Questa notte ricomincia la NBA, quel campionato di basket dove giocano 30 squadre e alla fine arriva in finale la squadra di LeBron James del greco di Milwaukee.

Come sempre abbiamo preparato una comoda Guida nella quale trovate i roster e le analisi semi-serie di ogni squadra.

Trovate anche tutte le info per sapere come seguire in tv e in streaming tutta la stagione.

La Guida è stata realizzata con passione, sangue, sudore e tequila di: Mario Castelli, Roberto Gennari, Marco Munno, Davide Romeo, Giorgio Barbareschi, Luca Spadacenta e Raffaele Ferraro,

L’illustrazione in copertina, come sempre, è di quel genio di Paolo Mainini.

Alla fine di tutto trovate un grafico interattivo di Fabio Fantoni: potete perderci una marea di tempo cliccandoci sopra e scoprendo una valanga di statistiche.

Di seguito il nostro ranking per l’Est ed anche per l’Ovest. Importante: il 99.9% di chi fa pronostici ad inizio anno, non li azzecca. E noi di certo non rientriamo nello 0.1%.

Buona lettura!

 

E S T

 

#15 ORLANDO MAGIC

di Luca Spadacenta

Gli Orlando Magic sono reduci da una stagione segnata dalla decisione della dirigenza di ricominciare tutto da capo, con la cessione di Gordon, Fournier e Vučević in cambio di scelte e giovani. Tra le ragioni di questa rivoluzione ci sono i gravi infortuni al ginocchio di Isaac e Fultz. Il primo si è infortunato durante la bolla di Orlando, in un momento in cui sembrava in notevole crescita in attacco ed era in lizza per il premio di Defensive Player of the Year. Fultz, invece, si è infortunato dopo appena otto partite della scorsa stagione, quando i fantasmi dell’esperienza a Philadelphia sembravano finalmente passati. Entrambi i giocatori dovrebbero tornare a disposizione nel corso della stagione e saranno due pedine fondamentali per il neoarrivato Jamahl Mosley, debuttante nella posizione di head coach, ma con una lunghissima esperienza da assistente. La salute dei due sarà particolarmente importante per Orlando, considerando i 50 milioni in tre anni che dovranno versare a Fultz e gli 80 in quattro anni a Isaac.

Le due grandi novità stagionali arrivano dal draft: Franz Wagner (8) e, soprattutto, Jalen Suggs (5). Quest’ultimo è un vero e proprio regalo fatto a Orlando dai Raptors, che hanno deciso di scegliere Scottie Barnes (4) prima dell’ex Gonzaga. Suggs è una guardia con punti nelle mani, in grado di difendere e creare gioco. La sua dote migliore, però, è il carattere: è un leader nato con una mentalità da vincente. Sarà lui il titolare insieme a Gary Harris in un reparto piuttosto affollato: in attesa del ritorno di Fultz, ci sono, tra gli altri, Cole Anthony e RJ Hampton, che dovranno riuscire a mostrare dei miglioramenti. Nel ruolo di centro, invece, si contenderanno il posto Mo Bamba e Wendell Carter Jr., entrambi con carriere sinora deludenti ma reduci da una discreta seconda metà di stagione. È notizia di queste ore il rinnovo da 50 milioni in 4 anni per Wendell Carter Jr., mentre Bamba, entrato nell’ultimo anno di contratto, deve ancora convincere i Magic a offrirgli un rinnovo. Dietro di loro ci sarà Robin Lopez, arrivato in Florida per portare esperienza. Un altro giovane molto interessante è Chuma Okeke, un’ala reduce da un’ottima annata da rookie – ha passato la sua prima stagione ai box a causa di un infortunio – in cui ha mostrato di avere ottime capacità su entrambi i lati del campo.

Orlando è destinata ai bassifondi della classifica, ma – infortuni permettendo – la prossima stagione sarà un’importante occasione di crescita per i tanti giovani nel roster.

Sono lieto di presentarvi Jalen Suggs

 

 

#14 CLEVELAND CAVALIERS

di Luca Spadacenta

Della grandeur del recente passato di Cleveland è rimasto ormai solo il contratto da 60 milioni in due anni di Kevin Love, ma finalmente qualcosa inizia a muoversi in Ohio.

