre che sull’esperienza di Markieff Morris, sarà ancora una stagione da protagonisti sull’East River.

L’impressione è che tutto dipenda dalla tenuta degli equilibri interni. Se reggono e la gestione fisica funziona, i Nets sono candidati a fare la stagione che promettono dal 2019, in un Est super-competitivo e con chiare velleità di vittoria. Ma di sicuro tutti guarderanno a loro come alla torre pericolante a cui basta togliere un mattoncino per farla crollare.

Se ce ne fosse bisogno, esempi di quanto bene possano fare i Big Three dei Nets insieme

 

 

 

#6 CHICAGO BULLS

di Marco Munno

Nel valutare alle mosse della offseason del 2021 dei Bulls, in cerca dei pezzi giusti da affiancare all’asse LaVine/Vučević per inseguire sogni di gloria nella Eastern Conference, due erano i pensieri principali: per le prospettive tecniche e economiche, la convenienza nell’aggiunta a roster di Lonzo Ball e i dubbi legati a quella di DeRozan. Una stagione dopo, le idee sui due si sono ribaltate. Lonzo Ball si è visto per sole 35 partite in campo in divisa Bulls, prima della lesione al menisco di gennaio e di un periodo di riabilitazione progressivamente allungatosi, con la fine che ancora non si vede e la disponibilità diventata in dubbio anche per la stagione corrente. Invece DeMar DeRozan ha disputato forse la miglior stagione della carriera, diventando un eroe da ultimo quarto, tornando dopo quattro anni a giocare un All Star Game direttamente in quintetto e addirittura togliendo un record realizzativo all’intoccabile Wilt Chamberlain, con l’incredibile striscia di 8 partite consecutive da almeno 35 punti a gara con almeno il 50% al tiro.

Non si può prescindere dai discorsi su loro due (si riprenderà il primo? si ripeterà il secondo?) per misurare le ambizioni di una squadra che punta a inserirsi ai piani più alti a Est, ma vede il contachilometri dei propri giocatori di punta inesorabilmente avanzare. Per poter compensare il loro naturale invecchiamento (e il fatto che due veterani come Drummond e Dragić possono dare un apporto contenuto ad oggi alla causa) coach Donovan dovrà proseguire con l’inserimento in ruoli sempre più importanti in rotazione dei giovani Patrick Williams (21 anni), Ayo Dosunmu (22 anni) e Coby White (22 anni) e sperare che il mix (in cui mantiene grande valore anche l’utilissimo Caruso, più di Derrick Jones Jr. e Javonte Green) funzioni; le potenzialità ci sono, ma farsi strada oltre il primo turno dei playoff non sarà facile e potrebbe suonare come una Last Dance per questo corso.


La fanbase dei Bulls è così innamorata di Caruso da non avere più dubbi sul risultato quando lo vede andare a canestro

 

 

#5 CLEVELAND CAVALIERS

Cleveland è stata la grande sorpresa dell’inizio della scorsa stagione. Dopo alcuni anni difficili, infatti, la squadra di Bickerstaff è riuscita a far tornare il sorriso ai propri tifosi grazie a un ottimo mix tra giovani e veterani: Garland e Allen sono stati convocati all’All-Star Game, Mobley ha avuto un impatto da rookie con pochi precedenti e Rubio ha giocato probabilmente il miglior basket della sua carriera NBA. Proprio il grave infortunio di quest’ultimo, però, ha segnato l’inizio del declino per la squadra dell’Ohio, che ha concluso la regular season con un record finale di 44-38, mancando i playoff a causa della doppia sconfitta al Play-In contro Nets e Hawks.
Nonostante la delusione per l’epilogo finale, però, il bilancio rimane più che positivo: le vittorie sono raddoppiate rispetto all’anno precedente e la difesa è passata dall’essere la venticinquesima della lega all’essere la settima. Merito di Jarrett Allen, ma soprattutto di Evan Mobley, che ha dimostrato di poter essere presto nominato Defensive player of the year. Il futuro di Cleveland passerà per le sue mani e per quelle di Darius Garland, che è riuscito a sfruttare al meglio la lunga assenza di Sexton, guadagnando un rinnovo contrattuale da 193 milioni in cinque anni.
Il nuovo – e finora promettente – progetto dei Cavs ha subito un’improvvisa accelerata durante la offseason: Cleveland, infatti, ha ottenuto Donovan Mitchell in cambio di Markkanen, Agbaji, Sexton, tre prime scelte non protette e due scambi di scelte. Il prezzo è indiscutibilmente alto, ma se sei Cleveland e hai la possibilità di prendere un tre volte All-Star di 26 anni è giusto farlo.

La grande incognita della stagione e del futuro dei Cavs sarà proprio la convivenza tra Garland e l’ex Utah, che dovrà adattarsi ad avere meno la palla in mano rispetto agli ultimi anni. Con il suo arrivo – e quello di LeVert nel corso della scorsa stagione – la dirigenza spera di riuscire ad aumentare la pericolosità offensiva della squadra (20° attacco lo scorso anno), con Mobley e Allen che avranno invece il compito di chiudere l’area e colmare le lacune difensive del nuovo backcourt. L’unico vero punto debole del roster rimane il ruolo di ala piccola: Isaac Okoro, infatti, è riuscito a migliorare le proprie percentuali, ma non sembra ancora essere al livello dei suoi compagni di quintetto. Per chi scrive, il nome perfetto per coprire questa posizione era stato scelto al draft – Ochai Agbaji – ma ottenere un All-Star vale più della mia voglia di vedere l’ex Kansas in maglia Cavs. 


Un esempio dell’impatto difensivo di Mobley

 

 

#4 MIAMI HEAT

di Matteo Soragna

In casa Heat sembra il giorno della marmotta, il nucleo è sempre lo stesso e addirittura quest’anno hanno cambiato pochissimo. La marmotta deve cercare di stare il più sana possibile perché coach Spoelstra non può continuare a passare davanti all’infermeria e vederla ogni volta piena.

La mente di tutti (forse) è ancora all’ultimo tiro di Butler in Gara 7 contro Boston in finale di Conference, dopo aver finito al primo posto la regular season.

Come detto prima, il primo obiettivo è avere la squadra sana visto che le partite saltate dai giocatori lo scorso anno recitano così: Adebayo 26, Butler 25, Lowry 19, Herro 16, più tutti gli altri sparsi

Nonostante questo la squadra ha espresso come al solito una gran pallacanestro e una difesa che per lunghi tratti è stata la migliore della lega.

La perdita di PJ Tucker rischia di farsi sentire parecchio perché sembra mancare un collante come lui e con quella potenza difensiva.

Bam Adebayo quando è stato sano ha vissuto una grande stagione, ha avuto il miglior net rating della squadra. Siamo curiosi di vedere quanto il programma di developement di Miami riesca farlo migliorare ancora come point forward e come tiratore.

Butler tira la carretta da tre anni ma fisicamente ha sempre avuto più di un problema, cosa che non farà stare tranquillo Spoelstra e il front office degli Heat.

Lowry ha 36 primavere e una storia di infortuni e acciacchi molto lunga, la stagione degli Heat passa anche da lui. Ci sono però già voci di un suo coinvolgimento all’interno di qualche trade, insieme a Tyler Herro fresco fresco di rinnovo da 130 milioni di dollari in quattro anni e da sempre nome “scambiabile” per Miami nonostante nei suoi tre anni in Florida abbia costantemente migliorato punti, assist e percentuale dal campo.

Oladipo è la vera aggiunta dopo il bel finale di stagione e una ritrovata tranquillità in campo. Avere nelle rotazioni un giocatore del suo talento capace di creare punti è un bel punto di forza.

Strus si è ritagliato un ruolo molto importante togliendo spazio a Robinson che adesso fa un po’ più fatica a giustificare un contratto che dice 16.9 milioni di dollari.

Occhi puntati su Jović: con quel tiro, se si abitua in fretta ad una fisicità che rischia di metterlo in difficoltà, può crescere molto.

Miami è una squadra solida, come al solito molto ben allenata e che riesce ad estrarre il massimo ogni anno dai suoi giocatori. Il picco raggiunto nel 2020 con la finale nella bolla sembra essere lontano anche se il gruppo storico è sempre lì. In una Eastern Conference di altissimo livello non sarà semplice mantenere gli standard degli ultimi tre anni, ma un posto per i playoff (se staranno al completo) non sembra in discussione.

