articolo di Daniele Vecchi

 

 

Jerry Buss: “Ho bisogno di strapparti il cuore dal petto”.

Red Auerbach: “Non hai il coraggio”.

Jerry Buss: “Oh sì che ce l’ho, ecco perché ti farò il culo”

 

(l’articolo contiene degli spoiler, ma, ovviamente, se conoscete un po’ la storia dei Lakers di inizio anni ’80, saprete già tutto. Se volete comunque godervi i 10 episodi della serie prodotta da HBO e distribuita in Italia da SKY e NOW senza nemmeno un briciolo di spoiler, non proseguite nella lettura)

 

La sensazione che un appassionato di basket italiano non giovane ha, dopo aver guardato Winning Time – L’Ascesa della Dinastia Lakers è… Meraviglia!

Meraviglia in primis per la fedeltà delle ricostruzioni della Los Angeles e degli Stati Uniti a cavallo tra gli anni 70 e 80, a livello di colori, abitudini, costumi. Ma soprattutto meraviglia nel vedere in maglia Lakers per tutte e dieci le puntate il Numero 7 Marty Byrnes, il Numero 9 Jim Chones, il numero 10 Norm Nixon, il Numero 21 Michael Cooper, il Numero 31 Spencer Haywood e il Numero 54 Mark Landsberger, tutti giocatori che hanno successivamente giocato in Italia: Byrnes a Verona nel 1984 e alla Virtus Bologna nell’87, Chones in Serie A2 alla Farrow’s Firenze (poi retrocessa) nel 1983, Cooper a Roma nel 1990/91, e Landsberger per ben quattro anni a Forlì dal 1984 all’88 e due a Montecatini dal 1989 al 91.

Vi è poi ovviamente Norm Nixon, grande protagonista della serie, visto alla Scavolini Pesaro nella stagione 1988-89 (ottima coppia di stranieri con Darren Daye), per non parlare ovviamente di un altro grande protagonista, Spencer Haywood, visto a Venezia in maglia Reyer nella stagione 1980-81 (anche qui una discreta coppia di stranieri, a Venezia, Haywood e Drazen Dalipagic), giusto la stagione dopo quella di cui si racconta nella serie.

Si potrebbero scrivere veramente fiumi di parole sulle implicazioni di questa serie e sulla veridicità presunta dei fatti narrati in queste dieci puntate, perché soprattutto tra i protagonisti reali di questa fiction vi è stato parecchio malumore. Noi ci limiteremo a guardare il lato di “entertainment” a livello di produzione televisiva, e del suo legame con il nostro sport, per poi fare un paio di considerazioni.

La cosa che colpisce immediatamente, oltre ai meravigliosi colori, ambientazioni e costumi, alla pasta delle immagini (l’intera produzione è girata con telecamere in pellicola 35 mm, con vecchie telecamere Ikagemi, il massimo della tecnologia, negli anni 80) e all’atmosfera ricreata in ogni minimo particolare, è la totale assenza di immagini di repertorio.

foto www.ymcinema.com

Non un frame che ritrae una partita NBA reale o uno dei protagonisti dell’epoca nella realtà. Tutta la serie è basata su immagini ricostruite, anche di eventi molto conosciuti e diffusi storicamente ovunque, scene ricreate ad hoc per l’occasione, come conferenze stampa, interviste, collegamenti live, o addirittura intere location ormai demolite come lo Spectrum di Philadelphia, il Boston Garden, o la villa di Kareem Abdul Jabbar a Bel Air (bruciata).

Dalla scena iniziale si capisce subito che sarà Jerry Buss (interpretato da John C. Reilly) il narratore più importante della serie, nonchè l’elemento focale della narrazione.