Collin Sexton ha chiuso la passata stagione a 24.3 punti di media, a cui si sono aggiunti i 17.4 di Darius Garland. La coppia forma uno dei backcourt più interessanti della Lega, ma le ridotte dimensioni fisiche di entrambi generano molti dubbi sulla loro convivenza nella metà campo difensiva. Il contratto di Sexton, inoltre, è in scadenza e l’ottimo rendimento della stagione passata ha portato il giocatore a chiedere cifre molto alte per il rinnovo. I prossimi mesi saranno decisivi per il futuro dei Cavs: un’eventuale esplosione di Garland, infatti, potrebbe portare il GM Altman a preferire l’ex Vanderbilt (scadenza 2023) a Sexton.

La grande novità stagionale è però Evan Mobley, arrivato con la scelta numero 3. Il prodotto di USC è dotato di un arsenale offensivo potenzialmente illimitato, riuscendo ad unire i movimenti di una guardia a quelli di un lungo di due metri e dieci, ma la metà campo in cui eccelle è quella difensiva: è un clamoroso rim protector ed è in grado di cambiare contro chiunque. La domanda sorge spontanea: siamo di fronte ad un MVP? No, almeno per il momento. È ancora troppo leggero per reggere i contatti NBA e non ha ancora un tiro affidabile. Come per Ayton, Adebayo ed Embiid, probabilmente dovremo attendere qualche anno prima di vedere il suo valore reale.

A Mobley, Sexton e Garland si aggiungono alcuni veterani come Ricky Rubio e Kevin Love e altri giocatori interessanti come Isaac Okoro, Lauri Markkanen e Jarrett Allen. Verosimilmente i play-in saranno il massimo risultato raggiungibile per coach Bickerstaff, che nel frattempo, però, potrà divertirsi a far impazzire i cultori della small ball con quintetti con Markkanen da 3, Love da 4 e uno tra Mobley e Allen da 5.

Prima di lasciare Cleveland Larry Nance Jr. ci ha regalato uno dei soprannomi più belli della Lega

 

 

#13 DETROIT PISTONS

di Roberto Gennari

Dalle parti di Motor City non si respira esattamente aria di madness, nel senso che per il terzo anno consecutivo le aspettative sono basse, molto basse. Coach Casey, al suo quarto anno alla guida dei Pistons, si trova a dover gestire un roster in rebuilding che più rebuilding non si può, visto anche l’addio estivo ai pochi veterani rimasti. Il problema è che l’ex capo allenatore dei Raptors, dove fu coach dell’anno nel 2018, dopo una prima stagione che ha visto i suoi approdare ai playoff, seppur perdendo al primo turno contro i Bucks con un secco 4-0, ha messo insieme due stagioni da 20 vittorie ciascuna, a fronte di ben 98 sconfitte complessive.

Di buono c’è che sono giovani: della rosa attuale, ben 13 giocatori hanno meno di 25 anni, il che lascia pensare che i margini di miglioramento ci debbano essere per forza. Di meno buono c’è che allo stato attuale delle cose nessuno di questi giovani è già pronto a caricarsi la squadra sulle spalle. Non sarà, almeno a inizio stagione, neanche la prima scelta assoluta Cade Cunningham a farlo: coach Casey ha infatti dichiarato, un po’ per l’infortunio alla caviglia patito a inizio ottobre, un po’ perché comunque la franchigia lo ritiene un capitale da preservare, che “non metteranno fretta a Cade”, che tradotto dovrebbe voler dire che almeno a inizio stagione non gli verrà chiesto di giocare da point guard. Ovvio che le aspettative sul ragazzo sono alte, merito anche del suo curriculum: miglior giocatore liceale nel 2020, probabilmente il miglior freshman dell’anno nel 2021 in NCAA (l’unico incluso nel primo quintetto collegiale), un 2.03 che può giocare da play, da guardia e da ala piccola e che a Oklahoma State ne metteva 20 a sera tirando col 40% da tre…

In ogni caso, i Pistons potrebbero schierare abbastanza spesso uno starting five con tre 2001 (Hayes, Cunningham e Stewart) e un 1999 (Bey), oltre al “veterano” Jerami Grant, che lo scorso anno si è piazzato alle spalle di Julius Randle nelle votazioni per l’MIP. È una squadra molto “moderna”, nel senso che non ha giocatori particolarmente alti (gli unici due sopra i 2.08 sono Olynyk e il rookie Luka Garza, altro primo quintetto NCAA 2021) ma ha la possibilità, o la necessità, vedete voi, di cambiare sistematicamente in difesa ogni sera. Per i playoff dovrebbe volerci il binocolo, ma se almeno si riesce a far diventare un 30 la cifra alla casella W, potrebbe voler dire che la strada intrapresa è quella giusta.