Tra i pochi cambi in casa Heat, c’è stata l’acconciatura di Butler sfoggiata al Media Day (e fortunatamente già accantonata)

 

 

#3 BOSTON CELTICS

di Davide Romeo

Siamo passati tutti in quella magra transizione dal calore e dalle speranze dell’estate al grigiore settembrino, foriero dei primi freddi, delle prime interrogazioni e delle prime riunioni in ufficio. Se quindi un po’ di melanconia settembrina è di per sé comprensibile e probabilmente diffusa, per contro, è assai raro vivere un settembre più nero e tragico di quello vissuto da tifosi e addetti ai lavori dei Boston Celtics.

Quest’estate i Celtics potevano infatti dirsi la squadra dell’Est con più probabilità di lottare per il titolo, freschi delle Finals disputate pochi mesi prima superando molti scetticismi e perse principalmente per un profondo gap di esperienza nella gestione dei finali di gara, specie in confronto alla dinastia Warriors.

Gli innesti di Malcom Brogdon e Danilo Gallinari promettevano di colmare le lacune di un roster di livello comunque altissimo, anche grazie alla nuova identità difensiva apportata dal debuttante coach Udoka.

L’arrivo di settembre ha tuttavia infranto le good vibes come un comizio di Mario Giordano, perché i Celtics hanno perso Gallinari per l’intera stagione a causa della rottura del legamento crociato; poche settimane dopo è poi emerso che Robert Williams avrebbe dovuto nuovamente sottoporsi ad un intervento in artroscopia a causa dell’infortunio subito nel finale della scorsa stagione, e avrebbe saltato come minimo l’intera preseason;
infine qualche settimana fa il coach Udoka è stato sospeso a causa di “rapporti inappropriati” con un membro femminile dello staff dei Celtics, e ci sono molte probabilità che non siederà più in panchina.

Un tracollo del genere, degno di un matrimonio ambientato a Westeros, avrebbe sospinto molte franchigie sulla via del tanking e del simping verso Wembanyama, ma la verità è che, anche al netto di questa situazione complessa, i Celtics rimangono una squadra più che temibile ad est.


Jayson Tatum e Jaylen Brown, entrambi ancora u25 (!) sono una delle migliori coppie di guardie della lega per la qualità che riescono a fornire su entrambi i lati del campo, e hanno ormai trovato una chimica quasi perfetta in campo. Tatum può puntare a lottare per il titolo di MVP mentre Brown può già ambire a far venire il dubbio che Tatum sia il più forte dei due: mica male come situazione.

Il Difensore dell’Anno in carica Marcus Smart e il compagno di reparto Derrick White formano un backcourt molto rognoso da attaccare, rispetto al quale l’innesto di Malcom Brogdon da sesto uomo sulla carta è un lusso, specie se riuscirà a tornare ai livelli di Milwaukee. Elementi come il veterano Al Horford e Grant Williams – che per sua stessa definizione vuole diventare un “baby Al” – sono fondamentali per la loro versatilità e la capacità di coprire i buchi nelle rotazioni, oltre che per la competenza difensiva e la buona mano da tre. 

Il già citato Robert Williams, infine, è l’elemento chiave dell’intero sistema difensivo grazie alla sue doti di intimidatore sotto canestro e alla sicurezza che fornisce in aiuto ai compagni.
Si tratta di un core che può vantare due/tre possibili difensori dell’anno, e due tra i 15-20 migliori realizzatori della lega.

Il problema è che il reparto lunghi è veramente, veramente, veramente corto al momento, e se già la salute di Williams è una grossa incognita, un eventuale infortunio al 35enne Horford esporrebbe i Celtics a scenari da incubo, tipo Blake Griffin in campo.

Sarà altresì da verificare se il coach ad interim Joe Mazzulla (che secondo me assomiglia MOLTO SOSPETTOSAMENTE all’esiliato Udoka) sarà in grado di perpetuarne l’ottimo lavoro svolto finora.
Ad oggi dunque i Celtics rimangono una squadra abbastanza forte da vincere almeno quarantacinque-cinquanta partite.  Per quanto riguarda la postseason, molto dipenderà da quanto riusciranno a migliorare nella gestione dei finali di partita punto a punto: le finali di Conference e la lotta al titolo sono traguardi alla portata, ma con riserva.


In tema di somiglianze vere e presunte, cosa ci fanno Drake e Harden in maglia Celtics?

 

#2 PHILADELPHIA 76ERS

di Matteo Soragna

Now or neverSe c’è una franchigia che deve cavalcare questo modo di dire è proprio Phila.

I tempi di The Process sono belli che andati, con la definitiva separazione da Simmons, ma l’onda lunga del dover vincere qualcosa rimane per forza.

Gli ultimi cinque anni parlano di quattro uscite al secondo turno e una al primo turno, le ragioni possono essere diverse e la dea bendata troppo spesso ci ha messo lo zampino.

I punti di domanda sono quelli che riguardano da sempre le due superstar: Joel Embiid e James Harden.

L’ordine gerarchico dovrebbe essere questo, come ha specificato coach Doc Rivers, e il primo quesito riguarda la disponibilità del Barba a fare due passi indietro seguito a ruota da quante garanzie dà il suo fisico dopo un paio di anni di ombre e problemi.

Embiid andrà alla ricerca del premio di MVP che mai come l’anno scorso ha meritatamente sfiorato ma soprattutto dovrà condurre i Sixers almeno alla finale di Conference, sfuggita l’anno scorso anche per colpa di una frattura subita al primo turno contro Atlanta, sulla quale Rivers ha qualche responsabilità.

Il “sacrificio” contrattuale di Harden ha permesso a Daryl Morey di costruire un roster molto profondo, addirittura forse troppo profondo per una gestione equilibrata.

È arrivato da Miami PJ Tucker, alla terza squadra cambiata in tre anni ma sempre con il ruolo di arma tattica difensiva per provare a vincere subito.

A ricoprire il ruolo di 3&D in uscita dalla panchina è arrivato House jr (nuova versione degli Houston Rockets) che si affianca a Matisse Thybulle nel dare intensità.

Il reparto esterni è affollatissimo con Melton, Shake Milton, Korkmaz, Isaiah Joe e naturalmente Tyrese Maxey.

Dalla talentuosissima guardia ex Kentucky passa molto del futuro e del successo di Philadelphia, da quanto Embiid e Harden gli lasceranno spazio e quanto lui riuscirà a bilanciare il desiderio di metterne 25 ogni sera (perché può farlo) e di mettersi anche al servizio della squadra.

Anche il parco lunghi è profondo per dare garanzie sulle 82 partite più playoff, accanto a Embiid partirà Tobias Harris condannato a fare canestro con percentuali alte spaziando il campo, come del resto Niang. Tucker presumibilmente sarà il 4 che chiude le partite.

Montrezl Harrell è arrivato per dare energia ed aggressività (ma solo nella metà campo offensiva), la sua storia dice anche che nei playoff tende ad avere molto meno spazio proprio per i problemi di applicazione in difesa.

Chiude il pacchetto Paul Reed che quest’anno sembra dover ricoprire un ruolo anche più perimetrale.

L’Est è una bruttissima bestia perché il livello è molto alto e le contender sono diverse, i Sixers hanno talento, stazza e profondità per poterci provare. Rimane sempre il dubbio di quanto Embiid e Harden possano trascinare ed essere d’esempio per arrivare fino in fondo.


Joel Embiid, carico come sempre al Media Day di inizio stagione

 

 

#1 MILWAUKEE BUCKS

Facciamo un breve riepilogo: in quattro anni di gestione Budenholzer, i Milwaukee Bucks sono stati per due volte la testa di serie numero 1 della Eastern Conference, scollinando le 60 vittorie in regular season al primo anno e migliorandosi in percentuale W-L la stagione successiva, hanno vinto un titolo NBA che mancava da quelle parti dal 1971 e la scorsa stagione sono stati eliminati in Gara 7 dai Boston Celtics dopo aver giocato tutta la serie senza Khris Middleton. Hanno sostanzialmente confermato in blocco lo starting five, facendo qualche movimento di mercato solo a livello di second unit.

C’è Giannis Antetokounmpo, ci sarà – anche se non da subito – Middleton, ci saranno Jrue Holiday e Brook Lopez, ci sarà Grayson Allen a completare il quintetto. In panchina ci sono un tot di veterani, da George Hill a Wes Matthews (che all’inizio probabilmente partirà titolare), a Serge Ibaka alla scommessa (sul recupero post infortunio, ovviamente) Joe Ingles, ma avranno minuti importanti soprattutto Pat Connaughton e Bobby Portis, già solidissimi nella scorsa stagione, e ci sarà tempo e modo di far crescere anche il rookie Beauchamp, reduce da una discreta annata in G-League che gli è valsa la chiamata numero 24 al draft.