Non c’è niente di meglio di Sesso e Basket, questa è la prova che Dio esiste, dice Buss all’inizio del primo episodio, mentre sta per acquistare i Lakers, monito della sua attitudine.

foto www.hbo.com

Nonostante l’apparenza frivola al limite della mania per il sesso sfrenato con donne più giovani di lui, Jerry è un grande imprenditore visionario, che riesce a vedere la potenzialità della NBA in uno dei momenti più bui della storia, quando il contratto televisivo con la CBS è in bilico e quando l’immagine della NBA (a detta di Buss) “è troppo ‘scura’, una Lega con troppi neri comandata da bianchi”, sollevando un problema di fondo già molto importante ai tempi.

Jerry viene dal Wyoming, con un patrigno che lo faceva lavorare da schiavo e rideva di lui, motivandolo ancor di più  nel crescere e nel riuscire a costruire qualcosa di importante nella vita. E così fece, diventando uno degli immobiliaristi più influenti di Los Angeles. La madre contabile e il socio in affari Frank Mariani gli sconsigliarono vivamente di investire nei Lakers, ma lui li acquistò ugualmente per 67 milioni di dollari da Jack Cooke, antipatico e schizzinoso riccastro proprietario di cavalli. Pur non avendo abbastanza liquidità per acquistare i Lakers, Buss riuscì a portare a termine la trattativa, con un’unica idea in testa: SHOWTIME.

Il basket è uno spettacolo, Los Angeles è la terra dell’intrattenimento, e la sua visione, tra mille peripezie, diventa realtà. La concezione dell’esperienza-partita come uno spettacolo, l’introduzione del corpo di ballo delle Laker Girls, l’invito alle prime file del Forum per tutte le stelle del cinema e dello spettacolo è coinciso con l’arrivo di Magic Johnson come prima scelta assoluta all’NBA Draft del 1979, a dare vèrve a un progetto fino a quel momento solo nella mente di Buss.

foto www.hbo.com

Come detto però, per arrivare alla realizzazione di questa transizione, Buss deve passare attraverso decine di peripezie, economiche, pratiche, istituzionali e anche culturali.

Prese a lavorare con sé come stagista la figlia Jeannie, timida e con grandi idee, che dopo qualche screzio iniziale venne riconosciuta come ragazza dal grande potenziale da Claire Rothman, location manager che Buss ha ereditato dalla gestione Cooke, grande mente organizzatrice di eventi, e vera leader della gestione operativa del Forum.

Appena entrato nella Lega, il più acerrimo nemico di Buss diventò subito Red Auerbach dei Celtics.

Buss lancia deliberatamente la sfida contro “il Papa” (soprannominato così dagli altri proprietari, “segui la fumata bianca” consigliano a Buss, intendendo il continuo fumo di sigaro che contraddistingueva), la vera leggenda della NBA in quel momento, nonché persona più importante della Lega, anche più del Commissioner Larry O’Brien o del suo rampante visionario vice, David Stern.

Quindi i presupposti per Dr. Jerry non sono dei migliori, ma la visione è comunque nella sua testa, e lui non demorde.

La stella della squadra, Kareem Abdul Jabbar (Interpretato da Solomon Hughes), è in un periodo di scarsa motivazione, fa quello che deve senza nessun tipo di push extra, e anche con l’arrivo di Magic inizialmente le cose non migliorano.

La chiave di tutto è ovviamente Earvin Magic Johnson (interpretato da Quincy Isaiah).

foto www.hbo.com

Ragazzone dal sorriso smagliante, sempre felice e sempre entusiasta, si porta nella big city tutto il suo background di provincia, familiari ingombranti a distanza (la madre compulsivamente religiosa che si assicura che a Los Angeles vada in chiesa) e sfruttatori che gli ronzano attorno.

Lui ancora non lo sa, ma lo Showtime dipende tutto da lui, nonostante nella sua mente vi siano già, dalla finale NCAA dell’anno prima, i fantasmi della rivalità con Larry Bird. Stereotipo dello sciupafemmine bello e famoso, Magic viene raccontato come un ragazzo tormentato e fondamentalmente buono, che ama veramente il gioco.