Se Cunningham è sempre questo qui, i tifosi dei Pistons hanno detto che si accontentano

 

 

#12 WASHINGTON WIZARDS

di Davide Romeo

Va beh credo si possa essere tutti d’accordo che la prossima stagione dei Wizards sarà una stagione di transizione. Che poi si tratti di transizione pacifica verso obiettivi ben definiti, nello stile delle elezioni presidenziali americane, oppure di una transizione burrascosa in cui nessuno capisce bene come sta accadendo, come nello stile delle ULTIME elezioni americane, beh, questo è tutto da vedere.

Le chiavi del futuro della franchigia infatti le ha ancora il signor Bradley Beal, il secondo miglior realizzatore delle ultime stagioni: si tratta di uno dei giocatori più sottovalutati del decennio che adesso, per contro, si trova ad essere uno dei pezzi più pregiati e desiderati del mercato ed è anche in scadenza di contratto.

Dopo mosse di mercato quanto meno opinabili – leggasi Westbrook – in estate la dirigenza ha finalmente provato a costruire una squadra intorno al cecchino nativo di Saint Louis, allargando la rotazioni con giocatori di sicuro valore come Harrell e Caldwell-Pope,  e scommesse come Dinwiddie, che potrebbe portare gran valore se tornasse ai livelli precedenti alla rottura del crociato, e Kuzma che potrebbe fare lo stesso se tornasse ai livelli precedenti all’essere un meme vivente in un ambiente tossico come quello di Los Angeles.

Confermato il posto da titolare di Gafford, un buon giovane lungo difensivo, e dell’ormai esperto Bertans. Quello che potrebbe fare la differenza – in meglio o in peggio – è il cambio sulla panchina. Wes Unseld Jr., figlio della vecchia leggenda dei Wizards che secondo molti è stato uno degli MVP più scarsi di sempre,  è un allenatore dalla mentalità difensiva e a cui vƒiene spesso riconosciuto molto credito nello sviluppo di giocatori come Nikola Jokic e Jamal Murray: buone notizie dato che i Wizards hanno un’ala forte come Hachimura che può (deve) ancora crescere e una point forward come Deni Avdija, ex Maccabi, che potrebbe tornare a prendersi le responsabilità di playmaking che aveva in Europa.

La trama, signori, si è infittita, con una squadra che si è arricchita di asset interessanti e lo stesso Beal che ad oggi sta prendendo tempo sul rinnovo, chiaro segnale che c’è ancora qualche speranza che rimanga. È dunque il caso di esaminare i due scenari: se Beal restasse allora avremmo una squadra che punterà realisticamente al torneo di play-in, forse qualcosa di più se le scommesse pagheranno, se i vari Bryant e Bertans resteranno sani, se ci sarà un’identità difensiva solida e un’altra opzione offensiva di livello (Kuzma? Dinwiddie?); Se Beal partisse, allora potremmo assistere ad un rapido smantellamento degli asset più di valore per un tanking dell’ultim’ora. Che è la peggior tipologia di tanking, peraltro.

Big Brain Moment per Danielone Gafford

 

 

#11 TORONTO RAPTORS

di Marco Munno

Il principio intorno alla quale era costruita la squadra che conquistò lo storico titolo nel 2019 era “ora o mai più”. L’anello effettivamente arrivò, come la conseguenza che suggeriva il “mai più”: ovvero l’obbligo di ricostruzione di un team da rinnovare vista l’età media e la situazione contrattuale della stragrande maggioranza dei suoi componenti. Con la separazione da Kyle Lowry di questa estate ha salutato anche il giocatore più simbolico della storia della franchigia, a testimonianza di un processo di rebuilding ormai in fase avanzata e che mantiene, come legame con quella versione dei Raptors, i tre ragazzi designati ad esserne le star del presente. Saranno infatti Pascal Siakam (che nel frattempo si è ritagliato un ruolo di primo piano all’interno delle gerarchie dell’intera Lega, arrivando a giocare l’All-Star Game) e Fred VanVleet, già importanti in quelle Finals con i Warriors, i due fari dei canadesi, con OG Anunoby (assente invece per infortunio nell’ultima parte della trionfale stagione 2018/19) al loro fianco. Proprio quest’ultimo pare prossimo ad uno step in avanti nel proprio gioco, approfittando in più dell’assenza nelle prime gare di Pascal Siakam, ancora non recuperato dopo i problemi fisici del finale della scorsa stagione.