Ce n’è abbastanza per un altro assalto all’anello? Perché no, viene da dire.

In primis per Antetokounmpo, che continua ad aggiungere piccoli dettagli ad un arsenale di gioco già più che discreto, innestato in un fisico che fa passare in secondo piano tutto il resto. Il greco, poi, avrà ancora fame e voglia di riscatto, sia per gli scorsi playoff che per gli europei disputati in estate, finiti decisamente prima del previsto per la nazionale ellenica, da molti data come una delle favorite per la zona podio. Holiday e Allen sono stati anche solidissimi da oltre l’arco, finendo entrambi oltre il 40%, e coach Budenholzer ha a sua disposizione un organico rodato, in grado di alleviare dalle forti spalle del due volte MVP parte della pressione sui due lati del campo. Coach Budenholzer è uno che ama molto imporre il proprio gioco agli avversari, piuttosto che adattarsi a loro, e questo in passato è stato un limite per le sue squadre, ma Milwaukee è sufficientemente solida e sicura dei propri mezzi per assecondare la filosofia del due volte coach dell’anno. Con queste premesse, insomma, i Bucks si presentano ai nastri di partenza con l’obiettivo di riprendersi la Eastern Conference. Chiunque vorrà staccare un biglietto per le finals, a Est, dovrà sicuramente fare i conti con Giannis e compagni.


E come arma segreta, Giannis per stendere gli altri può usare anche le sue freddure

 

 


 

 

 

#15 OKLAHOMA CITY THUNDER

di Daniele La Spina

Altra stagione, altro piano andato in fumo per gli Oklahoma City Thunder: la rebuilt di due anni per andare a scegliere bene nel Draft 2022 si vede costretta ad entrare nel terzo, allungando le prospettive di fine. Il motivo è naturalmente l’infortunio di Chet Holmgren, che ha giusto misurato la taglia della casacca per poi dare appuntamento a tutti all’anno prossimo. La strategia di OKC passava da lui e probabilmente quest’anno non ci sarà il passo avanti che si sperava.

Reduce da due stagioni sotto le 25 vittorie, il Paycom Center non sembra sarà il teatro di molte più gioie quest’anno. La squadra è piena di talenti giovani e promettenti, forse come nessun’altra, e si prepara ad una stagione di crescita e sconfitte. I punti focali sono inevitabilmente Shai Gilgeous-Alexander, infortuni permettendo, e Josh Giddey. Il canadese deve proseguire il lavoro per diventare leader di questo gruppo di giovani rampanti, portando in dote statistiche e affidabilità che non sono messe in discussione. È e continuerà ad essere la stessa indiscussa a Oklahoma e sta sfruttando questo tempo per solidificare la propria credibilità nella lega. Al suo fianco il primo a beneficiarne sarà Giddey, forse ancora troppo portato a fidarsi della sua eccellente visione di gioco e che già in molti vedevano fare magie dal pick’n’roll con Holmgren; sarà l’occasione per lavorare al suo tiro da fuori e all’intensità difensiva, elementi ormai fondamentali nel gioco moderno.

Percorso di crescita che proseguirà anche per Darius Bazley, ancora alla ricerca della versione di sé fatta ammirare nella bolla di Orlando. Robinson-Earl, che dunque sarà il centro titolare di una squadra tutta da scoprire, ha l’occasione per ritagliarsi spazio e minuti utili. Dal punto di vista sottobosco non si possono non citare Aleksej Pokuševski e Tre Mann, il cui apporto dalla panchina non è quasi mai mancato. Per loro e per tutti l’occasione di mettersi in vetrina qualora si cercasse un’altra sistemazione.

In fondo il punto della stagione, per alcuni giocatori dei Thunder e per lo stesso Sam Presti, sarà da Natale in poi, quando si inizieranno a tirare le somme sul quanto puntare decisamente alla Lottery. I posti da ultimi della classe sono contesi nell’anno di Victor Wembanyama: servirà fortuna. Ma forse il tentativo vale comunque la pena per avere una copertura in caso Holmgren non risolva mai o per virare su Scoot Henderson. Resta comunque un obiettivo più concreto dei playoff. 


Questa è per chi proverà a convincervi di aver scoperto Giddey quest’anno



 

#14 SAN ANTONIO SPURS

di Marco Munno

Se nell’ultimissima parte del ventesimo secolo e per tutto l’inizio del ventunesimo gli Spurs sono diventati sinonimo di stazionarietà ad alto livello (o comunque di grande competitività), con il record assoluto pareggiato di 22 stagioni di seguito ai playoff a sintetizzare il tutto, una fetta importante di merito è da attribuire al rischio affrontato dalla franchigia nella stagione 1996/97. Un talento reputato in grado di stabilire una legacy si sarebbe presentato al draft del 1997, e a San Antonio decisero di tankare con convinzione (tenendo ad esempio fuori la stella David Robinson più del previsto dopo l’infortunio) per poi sperare di ottenere la scelta numero 1 assoluta e assicurarsi Tim Duncan. Il sorteggio per la prima pick fu benevolo e il resto della storia la sappiamo tutti. In questa stagione, con Victor Wembanyama all’orizzonte, in Texas si vuole ripetere la strategia, sperando nella stessa dose di fortuna e regalando ad un Gregg Popovich ormai 73enne un’ultima soddisfazione di una carriera in neroargento eccezionale, che lo vide iniziare da head coach proprio in quell’annata sportiva di sconfitte.

Perciò alle ultime tre stagioni finite sotto il 50% di vittorie ne seguirà una quarta, a segnare la transizione completa verso il rinnovamento dopo aver lasciato andare nelle ultime due stagioni veterani come DeMar DeRozan, Rudy Gay e Derrick White e soprattutto quello che sembrava essere il nuovo uomo franchigia, Dejounte Murray. Il quale è stato ceduto in cambio di una gran bella contropartita, tre prime scelte (di cui due senza protezione) e un diritto di scambio di scelte, lasciando inoltre spazio per lo sviluppo di altri prospetti. Innanzitutto, Keldon Johnson e Devin Vassell, a cui verrà chiesto di fare da creatori di vantaggi, dopo aver dimostrato di saper produrre dagli scarichi dei compagni (con il primo a poter rappresentare, con l’estensione firmata quest’estate da 80 milioni per 4 anni, un affarone a livello salariale nel caso prosegua nella propria crescita). Quindi, i nuovi arrivati dal draft: il capofila è la nona pick assoluta Jeremy Sochan, ala forte potenzialmente ottimo difensore per la pallacanestro moderna (ma tutto da sgrezzare offensivamente), ma contributo si può attendere anche dallo scorer Malaki Branham e da un Blake Wesley che potrebbe soffiare il posto da playmaker titolare a Tre Jones. Joshua Primo è l’altro giovane interessante, mentre Jakob Poeltl proverà a dare solidità tutto canestro: tuttavia nonostante gli spunti positivi non ci si illude sulle sorti di questa stagione, dove gli Spurs rimangono realisticamente fra le ultime del lotto e felici di esserlo.


Duncan, nell’introduzione nella Hall of Fame dopo una carriera leggendaria, che ringrazia il coach che lo ha guidato agli Spurs: fra qualche anno, ci sarà un déjà vu?

 

 

#13 UTAH JAZZ

di Davide Romeo

Forza, non fate così.

Don’t cry because it’s over, smile because it happened. Che poi in realtà il tema è che non è happened  quello che si voleva, però avete capito il concetto.

Già da un paio d’anni avevamo parlato dei Jazz come una ottima squadra da regular season che cercava quel tassello mancante per avere successo ai playoff: l’ultima stagione, per svariate ragioni, l’avevamo descritta come quella dell’ultimo treno, quella dell’all-in, un po’ come fu per i Bucks 2020/21. Evidentemente Danny Ainge si è rivelato della stessa opinione perché dopo la mesta sconfitta al primo turno con Dallas è entrato in modalità ricostruzione – la sua preferita – e ha aperto bottega.
Sono partiti praticamente tutti, dalle stelle Mitchell e Gobert fino al coach Quin Snyder. Quest’ultimo è stato sostituito dal debuttante assoluto WIll Hardy, che è addirittura più giovane di un anno rispetto all’unico titolare dello scorso anno che è rimasto, il playmaker Mike Conley, che si trova alla seconda fine di un ciclo della sua carriera dopo quella vissuta a Memphis qualche anno fa. 