Un personaggio che ha suscitato parecchie polemiche è Jerry West, dipinto come un sociopatico irascibile e frustrato, che è riuscito a vincere solo un Titolo NBA a fronte di sei sconfitte nelle Finals, sempre contro i Celtics, e che voleva scegliere Sidney Moncrief al posto di Magic.

foto www.hollywoodreporter.com

Dopo la ricerca di vari head coach e il rifiuto del candidato numero uno Jerry Tarkanian, i Lakers ingaggiano il semi sconosciuto (ancora oggi) Jack McKinney (interpretato da Tracy Letts), assistant coach di doctor Jack Ramsey a Portland e vero artefice offensivo del Titolo del 1977 in finale sui Philadelphia 76ers.

Come assistant coach McKinney si porta con sé Paul Westhead (interpretato da Jason Segel) da Philadelphia, uscito da Saint Joseph e in quel momento professore di inglese alla LaSalle University, Westhead è un philadelphiano che non ha nulla di philadelphiano, colto, gentile, pacato, imbranato, con poca personalità e timido all’inverosimile.

Viene raccontata l’evoluzione della squadra con McKinney, gli angoli smussati e le liti pacificate, e l’ottimo flusso dei Lakers fino all’incidente di McKinney, che rimase per due settimane in coma.

Nel mezzo vi è la parabola di Pat Riley (interpretato da Adrien Brody), che si ritrova ad elemosinare un posto da color commentator a Chick Hearn (storico telecronista losangelino) per le partite dei Lakers, sentendosi dire che ha la voce da gay e vivendo momenti di grande frustrazione, onde diventare assistente di Westhead quando McKinney ha l’incidente, tra consigli durante la propria cronaca e sedute di studio delle partite negli uffici del Forum.

Westhead però non è minimamente considerato dai giocatori, che con alti e bassi giocano praticamente da soli, senza che il coach ad interim riesca a farsi valere, con poco polso e troppo timido e introverso per imporsi su di loro.

La stagione viene raccontata con un paio di turning point importanti, come la gara all’inospitale Boston Garden che diviene il punto di svolta di Westhead e Riley con la squadra, la cavalcata delle 50 vittorie, il ritorno di McKinney, le vicissitudini familiari e personali di Buss, Magic, West, Haywood e Kareem, fino ad arrivare al finale che è storia, i Lakers vincono a Philadelphia in Gara 6 e conquistano il Titolo NBA con una grande prova di Magic, che in quella partita soffriva per la vittoria del Titolo di Rookie of the Year da parte di Larry Bird.

 

GRANDISSIME interpretazioni di tutti.

Personaggi tormentati, quasi tutti.

E straordinariamente somiglianti, virtualmente tutti.

Umani all’inverosimile, in una storia come detto romanzata e non completamente fedele agli accadimenti reali.

 

Per i più pignoli, la partita chiave della stagione a Boston, in realtà non è finita 99-98 per i Lakers con canestro allo scadere di Cooper ma 100-98 per i Lakers, con due liberi decisivi di Nixon a 3 secondi dalla fine.

Non ultimo, i seggiolini del Boston Garden non sono rossi come nella serie ma sono gialli.

Ricollegandosi alle somiglianze con i protagonisti reali, se ci si prende la briga di andare a rivedere quella gara del Garden tra Celtics e Lakers, ci si può accorgere della straordinaria somiglianza tra gli attori della fiction e la realtà, somiglianza non solo fisica ma anche attitudinale e posturale, a testimonianza del fatto che la cura dei particolari nella realizzazione di questa serie è stata maniacale.

Si vede Kareem girare la scena del film L’Aereo Più Pazzo del Mondo dove lui è Roger Murdock il secondo pilota, e nel backstage dopo aver girato lo stesso ragazzino gli chiede un autografo dicendogli che è veramente il suo giocatore preferito, e Kareem risponde “vaffanculo”, accadimento negato da Jabbar nell’articolo che andremo ad approfondire dopo.

foto www.hbo.com

Ovviamente, come detto, si parla di una produzione da budget fantasmagorico, curata in ogni caso nei minimi particolari, foriera anche di decine di spunti culturali degli States di quegli anni.