Sotto canestro ci sarà un altro simbolo della bontà del lavoro fatto sullo sviluppo dei giocatori da parte dello staff dei Raptors: Chris Boucher, lungo dall’ottima verticalità e con un tiro da fuori in evoluzione, che dovrà confermare i progressi intravisti nella passata annata sportiva per non perdere minutaggio rispetto al canadese di nascita Khem Birch e a Precious Achiuwa, una delle due contropartite arrivate da Miami nell’ambito dell’affare Lowry. L’altra invece ha bisogno di poche presentazioni: si tratta infatti di Goran Dragic, ancora a Toronto nonostante abbia espresso chiaramente la volontà di non voler rimanere in un team non di primo piano. Il suo spot fra gli esterni potrebbe essere preso non tanto da un Malachi Flynn comunque in crescita nel finale della scorsa stagione (dove ha mostrato buoni flash tanto da realizzatore quanto da passatore, partendo in quintetto in 14 delle ultime 21 gare) ma da Gary Trent jr., scorer arrivato dai Blazers nello scorso marzo in cambio di Norman Powell. Lo spazio immaginato per i tre nella rotazione è stato tale da portare, in fase di draft, alla selezione a sorpresa di Scottie Barnes invece della gettonatissima combo guard Jalen Suggs: non si tratterà di un giocatore che metterà tanti punti a referto, ma potrà portare alla causa difesa, ottima capacità di lettura del gioco e impattare nei match in tutti gli altri aspetti.

Nella Eastern Conference non sono più una delle habitué alle zone alte come nella gran parte dello scorso decennio, e sarà difficile ottenere per i canadesi un posto nei playoff. Tuttavia non va sottovalutato un gruppo non certo acerbo in quanto a esperienza sui parquet, forte anche del ritorno in Canada, uno dei posti più caldi dal punto di vista del tifo, dopo 19 mesi passati tra bolla di Orlando e Tampa senza giocare nel proprio campo della Scotiabank Arena: se qualche squadra nella Conference scivolasse indietro rispetto ai pronostici iniziali, non ci sarebbe da stupirsi eccessivamente nel ritrovare i Raptos al loro posto…

Scottie Barnes, capisco l’entusiasmo da preseason… ma anche meno

 

 

#10 CHARLOTTE HORNETS

 

di Marco Munno

In pochi sembravano convinti dalle mosse della dirigenza nella scorsa estate. Il contratto quadriennale da 120 milioni di dollari complessivi sottoposto a Gordon Hayward pareva una follia, vista la sua storia clinica; la scelta di LaMelo Ball lasciava dubbi non tanto per le capacità del ragazzo, ma per il fit in una squadra con i propri migliori giocatori (Rozier e Graham) nello stesso ruolo. Invece, entrambe le scommesse si sono rivelate vincenti: Hayward non è tornato l’All-Star che era prima degli infortuni, ma non ci è andato troppo lontano; il talento mostrato del terzogenito di LaVar è esploso a tal punto da riscrivere le gerarchie fra le guardie, mettendo il suo nome in cima. Aggiungendo la crescita di PJ Washington e di Miles Bridges (che proprio con LaMelo ha formato una delle coppie più cool da vedere sui parquet della Lega), il team di Borrego è arrivato ad un passo dai playoff.

In questa offseason il front office ha quindi lavorato sulle mancanze palesate al play-in, dove la squadra è rovinosamente caduta. Salutati Devonte’ Graham e l’incostante Malik Monk, in ala è arrivato Kelly Oubre Jr.: fisicamente più possente dei due, puó darne lo stesso contributo offensivo (se non maggiore), facendo sia da polizza di sicurezza per le condizioni fisiche di Hayward (fuori nel finale della scorsa stagione, play-in compresi, e che presumibilmente vedrà il suo minutaggio in qualche modo limitato durante questa annata sportiva) che da alternativa per un quintetto small, con Washington da centro, in un assetto spesso efficiente nello scorso campionato. Inoltre, nella rotazione degli esterni si è aggiunto Ish Smith, play veterano tornato nella sua città natale dopo aver tanto girovagato nella Lega, mentre dal draft è arrivato lo scorer James Bouknight (più pronto all’impatto con la NBA rispetto all’altra prima scelta Kai Jones e alle seconde scelte JT Thor e Scottie Lewis).