Ad oggi i Jazz hanno acquisito qualcosa come otto prime scelte da qui al 2029 che fanno appunto subodorare un leggerissimo interesse a tankare, oltre ad aver acquisito una serie di giovani elementi che potrebbero rivelarsi utili nel breve-medio periodo.
Quello con più upside è probabilmente Lauri Markkanen vero e proprio unicorno per la combinazione di atletismo, stazza e mani, molto incostante ma con ancora tempo per migliorarsi a soli venticinque anni.

Colin Sexton è un altro che sembra destinato a rimanere, è un buon realizzatore che sa prendersi un attacco sulle spalle, ma partirà da sesto uomo se Conley non sarà scambiato.

Ci sono poi una serie di giocatori da rotazioni che saranno sottoposti ad una sorta di Hunger Games per capire su chi vale la pena puntare e chi invece andrà scambiato per altri assets: L’ala grande Vanderbilt sembra il più pronto e il più sicuro del posto, e ha già mostrato un interessante chimica con Markkanen in attacco: in questa preseason Hardy li ha più volte schierati assieme in un frontcourt atipico di lunghi enormi e rapidi che tirano da tre e attaccano dal palleggio in una sorta di “5 fuori”.  Hanno fatto bene anche Beasley, tiratore puro, e Alexander-Walker, un’atleta dalle lunghe leve, nel ruolo di guardia. Il veterano Kelly Olynyk farà da chioccia a Walter Kessler, che è ancora grezzo ma ha già mostrato interessanti sprazzi di talento. 

In questo cantiere aperto, cosa aspettarsi dal nostro SIMONEFONTECCHIO? L’azzurro piace ad Ainge e si trova in un ambiente che non ha timore di dare fiducia a late-bloomers d’oltre oceano, citofonare Joe Ingles per informazioni.  Il taglio di Stanley Johnson sembra un manifestazione di fiducia verso Simone, che è l’unica ala piccola pura a roster, ma ci sarà da lottare per conquistarsi minutaggio con un Horton-Tucker in formissima e l’anziano ma esperto Rudy Gay. L’elemento decisivo per capire che impatto potrà avere Fontecchio sarà la sua capacità di trasporre la sua già nota abilità difensiva al livello NBA, perché dal punto di vista atletico e  offensivo è già sufficientemente dotato. Se riuscisse a superare questa sfida, i i Jazz sembrano l’ambiente adeguato per potersi ritagliare un nome e un ruolo nella lega.

Per quanto riguarda  invece la stagione da aspettarsi in quel di Salt Lake City, di sicuro c’è l’intenzione di non vincere troppe partite.

La priorità però è trovare al più presto un’identità e una cultura di squadra su cui imperniare il progetto di ricostruzione: per questa ragione e per il numero di talenti da valorizzare probabilmente non sarà una stagione di tanking selvaggio e potrebbero addirittura sorprendere, almeno nella prima metà di stagione, dopodiché forse si rallenterà un po’. E attenzione che Danny Ainge, cuore Celtics, al Draft ha spesso la fortuna degli irlandesi dalla sua…

“Just you left, is it?”
“Yep…just me.”

 

#12 HOUSTON ROCKETS

di Marco Munno

Nelle ultime due stagioni post Harden, il record dice 37-117.

La squadra l’anno scorso è  stata ventinovesima per efficienza offensiva e ventinovesima per efficienza difensiva. Per il terzo anno consecutivo coach Silas dovrà vivere sulle montagne russe, con alcuni alti (il talento offensivo regalerà giocate da highlights) e molti bassi, presumibilmente sempre in difesa. Come tutte le squadre in rebuilding servirà pazienza e riuscire a mantenere la calma al servizio del medio periodo. La struttura poggia su precisi punti di riferimento in almeno quattro ruoli:

Jalen Green va considerato una certezza. Soprattutto dopo la seconda parte della scorsa stagione, la sua capacità di fare canestro è pazzesca e sotto gli occhi di tutti. Quest’anno deve iniziare ad aggiungere skills al suo gioco, a partire dalle letture e dal playmaking.

Kevin Porter jr. è atteso da una stagione più equilibrata e costante. I flash ci sono stati ma anche vagonate di palle perse. Il ragazzo non ha problemi di autostima, non basta però per dare certezze sulle 82 partite: l’obiettivo è quello.

La terza scelta al draft Jabari Smith Jr. è un incastro perfetto per questo roster. Va a prendere il posto di Woods, è un migliore atleta, sicuramente un migliore difensore. In attacco dal mid range è automatico ed efficace, dovrà allontanarsi oltre la linea da tre punti con più volumi e lavorare per poter attaccare dal palleggio. C’è tempo per tutto questo.

Sotto canestro gli fa compagnia Alperen Şengün, reduce da un ottimo Europeo, che nella metà campo offensiva ha mani e visione per produrre anche per i compagni; nella metà campo difensiva lo stiamo ancora cercando…

Il reparto lunghi è affollatissimo: oltre a un Derrick Favors che con ogni probabilità verrà tagliato, ci sono Willie Cauley-Stein, Boban Marjanović, il rookie Tari Eason che in preseason ha fatto benissimo e Usman Garuba che ha vinto la medaglia d’oro all’Europeo come pilastro difensivo. Josh Christopher e Jae’Sean Tate sono chiamati a confermare le buone cose fatte vedere l’anno scorso.

L’obiettivo è quello di migliorare almeno le venti vittorie della scorsa stagione e sviluppare i giocatori che formeranno il core per i prossimi anni. L’occhio sta già cadendo verso il prossimo draft e al francese di 2.23…


Nel caso ci fossero ancora dubbi, chiedere a Victor Oladipo delle potenzialità offensive di Jalen Green



 

#11 SACRAMENTO KINGS

di Marco Munno

Ci sono pochi dubbi a riguardo: negli ultimi tre lustri i Kings si sono dimostrati la peggior franchigia NBA, con rarissimi momenti positivi e in compenso una moltitudine di progetti di rilancio puntualmente naufragati in poco tempo, a portare alla striscia più lunga di sempre (e ancora aperta) di assenza dai playoff per anni consecutivi, salita a 16. Per tentare di chiuderla, il general manager McNair (subentrato al comando delle basketball operations al disastroso Vlade Divac) dopo una stagione e mezza ha varato la nuova linea di condotta, improntata alla ricerca dell’uovo oggi invece della gallina domani. Nel dualismo fra le uniche due note liete del roster, le due point guards Fox e Haliburton, ha scelto lo scorso febbraio di tenere la prima (più fatta e finita) sacrificando la seconda (più lontana dal suo prime) per un altro giocatore nel giro degli All Star come Domantas Sabonis. L’obiettivo di agganciare il treno per il play-in è sfumato, ma la coppia Fox/Sabonis rimane la base di partenza per la squadra di questa stagione. Al draft, alla quarta pick assoluta la difficile scelta (dopo le prime tre che invece erano scontate: d’altronde, si tratta sempre dei Kings…) è ricaduta su Keegan Murray: non un prospetto one-and-done ma un giocatore ventiduenne, che tuttavia ha cancellato diverse perplessità sul suo conto – ad esempio, quelle di chi chiedeva la scelta di Ivey – dopo aver conquistato il titolo di MVP della Summer League di Las Vegas.

Farà compagnia fra le ali dello starting five a Harrison Barnes (altro giocatore trattenuto nonostante abbia il contratto in scadenza con un rinnovo non certo scontato) e come i due destinati a giocarsi il ruolo di guardia titolare, il favorito Kevin Huerter e il plausibile backup Malik Monk, porterà tiro da fuori: tutti e quattro hanno concluso la scorsa stagione intorno al 39% da tre punti, e nei piani del neoarrivato coach Mike Brown (il terzo ex assistente dei Warriors consecutivo a diventare capoallenatore dei Kings) serviranno ad aprire il campo a Fox e Sabonis, definiti con esagerata esaltazione dallo stesso Brown “a top-three combination in the league right now”. Richaun Holmes, uno dei migliori big man della Lega fra quelli in uscita dalla panchina e lo specialista difensivo Davion Mitchell completano una rotazione che sembra avere pochissime alternative fra le ali: Metu e Lyles hanno mostrato qualche buon flash ma nulla più, potrebbe farsi strada come eroe di culto Chima Moneke, MVP della scorsa Basketball Champions League.