Qualche piccola chicca:

  • Quando Magic da Los Angeles chiama Cookie all’ateneo di Michigan State, nel telefono a gettoni da cui lei risponde, vi è un adesivo dei Bad Brains, band hardcore punk di afro americani di Washington, simbolo delle lotte razziali e per i i diritti civili di quel tempo che caratterizzavano soprattutto gli atenei del northeast.
  • Quando McKinney mostra i video ai Lakers durante il training camp, e fa vedere una azione in cui Jamaal Wilkes tira, la meccanica di tiro particolarissima di Silk è perfettamente espressa anche in questo particolare.
  • Nella sesta puntata si vede Norm Nixon assieme alla moglie, nella vita reale l’attrice Debbie Allen (già nel telefilm di culto anni settanta “Fame – Saranno Famosi”). Anche la moglie nella fiction è straordinariamente somigliante a Debbie Allen.
  • Kareem va a casa di Spencer Haywood subito dopo la vittoria, quella stessa notte. Il sudore del caldo umido di Los Angeles su Haywood, che piange, dicendo che ha rovinato tutto. Qui viene fuori l’umanità di Kareem, che abbraccia Haywood dopo avergli parlato di sua figlia e di tutte le cose buone che ha fatto nella vita, e gli sussurra: “Sei un campione”.

  

Capitolo frasi e citazioni… Vi sono le perle di Cookie, l’amore della vita di Magic fin dai tempi del liceo, sempre molto (giustamente) dura nei suoi confronti:

  • “Fermate il mondo, ci sono persone che non baciano la terra dove cammina Magic”.
  • “Tu mi ami? Non mi ami quanto tu ami TE, noi partiamo dalla panchina”.

 

La ex moglie di Jerry Buss, madre di Jeannie:

  • Buss:“Lo faccio per la mia famiglia”
  • Lei: “Tu non hai una famiglia, hai solo ripercussioni”

 

Jerry West:

  • “Faccio pena! Sono un allenatore di merda!”

 

I dialoghi tra Buss e Auerbach sono dinamite pura.

  • Auerbach lapidario a Buss: “Goditi le sveltine, le attenzioni, le dinastie lasciale a me”.
  • Buss non demorde: “Io penso di poter vincere”
  • E Auerbach ridendo: “Io ho BISOGNO di vincere, per essere un bastardo infelice… questo è il mio decennio”.

 

Altro scintillante incontro tra i due è al Forum, dentro il quale Auerbach entra dicendo:

  • “L’ultima volta che ho visto questo cesso è stato il 69, era gara 7. Eravamo alle corde quell’anno. Arrivai qui dentro, alzai lo sguardo, e vidi i palloncini… li aveva fatti fare Cooke, Lakers Campioni del Mondo…” e ride, ricordando a Buss che con quella squadra i Celtics vinsero 11 titoli, e che quello fu il più bello.
  • Buss in quel momento racconta a Red la motivazione supplementare che lui stesso gli ha dato: “Ho bisogno di strapparti il cuore dal petto”.
  • Red: “Non hai il coraggio”.
  • Buss: “Oh si che ce l’ho, ecco perché ti farò il culo, Red”. Per dispetto Auerbach, colpito, fa cadere il sigaro sul logo del Forum, in una scena estremamente iconografica.

  

Doctor J è gentilissimo con Magic, gli fa conoscere sua moglie, lo invita a cena, e il giorno dopo in campo lo umilia.

  • La spiegazione di Jerry West: “Bill Russell faceva lo stesso con Wilt Chamberlain. La sera prima lo portava a cena, era amichevole, poi in campo gli tagliava la gola. E Wilt ci cascava ogni volta. Forse Wilt aveva più bisogno di piacere che di vincere”.

 

Spencer Haywood messo fuori squadra, parla a Kareem:

  • “Dovunque ti capiti di vedere una faccia nera, c’è una lacrima sopra”.

 

“Winning Time – L’ascesa della Dinastia dei Lakers”, si può considerare una serie tripolare, come minimo.