Sotto i tabelloni, non rinnovati Cody Zeller e Bismack Biyombo che si dividevano i minuti nello spot di 5, è arrivato Mason Plumlee, lungo che con le sue doti da passatore (settimo assoluto per assist nel suo ruolo nella scorsa stagione, complessivamente la migliore della carriera per cifre) sembra fatto apposta per l’attacco degli Hornets, primo per percentuale di canestri assistiti (67.2%) e terzo per punti realizzati da assist (70.1) nella scorsa annata sportiva, dove si è contraddistinto per la suddivisione delle responsabilità e l’intrattenimento offerto.

Per la postseason potrebbe non bastare ancora; ma, sebbene gli Hornets restino la squadra della Eastern Conference da più stagioni consecutive fuori dai playoff (cinque), pare che il vento stia decisamente per cambiare…

Nella stagione d’esordio di LaMelo Ball una magia dopo l’altra

 

 

#9 INDIANA PACERS

di Luca Spadacenta

La free agency è quel periodo dell’anno in cui i tifosi sognano di vedere una nuova stella giocare nella propria squadra. Durante l’estate la dirigenza dei Pacers ha deciso di prendere una star, ma per la panchina. Rick Carlisle è tornato in quella che è stata la sua casa dal 2003 al 2007 e avrà il compito di portare stabilità a una franchigia che ha passato due anni piuttosto turbolenti. Dopo il brusco esonero di McMillan, arrivato a causa dell’ennesima eliminazione al Primo Turno – ironia della sorte, lo stesso McMillan ha poi portato Atlanta alle Finali di Conference – il Front Office aveva deciso di puntare su Bjorkgren, che avrebbe dovuto portare un gioco più divertente ad Indianapolis. Il tentativo di rivoluzione culturale è però fallito a causa dei continui infortuni, accompagnati dall’ostilità dello spogliatoio nei confronti dell’ex assistente di Nick Nurse. La sconfitta al play-in contro Washington e la richiesta di Brogdon e Sabonis di cambiare guida tecnica hanno portato la dirigenza a puntare su un allenatore navigato e in grado di riconsegnare un’identità alla squadra, completamente persa nell’ultimo anno. 

Il primo passo da fare per Carlisle sarà ritrovare la solidità difensiva che aveva contraddistinto i Pacers durante la gestione McMillan. Il roster a disposizione rimane di indiscutibile livello, è ricco di talento e molto giovane. Il problema più grande però rimangono gli infortuni. LeVert ha subito una frattura da stress a una vertebra e salterà probabilmente le prime partite di regular season. A questo infortunio si aggiungono quelli di Edmond Sumner, out per tutta la stagione a causa della rottura del tendine di Achille, di TJ Warren, che dopo le strabilianti prestazioni nella “bolla” di Orlando è riuscito a giocare solo quattro partite a causa di una frattura da stress al piede sinistro, e quello di Malcolm Brogdon, che a causa di un infortunio alla spalla sinistra non è sicuro di essere pronto per l’esordio stagionale. Insomma, Carlisle avrà il suo bel da fare per riportare in alto i Pacers. L’unica notizia positiva è che la corsa ai playoff ad est è molto meno affollata della loro infermeria.

Un assaggio dell’allegra atmosfera che si respirava l’anno scorso nello spogliatoio dei Pacers…

 

#8 CHICAGO BULLS

 

di Luca Spadacenta

Sei una guardia e giochi in NBA? Chicago ha bisogno di te. Può essere riassunto così il mercato estivo di Karnišovas ed Eversley, che hanno proseguito il lavoro iniziato con l’arrivo di Nikola Vučević lo scorso 25 marzo. I pessimi risultati degli ultimi anni, infatti, hanno portato il nuovo Front Office dei Bulls a fare tabula rasa di quanto fatto in precedenza dalla famigerata coppia “GarPax”, ovvero John Paxson e Gar Forman, e questo ha reso la città del vento – al di là delle facili battute – tra le assolute protagoniste dell’ultima free agency.