Ai nastri di partenza della Western Conference i Kings non si presentano sulla carta come una delle peggiori, vista la presenza di quattro squadre ancora agli inizi del loro processo di ricostruzione, partendo dal tanking sfrenato (Rockets, Thunder, Spurs e Jazz): sarà sfruttata l’occasione per chiudere la striscia di assenza dalla postseason, o almeno passare per il play-in?


Chima Moneke prova a distinguersi: è solo preseason, ma vedere uno dei Kings sbattersi in difesa non è così usuale

 

 

#10 PORTLAND TRAIL BLAZERS

di Matteo Soragna

“Siamo una squadra da play-in tournament. Non è quello che vorrei, ma non è la fine del mondo”. Queste le parole di Damian Lillard per iniziare la stagione.

Portland è un misto tra navigare a vista e rebuilding, non una situazione ideale. La scorsa stagione, tra infortuni vari e trade, sono mancati i playoff dopo otto anni consecutivi di viaggi in post season. La costante negli ultimi anni è stata la difesa: la peggiore delle lega. Chauncey Billups ha molto da lavorare, su entrambi i lati del campo.

Si riparte naturalmente da Lillard, che nel 2021/2022 ha saltato 53 partite. Al suo fianco ormai non avrà più il fratello McCollum e l’attacco sarà in mano sua. Non ci sono motivi per dubitare che continuerà a fare quello che ha sempre fatto: canestro.

Al suo fianco Jerami Grant avrà palloni a disposizione, forse non tutti quelli che aveva a Detroit ma abbastanza per produrre in attacco. Difensivamente deve essere uno dei punti di riferimento della squadra assieme al nuovo arrivato, fresco di titolo, Gary Payton II, lui si una garanzia nella metà campo a protezione del ferro.

Anfernee Simons viene dalla stagione della sua esplosione, dove ha avuto un ruolo da protagonista e portato alla causa dei Blazers più di 17 punti a partita con oltre il 40% da oltre l’arco. Riconfermarsi è l’obbligo entrando nel nuovo contratto.

Shaedon Sharpe, il rookie di Kentucky scelto alla sette, è un atleta pazzesco e un realizzatore di livello, difensivamente (fino ad oggi) non molto bene.

Josh Hart, il tuttofare a disposizione di coach Billups, ha chiesto ai tifosi di avere pazienza ma che sicuramente non sono lì a tankare per provare ad arrivare a (testuali parole) “Victor come cavolo si chiama”. Wembanyama, si chiama Wembanyama.

Sotto canestro Jusuf Nurkić porterà punti e rimbalzi ma (chi se lo sarebbe mai aspettato) anche lui difensivamente è uno dei problemi dei Blazers.

Justise Winslow è alla ricerca di un po’ di tranquillità dagli infortuni per poter dare il suo apporto, negli ultimi tre anni è stato più in infermeria che a casa o in campo.

Forse nemmeno a Portland sanno bene cosa aspettarsi da questa stagione ma, se rimarranno sani e lo staff avrà il tempo per lavorare, chissà che riescano a fare un regalo a Lillard, entrare nel play-in e avanzare per tornare ai playoff. Detto che anche loro un’occhiata oltre oceano in terra francese la daranno.

La concentrazione di Josh Hart nel pensare allo spelling di Wembanyama

 

 

 

#9 NEW ORLEANS PELICANS

di Davide Romeo

Un antico pensatore rimasto senza nome si chiedeva “Cosa fai se ti entra un Pellicano in casa?”. Aggiungiamo, cosa fai in particolare se il Pellicano in questione è un Zion Williamson sano, da inserire nelle dinamiche di una squadra che nelle ultime tre stagioni è diventata più o meno funzionale e ha finalmente trovato un’identità – senza di lui?

Il front office di New Orleans ha sostanzialmente azzeccato tutte le mosse effettuate nella scorsa stagione: l’impatto di Willie Green sullo spogliatoio è paragonabile a quello di Robin Williams con la classe de l’Attimo Fuggente, ha mostrato abilità di gestione fuori dal comune e ha conquistato il cuore di tutti i giocatori, sperimentando finché non ha trovato la giusta quadra. 

La pesca di Herb Jones alla scelta 35 (!) è stata un furto con scasso che ha regalato ai Pelicans un rookie che non avrebbe sfigurato nel primo o secondo quintetto difensivo (!!). Anche la presa di Jose Alvarado in un 2-way contract non è da sottovalutare, con il play di origine portoricana che ha dimostrato di poter dare un contributo importante in difesa.

Gli arrivi di CJ McCollum e Devonte Graham alla trade deadline sono stati una presa fondamentale che ha consentito di trovare nuove soluzioni offensive : nessuno dei due è un play puro ma la loro verve realizzativa dall’arco ha consentito di colmare la principale lacuna del reparto offensivo dei Pelicans.

Brandon Ingram negli ultimi anni ha zittito molti scettici, diventando uno dei migliori realizzatori della lega che ogni stagione migliora qualcosa del proprio gioco: ad oggi è una certezza e il vero leader offensivo della squadra.

Il reinnesto di Williamson in una squadra dalla produzione offensiva già ottima la renderà probabilmente dotata di uno dei migliori attacchi della lega, ma ad oggi permangono alcuni dubbi. Oltre alla tenuta fisica di Zion, infatti, i Pelicans rimangono una squadra che fa generalmente fatica a segnare da tre: in questo senso sarà fondamentale lo sviluppo dell’ala Trey Murphy, che non ha ancora trovato il suo groove nel corso della sua prima stagione ma che ha il potenziale per diventare un buon realizzatore in uscita dalla panca. Sarà poi necessario individuare il miglior partner di Zion nel frontcourt

Al momento il principale indiziato è Valanciunas, che tuttavia non è esattamente un difensore che possa coprire le lacune di Williamson – e potrebbe intasargli l’area in attacco.

Se non altro il profondo reparto lunghi di New Orleans consentirà a Willie Green di sperimentare a sufficienza: Hayes è il più versatile, Nance può fornire più atletismo e difesa, Willy Hernangomez ha buona presenza a rimbalzo. 

Non è da escludere un approccio situazionale in cui Zion costituisca il punto fisso e il partner varii a seconda degli avversari da affrontare. 

Qualche altro dubbio riguarda il tema contrattuale: i 64 milioni in due anni del rinnovo di McCollum (che ne avrà 33 alla fine dell’attuale contratto) e soprattutto il rinnovo di Zion Williamson (85 partite disputate nelle ultime tre stagioni) al massimo salariale per quasi 200 milioni in cinque anni possono essere qualificate come scommesse alto rischio/alto rendimento.
Se qualcosa dovesse andare storto, in sostanza, il margine di manovra sarà ridotto.
Ad oggi i Pelicans hanno dimostrato di poter essere una squadra da playoff anche senza Williamson: con il prodotto di Duke in salute, l’accesso diretto ai playoff non sembra essere in discussione. 

Qualora, malauguratamente, ciò non avvenisse, sembra esserci abbastanza carne al fuoco per raggiungere almeno le 40 vittorie e lottare per l’accesso al play-in.


Abbiamo tutti bisogno di un Willie Green che ci dica di “fare a cazzotti almeno” nella nostra vita quotidiana



 

#8 MINNESOTA TIMBERWOLVES

 

di Luca Spadacenta

”Boh”. Non credo esista una parola più calzante per definire la offseason di Minnesota e le aspettative per la prossima stagione. Proviamo però a procedere con ordine.

Dopo alcune stagioni con più ombre che luci, Minnesota è riuscita a tornare ai playoff battendo i Clippers al play-in. Un traguardo molto importante – e per questo molto festeggiato – seguito poi da una sconfitta 4-2 contro Memphis al primo turno. Nonostante l’amaro in bocca per l’eliminazione in una serie che sembrava essere alla loro portata, la stagione dei Timberwolves è stata più che positiva: Karl-Anthony Towns convocato nuovamente all’All-Star Game, buone risposte da parte dei vari Beverley, Vanderbilt, McDaniels e Beasley e soprattutto l’esplosione di Anthony Edwards, che al secondo anno NBA e ai suoi primi playoff ha già dimostrato di poter essere la stella della squadra. D’Angelo Russell, invece, è stato un po’ meno convincente degli altri e il suo rinnovo sarà uno dei temi della prossima stagione. La strada intrapresa dalla franchigia, dunque, sembrerebbe essere quella giusta.