Può essere una serie per non appassionati di basket, che vedono raccontata la Los Angeles Anni 80 e una delle mille storie raccontate sul sogno americano, su visionari che ce la mettono tutta per perseguire un progetto e che alla fine ce la fanno, narrando stereotipi più o meno figli della immensa capacità di storytelling delle produzioni americane.

Può essere una serie per appassionati di basket di medio livello, che hanno sentito parlare della dinastia Lakers dello Showtime, che hanno conosciuto Magic per sentito dire e/o come contrattore del virus HIV, Kareem come miglior marcatore della storia NBA, e forse Jerry West come la sagoma del logo NBA.

Oppure può essere una serie per appassionati di basket un po’ attempati che hanno vissuto quell’era, l’era pre-Michael Jordan per intenderci, che hanno avuto nei Lakers dello Showtime un qualcosa da amare, da odiare, da vivere ed ammirare, sapendo, nei limiti del possibile data la ancora limitata comunicazione del tempo, le controversìe e le vicissitudini che hanno caratterizzato quei tempi ormai quasi pionieristici della attuale Lega più globale del mondo.

Da queste tre “macro aree” possono partire almeno una dozzina di tipologie di “Buyer Personas”, termine mutuato dall’Inbound Marketing, ovvero tipologie di appassionati di serie televisive che si avvicinano a questo prodotto HBO, suddivisi per ulteriori categorie, età, estrazione, passioni, appassionati più di documentari o più di fiction, e moltissime altre sfaccettature.

E poi vi sono gli insiders. I “diretti interessati”. Coloro che sono stati direttamente coinvolti e che nella fiction hanno un nome e un cognome, coloro che sono personaggi realmente esistiti, loro malgrado protagonisti della serie, e che vengono descritti in un determinato modo. E molti di loro non hanno apprezzato il modo in cui vengono dipinti. Ma qui entra in gioco un fattore strutturale, che pone fine sul nascere alla quasi totalità delle illazioni e delle recriminazioni dei personaggi raccontati.

 

Il succo del discorso sta tutto nel cartello iniziale che dice testualmente:

Questa serie è una drammatizzazione di fatti ed eventi accaduti. Alcuni nomi sono stati cambiati, e alcuni eventi e personaggi sono stati romanzati, modificati o ricostruiti a scopo narrativo.

Sta tutto in queste 29 parole. Giuridicamente voce del verbo “pararsi il culo”.

 

Sulla serie, Kareem Abdul Jabbar, nella profonda analisi fatta sul suo sito, dice così:

“Sono caricature, non personaggi. Ritratti da parco divertimenti che enfatizzano una caratteristica fisica per amplificare il tuo aspetto, ma senza mai toccarne l’essenza. È come mettere insieme un mucchio di luci colorate lampeggianti e dire: “Questo è lo spirito del Natale”. I personaggi raccontati sono rappresentazioni approssimative di figure ipotetiche, che assomigliano a persone reali come un Han Solo fatto di Lego assomiglia a Harrison Ford”.

foto www.hbo.com

Magic Johnson invece non ci pensa nemmeno ad analizzare la serie, dice semplicemente: “Non puoi raccontare lo Showtime… La serie non la guarderò. Se i Lakers o io o alcuni Lakers avessero avuto qualcosa a che fare con questo, l’avrei fatto, ma così è semplicemente troppo. In primo luogo, sul campo abbiamo solo giocato come sapevamo. E poi fuori dal campo, perché a meno che tu non sia un Laker, o un membro della famiglia Buss, perché non puoi raccontare il dottor Jerry Buss, o le Laker Girls o Paula Abdul”.