Le carenze difensive di Vučević hanno portato Karnišovas e Eversley a cercare esterni in grado di mettere molta pressione sul portatore di palla, permettendo così al montenegrino di rimanere a presidiare il pitturato senza dover seguire il bloccante. Per questa ragione sono stati firmati Alex Caruso (37 milioni in quattro anni) e Lonzo Ball (85 milioni in quattro anni). Quest’ultimo, oltre ad aver migliorato le percentuali da tre, potrà aiutare la squadra a gestire la palla e a servire LaVine in campo aperto. Il grande acquisto estivo dei Bulls è però DeRozan, reduce da tre stagioni a San Antonio passate un po’ in sordina, ma che l’hanno visto migliorare molto nella selezione di tiro e nella capacità di creare per gli altri. Il suo ruolo sarà quello di diminuire le responsabilità offensive di LaVine e aiutarlo nel suo percorso di crescita.

I Bulls, dunque, si affacciano alla stagione 2021/22 con un volto completamente nuovo rispetto al passato recente, ma anche con molte aspettative. Un’eventuale assenza dai playoff, infatti, non solo potrebbe portare alla mancata estensione del contratto di LaVine (probabilmente un quinquennale da oltre 200 milioni), ma sarebbe anche difficilmente sostenibile per la dirigenza, che ha ceduto il proprio futuro per Vučević (le prime scelte del 2021, 2023 e 2024 ai Magic) e per DeRozan (prima scelta 2025 agli Spurs).

Durante gli Europei di calcio Vučević si è fatto qualche amico in Inghilterra

 

 

#7 NEW YORK KNICKS

di Marco Munno

Per tante offseason i Knicks, nel tentativo di schiodarsi dal fondo delle classifiche e tornare ai playoff, hanno ricevuto porte sbattute in faccia dai free agent più blasonati, per nulla desiderosi di diventare il prossimo Carmelo Anthony quale volto della disfunzionale franchigia della Grande Mela. In quella 2019 fu toccato l’apice: si andava alla ricerca di Kevin Durant e Kyrie Irving sognando la scelta numero 1 al draft, che sarebbe stata Zion Williamson, e ci si ritrovò con Julius Randle quale firma di punta assieme a Bobby Portis, Marcus Morris e Taj Gibson (tanto per riempirsi di lunghi nell’epoca dello small ball) oltre a Elfrid Payton, Wayne Ellington e Reggie Bullock. Il mal di pancia di Kristaps Porziņģis che aveva portato a gennaio alla cessione del giocatore che pareva destinato proprio ad assumere quel ruolo di prima pietra dei Knicks sembrava essere sempre più giustificato: e invece.

Un’altra firma molto contestata all’inizio come quella di Tom Thibodeau quale capo allenatore ha invece rivoluzionato, in combinazione con Randle, l’intera franchigia: i Knicks hanno conquistato la postseason trovando un assetto convincente, con una direzione per lo sviluppo di RJ Barrett e di Mitchell Robinson (guardia e centro del futuro, così come parte delle prossime versioni dei Knicks sembrano essere Immanuel Quickley e Kevin Knox), un Derrick Rose di lusso quale sesto uomo e un Randle diventato un All-Star (e l’ovvio vincitore del premio di Most Improved Player) con un’annata da 24.1 punti, 10.2 rimbalzi, 6 assist ad allacciata di scarpe (tutti massimi in carriera, come la percentuale da 3 del 41.1%).

Nonostante la brusca uscita al primo turno contro gli Hawks, la solidità del progetto dei Knicks è stata riconosciuta anche nella free agency: confermati gli uomini chiave della rotazione (nella quale si attende un maggior spazio per Obi Toppin), sono arrivati Evan Fournier e l’”uomo di casa” Kemba Walker a dare profondità, talento ed esperienza al gruppo.

Una star contornata da veterani di qualità e giovani di prospettiva, in un gruppo dalle tante alternative nel breve e nel lungo periodo: fra le tante follie viste negli anni dal proprietario James Dolan, questo scenario se lo sarebbero immaginati davvero in pochi.

Chi avrebbe pensato ai Knicks diventare in così breve tempo una squadra seria?

 

 

#6 BOSTON CELTICS

di Davide Romeo

Inutile nascondersi dietro a un dito, ci saremmo aspettati tutti molto di più dai Boston Celtics durante la scorsa stagione. Le scusanti ci sono, per carità, a partire dall’affollamento in infermeria: ma quello che sembra essere venuto meno è proprio quell’attacco fluido, quei movimenti sincronizzati e armonici che aveva caratterizzato il gruppo dei ragazzi terribili di Stevens fin dal suo arrivo sulla panchina che fu di Auerbach.