Poi, però, a inizio luglio arriva il grande “boh”: i Minnesota Timberwolves scambiano Malik Beasley, Patrick Beverley, Walker Kessler, Leandro Bolmaro, Jarred Vanderbilt, tre prime scelte non protette (2023, 2025, 2027), il diritto di swap nel draft 2026 e la prima scelta 2029 protetta Top-5 per acquistare Rudy Gobert dagli Utah Jazz.

La prima considerazione da fare è di carattere generale: il prezzo pagato per Gobert ha talmente tanto inflazionato il mercato da rendere complessi ulteriori scambi per grandi giocatori. Se invece osserviamo la trade dal punto di vista di Minnesota, sorgono una serie di dubbi. La ratio è più o meno chiara: la sola presenza del tre volte vincitore del premio di Difensore dell’anno cambia la dimensione difensiva della squadra e permette di coprire maggiormente i limiti di KAT, che lo hanno portato ad avere seri problemi di falli nella serie contro Memphis. Più problematica appare invece la loro convivenza nella metà campo offensiva. Per quanto Towns possa essere un lungo atipico e moderno, la presenza di Gobert riduce le soluzioni offensive della squadra e riempie l’area. In una Lega che va sempre più small, il doppio lungo dovrà essere sapientemente gestito da coach Finch. L’ultimo punto interrogativo riguarda l’impatto che avrà la panchina, che è cambiata molto rispetto alla scorsa stagione grazie alle firme di Kyle Anderson, Bryn Forbes, Austin Rivers, Eric Paschall, P.J. Dozier, Wendell Moore Jr e Josh Minott.

In conclusione, solo il campo ci saprà dire se l’all-in di Minnesota è stato troppo azzardato. Al momento, però, la squadra non sembra poter andare oltre un secondo turno di playoff. Perché allora accelerare i tempi e ipotecare il futuro nonostante uno young core in crescita?

“Boh”, appunto.  


Anthony Edwards e l’importanza di una dieta sana 



 

#7 DALLAS MAVERICKS

di Daniele La Spina

Dopo la sorprendente presenza in finale di Conference dell’anno scorso, i Dallas Mavericks potrebbero vedersi costretti a fare un piccolissimo passo indietro quest’anno. Chi si aspettava grandi investimenti in estate è rimasto quantomeno deluso e sembra difficile vederli lottare per qualcosa di più che i Playoff nel 2023.

Chiaro che il discorso ruoti sempre e immancabilmente attorno a Luka Dončić. Il golden boy dei Mavs resta il fulcro su cui costruire le fortune della squadra e dopo essere tornati a chiudere la regular season a quota 50 vittorie, chiedere di più sembra prematuro. Complice, appunto, l’aver perso Jalen Brunson: decisione criticata da alcuni ma che probabilmente va incontro ad esigenze di complementarità. Mark Cuban ha infatti puntato su un solido Christian Wood da aggiungere al reparto lunghi, puntando sul fatto che per la prima volta in carriera non predicherà nel deserto. Con il supporto dell’esperienza di Javale McGee, Wood può senz’altro fare lo step che ha dimostrato di meritare con delle medie sorprendenti nel nulla cosmico che sono stati i Rockets negli ultimi due anni; inoltre sta lavorando bene sull’allargare il proprio range, portando in dote percentuali buone e in ascesa.

A proposito di migliorare in termini di apporto: più vicino a sé lo sloveno avrà bisogno di Tim Hardaway Jr. e Spencer Dinwiddie al loro meglio. Se il secondo ha sempre mostrato di poter ampliare le proprie skills, l’ex Knicks dovrà lavorare di più in difesa e rendersi un’alternativa affidabile quando le marcature si concentreranno inevitabilmente sul #77.

Potrebbe essere una stagione interlocutoria per Dallas, con Dončić a concentrarsi su sé stesso (magari giocandosi l’MVP) e aspettando tempi migliori ad Ovest, in termini di competitività. La squadra di Jason Kidd potrà essere libera di responsabilità e, senza scelte al primo giro nel 2023, condurre la stagione su due binari: crescere con solidità come squadra, lavorando sulle proprie stelle, e se andasse male mettersi al servizio del mercato verso la trade deadline, per attirare un giocatore da affiancare all’uomo franchigia. C’è chi ha prospettive decisamente peggiori. 


Wood porta a Dallas i suoi doni: tiro dall’arco e solidità sotto canestro



 

#6 LOS ANGELES LAKERS

di Roberto Gennari

Diciamocelo: la storia di LeBron “GM ombra” dei Lakers somiglia sempre più al famoso detto secondo cui se nell’aria c’è puzza di fumo, allora da qualche parte c’è un arrosto che sta bruciando. Questo per dire cosa? Che – con la ragguardevole eccezione del titolo conquistato nel 2020 nella bolla di Orlando, che comunque fa un titolo in più di quelli conquistati nello stesso lasso di tempo da 27 franchigie NBA – nel quadriennio di King James in California, quasi tutto quello che sarebbe potuto andare storto, poi alla fine ci è effettivamente andato. E questo è un problema soprattutto nella misura in cui alcune (molte?) delle cose che sono andate storte erano, in una qualche misura, prevedibili. Prendiamo ad esempio il problema più evidente: l’integrità fisica di Anthony Davis, uno che per usare un eufemismo è uno che qualcosina in NBA sposta, a livello di equilibri. “Brow” ha giocato un totale di 76 partite nelle ultime due stagioni, conclusesi rispettivamente con un’eliminazione al primo turno dei playoff per mano dei Suns e con un anonimo undicesimo posto ad Ovest, nonostante l’acquisizione di due All-NBA – con probabilmente i giorni migliori alle spalle – come Russell Westbrook e Carmelo Anthony. Il risultato è stato un roster che è stato spesso definito come disfunzionale, ma che al di là delle definizioni, è sembrato spesso carente nel piano partita, quando si trattava di trovare un’alternativa al “date palla a LeBron, qualcosa succederà”: Carmelo Anthony capace di crearsi i suoi canestri con la nonchalance che lo contraddistingue da ormai quasi vent’anni, ma sempre più in difficoltà nella metà campo difensiva, Russell Westbrook battezzato al tiro che lascia andare imbarazzanti mattoni, e il resto della squadra, in buona sostanza, in balia delle onde, soprattutto da metà dicembre in poi, quando il record parlava di un dignitoso, benché al di sotto delle aspettative, 16-13, ma al tempo stesso cominciavano a palesarsi i guai fisici di Anthony Davis, fin lì presente in maniera tutto sommato costante nello starting five gialloviola. Da lì, i lacustri hanno imboccato una china discendente da cui non sono più riusciti a risalire. 

E per il 2022-2023? Il terzo allenatore nella permanenza di James in gialloviola, Darvin Ham, la pensa come noi circa l’importanza di AD nelle gerarchie della squadra, definendo come “una priorità” l’aver lavorato in estate sul recupero del giocatore, con l’obiettivo di averlo a disposizione per tutta la stagione o quasi. Ma a parte questo, non c’è stata una nuova rivoluzione: Carmelo Anthony è stato lasciato libero di trovarsi un’altra squadra, non rinnovandogli il contratto annuale. Russell Westbrook, con ogni probabilità uno dei contratti meno scambiabili dell’intera NBA, salvo sorprese dell’ultimo minuto sarà di nuovo della partita. A puntellare il roster, si è scelto di richiamare il play tedesco Dennis Schroeder, che potrebbe partire in quintetto al posto di Brodie, anche se gerarchie a parte resta da capire se sarà in campo nei finali di partita, più che nello starting five. Dopo una breve parentesi in Minnesota, torna a L.A. sponda gialloviola anche Pat Beverley, uno che sicuramente in difesa darà una mano, anche se per averlo i Lakers si sono privati di Talen Horton-Tucker, che probabilmente avrebbero trattenuto volentieri. Con Schroeder, dovrebbero partire in quintetto Kendrick Nunn, i già citati LeBron ed AD e boh, fate voi, uno fra Thomas Bryant e Damian Jones come lungo insieme a AD, e Lonnie Walker IV può essere una discreta arma tattica in certe situazioni di gioco, anche se la second unit dovrebbe, nei piani della dirigenza, non fare troppi danni, che a decidere le partite ci possono pensare i primi cinque.

La sensazione è che per il titolo non basterà, visto anche il coach che non è esattamente un vecchio lupo di mare come capoallenatore, ma si torna a quanto detto all’inizio: se AD e LeBron staranno entrambi bene (ok, non è un piccolissimo “se”), davvero ce la sentiamo di escludere i Lakers a priori dalla corsa per l’anello?