foto www.hbo.com

Ma le parole forse più accurate e reali le ha dette Norm Nixon, ospite del podcast dell’acerrimo ex-nemico (e anche ex compagno di squadra ai Clippers nonché amico vero di vecchia data) Cedric Maxwell, che non ha perso occasione di chiedergli di Winning Time, con particolare riguardo alla scena della sfida uno contro uno con Magic alla festa di Donald Sterling: “Innanzitutto in quella scena era estate, e io avrei dovuto indossare una pelliccia di volpe ad un party in piscina?? Quella cosa non è mai accaduta, non ho mai affrontato Magic one-o-one, nei quattro anni che abbiamo giocato insieme. Non l’ho mai intimidito, figuriamoci quando non aveva ancora giocato nemmeno una partita nella NBA. Io vengo da Macon, Georgia, sono un ragazzo di campagna, orgoglioso di esserlo. Non vengo dalle grandi città, da New York, Boston o Chicago, non mi sarei mai permesso di intimidire Magic etichettandolo come un ragazzo di campagna, perché è una cosa che i ragazzi di città hanno sempre fatto con me, giochi con la campana delle mucche e cose del genere, io ho sempre detto giochiamocela e poi ne parliamo. Volevo vincere, sapevo che avevano preso Magic per farci giocare insieme”.

foto www.hbo.com

Jerry West, nella fiction, è stato forse quello più “colpito” a livello umano. Ovviamente la sua risposta non è stata molto accondiscendente, minacciando infatti a sua volta querele e procedimenti legali nei confronti di HBO. Queste le sue parole al Los Angeles Times: “La serie ci ha fatto sembrare tutti come dei personaggi dei cartoni animati. Hanno sminuito qualsiasi cosa buona abbiamo fatto. Sto valutando se portare tutto questo fino alla Corte Suprema”.

Sorprendentemente invece, il personaggio che forse sembrava esserne uscito peggio in assoluto, Spencer Haywood, con la sua profonda dipendenza dalla droga e l’esclusione dalla squadra dalle NBA Finals, si ritiene soddisfatto della sua “presenza” nella serie: “Direi che il mio personaggio è al 95% vero. Sono un po’ deluso da come è stato descritto Jerry West. Ma alcune cose di quella stagione sono andate esattamente così. Per quanto mi riguarda, anche a causa della sofferenza per tutti questi anni di disturbo da stress post-traumatico, mi sento sollevato. Questa serie mi ha dato la possibilità di far uscire tutto, quindi ringrazio “Winning Time”. Ora sono molto attivo, mi invitano a parecchi programmi di salute e a incontri sul tema delle dipendenze, dove parlo dei miei veri sentimenti e di tutto ciò che ho provato in quegli anni”.

Anche la famiglia di Jack McKinney (deceduto nel 2018) si è dichiarata entusiasta di Winning Time.

foto www.hbo.com

Sua moglie e le sue figlie si sono commosse nel vedere il padre e il marito che finalmente ha avuto ciò che gli era dovuto a livello di riconoscimenti cestistici. Anche molti fan dei Lakers avevano dimenticato il suo nome, ma il suo ruolo fu determinante, in quella stagione. Quindi il discorso fiction–non fiction impatta comunque in ogni caso su nomi e personaggi realmente esistiti ed esistenti. Non si può e non si riesce a scindere la fiction dalla realtà, quando si parla di nomi così conosciuti, ed è naturale che soprattutto chi è direttamente coinvolto dica la propria opinione. A noi profani fruitori rimane un prodotto di altissima qualità, a livello di cura dell’immagine, fotografia, colori, costumi e interpretazioni, a cui ci siamo sottoposti molto volentieri, ovviamente in attesa della seconda stagione in arrivo.

 

Winning Time è una chicca cinematografica curata nei minimi particolari, uno spaccato sociale dell’America anni 70 e 80 al servizio della evoluzione di quella che nei decenni successivi è diventata la Lega sportiva più famosa del mondo, la NOSTRA Lega, con tutti i suoi difetti e le sue contraddizioni passate. Più dei costumi, delle ambientazioni e della fedeltà delle rappresentazioni attoriali e contestuali, la cosa che più colpisce è lo storytelling della serie, che sottolinea il genio di alcuni visionari (Jerry Buss in primis, ma anche gli stessi Red Auerbach e David Stern), che hanno combattuto contro ipotetici mulini a vento, e che grazie alla loro perseveranza, hanno reso la NBA ciò che è oggi.

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