E proprio come la leggenda dei Celtics anche Stevens è passato ad un ruolo manageriale, sostituito dal debuttante Udoka e subentrando dopo quasi un ventennio di Danny Ainge.
Non sarà una rivoluzione vera e propria, dato che si continuerà a costruire attorno a Jayson Tatum, Jaylen Brown ad oggi forse il miglior duo sugli esterni della lega – e al leader Marcus Smart.

Confermato Robert Williams III, che pur essendo un sequel è sicuramente un ottimo difensore interno, il rookie Payton Pritchard che ha soffiato il posto ad un veterano ex All-Star come Jeff Teague. Confermato anche Romeo Langford, che ha disputato un’ottima preseason.

Coach Ime Udoka è l’ennesimo prodotto della scuola Popovich, e ha già allenato Tatum, Brown e Smart  ai mondiali del 2019: ha la fama di concentrarsi sulla fase difensiva, storico punto forte dei Celtics, e di essere un sergente di ferro, almeno rispetto al placido Stevens.

Parliamo di mercato: è andato via Kemba Walker, che lo scorso anno è stato più a suo agio in infermeria che non nei rapporti con Stevens – che infatti l’ha impacchettato alla prima occasione; via Fournier, un buon realizzatore da regular season; via un Tristan Thompson che forse ha imboccato la Sunset Boulevard. Partiti anche il grezzo meme Tacko Fall e gli impalpabili Ojeleye ed Edwards.

È arrivato Dennis Schröder. Il tedesco ha fatto la Isaiah Thomas Move, rifiutando un contrattone dai Lakers, fiducioso nel libero mercato, ed è rimasto con le briciole: bisognerà verificarne le effettive motivazioni. Enes Kanter, che ormai fa la spola tra Portland e Boston, potrebbe integrarsi bene nel gioco a due con il tedesco. Il cavallo di ritorno Al Horford offre presenza difensiva ed esperienza, ma non è certamente più quello di qualche anno fa. Juancho Hernangómez e Josh Richardson sono in cerca di riscatto e consentono versatilità sugli esterni. Il centro Bruno Fernando lotterà per entrare in rotazione, mentre il rookie Juhann Bergarin, ex Paris, realisticamente lo lasciamo lì e ne parliamo tra un paio d’anni.

Tatum punterà al quintetto All-NBA e Brown sarà uno dei cinque migliori two-way della lega, assisteremo a quintetti molto versatili piccoli o alti in base alle esigenze. Nonostante ciò, aspettarsi 50+ vittorie come qualche stagione fa è irrealistico. Scollinare le 40-45 e andare oltre il primo turno, ad oggi, sarebbe un buon risultato, considerando i grandi cambiamenti vissuti durante l’estate.

Contattatemi se volete salire sull’hype train di Langford

 

 

#5 ATLANTA HAWKS

di Mario Castelli

L’1 marzo scorso gli Atlanta Hawks esoneravano coach Lloyd Pierce per affidare la panchina a Nate McMillan. In quel momento la franchigia della Georgia era undicesima ad Est e aveva un bilancio di 14-20, sebbene avesse iniziato la stagione con un roster esperto e dalle discrete ambizioni, dopo le firme estive di free agent come Rajon Rondo, Bogdan Bogdanovic e Danilo Gallinari. Meno di quattro mesi più tardi, il 23 giugno, sarebbero stati in campo per la seconda finale di conference della propria storia e avrebbero pure vinto gara1 in casa di Milwaukee con 48 punti di uno spiritato Trae Young.

Come potete immaginare, in quell’arco di tempo relativamente limitato, di acqua nei ponti ne è passata davvero tanta. Dopo l’arrivo di McMillan gli Hawks hanno subito trovato otto successi consecutivi, cambiando completamente volto (anche scambiando Rajon Rondo con Lou Williams) e cominciando una rimonta che li ha portati a chiudere la regular season col quarto miglior record nella Eastern Conference e con un bilancio di 27-11 dal 2 marzo in avanti, il terzo migliore della NBA in quel lasso di tempo, alle spalle del 29-10 dei Phoenix Suns e del 28-10 dei Denver Nuggets. Come detto poi il loro cammino si è fermato in finale di conference con il 2-4 contro i Bucks dopo lo sfortunato infortunio di Trae Young in gara3, con i lanciatissimi Hawks che avevano nel frattempo eliminato Knicks e 76ers per 4-1 e 4-3, sempre ribaltando il fattore campo.