Minuto 1:33: Pat Bev e Brodie non sembrano proprio amici per la pelle, ma il discorso vale per almeno tre quarti dei giocatori NBA…

 

 

#5 MEMPHIS GRIZZLIES

di Davide Romeo

Partiamo da un assunto a cui tutti sicuramente abbiamo pensato in questo inizio d’autunno: i Grizzlies 2022-23 ricordano molto il Regno di Prussia 1815-16. Insomma, la classica storia di un piccolo market in crescita, costruito dalle ceneri di antichi colossi  – da una parte la tradizione del Grit ‘n’ Grind di Gasol e Randolph, dall’altra le vestigia del Sacro Romano Impero – che riesce a ottenere risultati nettamente oltre le aspettative, trovandosi tuttavia a fare i conti con una sconfitta sicuramente formativa e giustificabile, ma indubbiamente cocente.

Infatti dopo una stagione regolare clamorosa da 59 vittorie, i Grizzlies hanno dovuto cedere il passo in semifinale di Conference dinanzi ai Golden State Warriors poi divenuti campioni NBA: scegliete voi se attribuire a Kerr o a Curry il ruolo di Napoleone.
Nell’exploit dello scorso anno vi sono evidenti responsabilità del sig. Ja Morant, che ha fatto il prospettato salto di qualità disputando  la miglior stagione della sua carriera. Per chi non lo conoscesse (infedeli!) si tratta di un playmaker di straordinaria rapidità e atletismo, uno da cui non si può togliere lo sguardo per un secondo per  il rischio di perdersi di qualcosa di straordinario. Non ascoltate gli eretici che negano che sia La Seconda Venuta di Derrick Rose perché se riuscirà ad evitare infortuni  ha le carte in regola per contendere il titolo di MVP ai soliti noti: può però migliorare sul lato difensivo del campo, forse il suo maggior punto debole.

Jaren Jackson Jr. è un giocatore moderno che se sano è un elemento chiave per le sorti dei Grizzlies grazie alla propria capacità di aprire il campo, alle doti atletiche e soprattutto alla sua difesa del ferro, che gli è anche valsa l’inclusione nel primo quintetto difensivo dello scorso anno: è il terzo giocatore Grizzlies a riuscirci dopo Marc Gasol e Tony Allen.  Ha però ormai la reputazione di essere un giocatore fragile, e sarà importante che riesca ad evitare altri infortuni: purtroppo partirà già dai box.

La stagione-rivelazione da sophomore di Desmond Bane è stata forse oscurata da quella del compagno di backcourt, ma parliamo già di uno dei migliori tiratori della lega con anche ottime doti di playmaking.

Occhio ad altri giovani sulla rampa di lancio come David Roddy che può diventare una buona point forward (o all’occorrenza un discreto tight end), l’ala forte Santi Aldama che avrà tanti minuti in attesa del ritorno di JJJ.

John Konchar durante l’estate ha venduto la sua Chevrolet Impala del 2009 per acquistare una Tesla: chiaro presagio dell’upgrade a cui è chiamato ora che dovrà sopperire ai punti in uscita dalla panca persi con la partenza di Melton. La partenza Kyle Anderson potrebbe regalare ulteriore minutaggio a Zaire Williams, prospetto venuto fuori nella serie contro gli Warriors e che mira a ritagliarsi un posto in quintetto, ma indubbiamente indebolisce quella che era stata una seconda unit devastante durante la scorsa stagione.

Il roster mantiene comunque elementi solidi come il veterano di culto Steven Adams, il play di riserva Tyus Jones, che altrove potrebbe tranquillamente partire in quintetto, l’ala-centro Brandon Clarke, ottima soluzione da rollante, e Dillon Brooks, specialista difensivo dal rendimento ancora altalenante ma che si trova in contract year e vorrà far bene.

Al netto di Danny Green, arrivato nella sua squadra ideale in ritardo di 7-8 anni e ad oggi vera e propria incognita, i Grizzlies non hanno acquisito nessun free agent: una dichiarazione di intenti rispetto alla fiducia del front office nei giovani talenti a disposizione. La compagine del Tennessee ha già mostrato di avere le capacità per stare al tavolo con i grandi, ma la parte più complicata è mantenersi competitivi, specie quando si decide di scommettere su una rotazione molto giovane: sarà importante non farsi soverchiare dalla pressione e dalle aspettative che conseguono una stagione da quasi 60 vittorie, quando al contrario sembra legittimo e fisiologico aspettarsi qualche passo indietro. 

Allo stesso tempo, tuttavia, è consentito buttare un occhio a quelle Finali di Conference che mancano da giusto dieci anni, perché il talento è tanto e a volte i pianeti hanno proprio un allineamento interessante.


Letteralmente il meme con i due spiderman



 

#4 DENVER NUGGETS

di Luca Spadacenta

I Denver Nuggets sono stati un esempio virtuoso di come gestire il processo di rebuilding senza passare per il tanking selvaggio. Attraverso il draft e il lavoro di Michael Malone, infatti, sono riusciti a crescere anno dopo anno, partendo dalla sconfitta contro Minnesota nel 2018 (che gli costò l’accesso ai playoff) sino a raggiungere la Finale di Conference nella bolla di Orlando nel 2020. Nel marzo 2021 il front office decide che i tempi sono maturi per provare a fare il salto di qualità definitivo: Aaron Gordon arriva in Colorado e la squadra diventa una schiacciasassi, aprendo una serie molto convincente di vittorie. A metà aprile, però, Murray si rompe il crociato e il processo di crescita di Denver subisce una dolorosa battuta d’arresto. All’assenza di Murray si è poi aggiunta quella di Michael Porter jr. costretto a operarsi alla schiena lo scorso novembre e a saltare il resto della stagione. Soltanto un Nikola Jokić (di nuovo) in versione MVP ha permesso ai Nuggets di strappare il sesto posto a Ovest, per poi venire eliminati 4-1 al primo turno dagli Warriors.

I Nuggets si presentano ai nastri di partenza della stagione 2022-23 con il roster nuovamente al completo. Il nucleo centrale della squadra – Jokić, Murray, Porter Jr. e Gordon – è rimasto intatto, mentre in estate si è assistito a una piccola rivoluzione tra i giocatori di contorno. La novità più importante è stata la trade che ha portato in Colorado il sempreverde Ish Smith e uno dei migliori 3&D in circolazione, Kentavious Caldwell-Pope, in cambio di Will Barton e Monte Morris. La loro partenza garantirà un maggiore minutaggio a Bones Hyland, reduce da una convincente stagione da rookie. Gli altri arrivi estivi sono stati DeAndre Jordan e soprattutto Bruce Brown, che nell’ultima stagione ai Nets ha aumentato sensibilmente le proprie percentuali dall’arco e che garantirà difesa a una squadra storicamente più votata all’attacco.

I Nuggets sembrano dunque pronti a vivere una stagione da protagonisti, con Jokic finalmente non più chiamato a fare gli straordinari. Il grande punto interrogativo sono però gli infortuni. Murray avrà bisogno di un po’ di tempo per tornare ai suoi livelli, ma chi preoccupa di più è MPJ, che non sembra riuscire a risolvere i problemi alla schiena che lo stanno martoriando da inizio carriera. L’impressione è che il futuro dei Nuggets dipenderà soprattutto da lui e dalla sua tenuta fisica.   


La pomposità della cerimonia di consegna del premio di MVP dal vangelo secondo Nikola Jokić

 

 

 

#3 LOS ANGELES CLIPPERS

di Luca Spadacenta

Estate 2019. Dopo esser stati la grande sorpresa della stagione precedente i Los Angeles Clippers riescono a firmare Kawhi Leonard e Paul George, creando una delle coppie più complete su entrambi i lati del campo mai viste in NBA. Tutto sembra finalmente apparecchiato per puntare al tanto agognato titolo, ma i Clippers rimangono pur sempre i Clippers e inizia a capitargli qualsiasi cosa: si passa dal suicidio cestistico contro Denver nella bolla di Orlando, al cambio di allenatore, all’infortunio di Leonard contro Utah, fino alla doppia sconfitta al play-in della scorsa stagione.

Ai nastri di partenza della stagione 2022-23, però, i Clippers si candidano nuovamente come contender. Leonard e George sono ritornati dai rispettivi infortuni e saranno accompagnati da un roster a dir poco profondo, che la scorsa stagione è riuscito a chiudere con un dignitosissimo record di 24-27 le 51(!!!) partite giocate senza le due stelle della squadra. Il più grande interrogativo che accompagna i Clippers riguarda proprio gli infortuni: Leonard ha saltato tutta la scorsa stagione, George ha giocato appena 32 partite, mentre John Wall – il grande colpo estivo dei californiani – non gioca più di 41 partite dalla stagione 2016-17 ed è reduce da un’intera stagione passata lontano dal campo.   

L’arma in più a disposizione di Lue sarà però la lunghezza del roster, che permetterà all’ex allenatore dei Cavaliers di far riposare le sue stelle e arrivare – si spera- con tutto l’organico a disposizione ai playoff. Oltre ai già presenti Zubac, Morris, Jackson, Mann, Batum, Boston Jr, Coffey e Kennard, infatti, la scorsa stagione sono stati aggiunti alla rotazione anche Covington e Powell (anche lui infortunatosi dopo appena tre partite giocate con la squadra). L’unico ruolo in cui la coperta è un po’ corta è quello di centro, ma se le vie del signore sono infinite, anche le possibilità di coach Lue non scherzano: Covington e Morris possono essere pedine fondamentali per giocare con quintetti piccoli, anche grazie alla versatilità degli altri giocatori presenti nel roster.

Insomma, infortuni permettendo, l’obiettivo dei Clippers è uno e uno solo: vincere. Anche perché le primavere di George e Leonard passano e i circa 144,7 milioni di dollari di luxury tax pagati da Steve Ballmer (più di quanto spendono di soli stipendi squadre come Memphis, Charlotte e New York) devono essere giustificati.     


Paul George ha le idee molto chiare per la stagione



 

#2 PHOENIX SUNS

di Roberto Gennari

Può una squadra che ha i suoi due migliori realizzatori nati rispettivamente nel 1996 e nel 1998, con il secondo che è anche il miglior rimbalzista della squadra, rischiare di essere considerata in fase calante rispetto ad uno zenit comunque piuttosto repentino e inaspettato? Sì, se questa squadra sono i Phoenix Suns, che volenti o nolenti sono soprattutto i Phoenix Suns di Chris Paul, uno che ha già spento 37 candeline. E che, arrivato in Arizona a 35, in due stagioni ha portato una squadra che l’anno prima aveva chiuso con  un record di 34-39 a una finale NBA (al primo anno) e al miglior record dell’intera NBA (al secondo). È un paradosso, certo, ma al tempo stesso una fotografia abbastanza a fuoco di quello che abbiamo visto negli scorsi playoff, in cui i Suns sono stati avanti 2-0 e poi 3-2 nelle semifinali di conference contro Dallas (battuta 3 volte su 3 in regular season), salvo poi perdere in modo piuttosto netto gara-6 in Texas e gara-7 in casa, con un -33 casalingo che rappresenta la peggior prestazione casalinga in una gara-7 dei playoff dal 1948, nonché la seconda peggiore di sempre.

Il compito principale del Coach Of The Year Monty Williams, dunque, sarà proprio quello di risolvere questo enigma: come mantenere un’efficienza così alta come quella della scorsa stagione, senza dipendere così tanto da CP3? Si potrebbe provare a tornare all’antico, cioè far giocare più minuti da point guard al figlio di Melvin Booker, che in tempi non remoti è stato giocatore da quasi 7 assist a partita per una stagione, ma più verosimilmente si punterà al consolidamento di Cam Payne, già secondo miglior passatore dei suoi nella scorsa stagione, cercando di mantenere però quell’efficienza difensiva che è stata una delle chiavi della stagione: Phoenix ha chiuso la regular season al terzo posto della NBA per percentuale concessa dal campo e da tre punti, e al sesto per turnover forzati. In Arizona si è deciso di pareggiare l’offerta salariale fatta dai Pacers per DeAndre Ayton, secondo qualcuno più per non perderlo a parametro zero che per reale convinzione sul valore del ragazzo, che dalla sua è abbastanza complesso caratterialmente, e si è deciso di mantenere sostanzialmente inalterata l’ossatura della squadra, eccezion fatta per il “separato in casa” Jae Crowder, per il quale si aspettano offerte. Anche senza Jae, comunque, i Suns schiereranno uno starting five niente male, con Paul e Booker in guardia, Cam Johnson e Mikal Bridges in ala e il già citato Ayton come centro. A Phoenix, poi, in virtù degli addii di McGee e Kaminski, potrebbe anche far comodo un rientro in buona forma del lunghissimodegente Dario Šarić, assente da quell’infortunio al ginocchio in gara-1 delle finali NBA, anche se non è passando da Sibenik che si decideranno i destini dei Phoenix Suns 2022-23.


Ecco, se Cam Payne riesce ad essere questo realizzatore con maggior costanza, la faccenda si potrebbe fare interessante

 

 

#1 GOLDEN STATE WARRIORS

di Giorgio Barbareschi

Una decina di giorni fa, scrivere questa preview sarebbe stato un compito piuttosto semplice. I Golden State Warriors sono reduci dal titolo NBA (il quarto nelle ultime otto stagioni), hanno a roster il più mortifero tiratore di sempre, altri tre All Star, alcuni dei giovani più promettenti del campionato e uno dei migliori allenatori nella storia del gioco. Certo, il tutto viene via piuttosto caro (200 milioni di monte salari, che salgono a circa 350 considerando la luxury tax) ma avremmo potuto chiudere il tutto in poche righe pronosticando i Warriors tra le contender della stagione e possibilissimi protagonisti di una nuova finale NBA nel prossimo giugno.

E invece, da circa una settimana si parla soltanto del gancio destro che Draymond Green ha rifilato a Jordan Poole, un pugno che rischia di lasciare un segno non soltanto sul volto del malcapitato compagno di squadra ma anche sulle chance di repeat dei campioni in carica.

Green non è certo nuovo a intemperanze di vario genere, ma qui siamo di fronte a un gesto che, nonostante Kerr e Iguodala abbiano tentato di classificare come family business, avrà sicuramente impatto sul futuro dei Warriors, non foss’altro dal punto di vista contrattuale. Sia Poole che Green si sono trovati al centro di trattative sui rispettivi rinnovi contrattuali, con il primo che giusto pochi giorni fa ha firmato una rookie scale extension da ben 140 milioni in 4 anni e il secondo che sarà in scadenza la prossima estate (salvo decida di firmare la player option da 27 milioni). Un rinnovo che si prospetta spinoso, perchè Green chiede tanto, forse troppo rispetto a quanto la franchigia è disposta a mettere sul piatto.

Entrambi saranno comunque regolarmente in campo per la opening night e proveranno a scollarsi di dosso le scorie di questo spiacevole episodio. 

Di buono c’è che Curry continuerà a terrorizzare le difese avversarie e che Klay Thompson si sarà liberato di un po’ di quella ruggine che, comprensibilmente, ha mostrato lo scorso anno dopo oltre 900 giorni di assenza. Accanto agli Splash Brothers ci saranno Andrew Wiggins, giocatore rivelazione della passata stagione anche lui depositario di un recente e lauto rinnovo (109 milioni in 4 anni), l’insostituibile Kevon Looney e una nidiata di giovani talenti che oltre a Poole comprende anche il rientrante Wisemans, Kuminga e Moody. 

Se i Warriors riusciranno a far coesistere le due anime generazionali che compongono il loro roster e a sedare le tensioni interne, le chance di rivederli stappare lo champagne a giugno saranno decisamente alte. Viceversa, potrebbe essere arrivato il momento di rivedere i piani per il futuro.


Se non l’avete ancora visto forse eravate su Marte, ma questo è il video del pugno di cui sopra.

 

 


 

E per chiudere, vi lasciamo una chicca grafico-statistica da parte del nostro nerd Fabio Fantoni.

Nei grafici che seguono potete controllare le statistiche della scorsa stagione (ed il salario per quella corrente) selezionando sia la squadra che la misura che vi interessa maggiormente (in apertura i punti a partita) e che verrà visualizzata anche nell’istogramma in blu.

Nei grafici aggiuntivi “a puntini” trovate inoltre la distribuzione di tutti i giocatori NBA per le singole statistiche dove quelli della squadra selezionata hanno una dimensione maggiore e sono colorati di blu nel grafico che rappresenta la metrica selezionata, di rosso nei grafici che rappresentano le altre metriche, mentre i pallini grigi rappresentano i giocatori delle altre squadre.

Previous

Guida agli Europei 2022

Next

Unguarded Scottie

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Check Also