Quest’anno Atlanta riparte da quella insperata e travolgente cavalcata, pur sapendo che tornare a un passo dalla finale sarà molto difficile. Sarebbe troppo facile dire che le fortune principali dipenderanno ovviamente da Trae Young, incontenibile la scorsa primavera con quasi 29 punti e 10 assist di media nei playoffs prima dell’infortunio, ormai una stella di livello assoluto in NBA e reduce da un’estensione di contratto da 172,5 milioni di dollari in 5 anni firmata in estate, ma in realtà il fattore decisivo per gli Hawks sarà il rendimento del supporting cast. Il contorno della squadra è cambiato poco durante la offseason: Kris Dunn e Bruno Fernando sono stati sacrificati nella trade che ha portato Delon Wright da Sacramento, per dare un back-up a Young in posizione di point guard ed evitare di dover adattare altri nel ruolo, come avvenuto in diverse occasioni nei playoffs. Dal draft invece con la ventesima chiamata è arrivato Jalen Johnson, interessante ala uscita da Duke che nel suo unico anno in NCAA ha giocato solo 13 partite, prima di “ritirarsi” a metà febbraio, saltando il momento clou della stagione, per preservarsi da infortuni in vista del draft. Queste, assieme alla firma di Gorgui Dieng, sono state le poche transazioni degne di nota, assieme ad altre minori e poco influenti.

Il grosso del supporting cast rimarrà quindi lo stesso della squadra che ha tenuto testa a Milwaukee: partendo da John Collins, rifirmato in estate con un quinquennale da 125 milioni totali, passando per il nostro Danilo Gallinari, sesto uomo di lusso, uno dei leader tecnici e caratteriali della squadra, e il serbo Bogdan Bogdanovic. In mezzo all’area il titolare sarà sempre lo svizzero Clint Capela, che a sua volta ha esteso il contratto che lo legava fino al 2023 di ulteriori due anni, aggiungendo al suo accordo quasi 46 milioni di dollari. Il quintetto con Young, Bogdanovic, Collins e Capela è completato da De’Andre Hunter, prezioso swingman che entra nella sua terza stagione in carriera e che l’anno scorso aveva aiutato a tirare la carretta nei momenti di difficoltà della gestione Pearce, mentre le rotazioni principali, oltre ai già citati Wright, Gallinari, Johnson e Dieng, vedranno uscire dalla panchina il veterano realizzatore Lou Williams, l’energetico Kevin Huerter, un potenziale talento in cerca di esplosione come Cam Reddish e l’agente speciale difensivo Solomon Hill.

Come detto riuscire a tornare in finale di conference non sarà semplice e la concorrenza ad Est è potenzialmente agguerrita, ma Atlanta ha il roster necessario per centrare comodamente i playoff e poi divertire e divertirsi come ha fatto nella passata stagione, con la possibilità di potersi togliere diverse soddisfazioni come avvenuto lo scorso anno, qualora alcune combinazioni si allineassero.

In estate Trae Young ha festeggiato la vittoria agli Europei dell’Italia dell’amico Gallinari

 

#4 PHILADELPHIA 76ERS

di Roberto Gennari

In Pennsylvania da quattro mesi a questa parte è in corso uno psicodramma collettivo tutt’altro che risolto. Le dichiarazioni post gara 7 della semifinale di conference di Embiid e coach Rivers, infatti, hanno scavato un solco molto probabilmente incolmabile tra il team e uno dei suoi tre contrattoni, quello di Ben Simmons, diventato agli occhi di tutti la mucca nel corridoio. Nessuno ricorda le 8 sanguinose palle perse di Embiid, o l’8-24 dal campo di Harris. Troppo ingombranti le voci statistiche del numero 25: un anemico 2-4 dal campo in quasi 36 minuti giocati di gara-7, un oggettivamente scabroso 25-73 dalla lunetta complessivo nei playoff 2021, solo in parte compensato dai quasi 8 rimbalzi, dai quasi 9 assist (a fronte di appena 2 perse, per un rate di 3.92) e dal 62% dal campo.

Il problema di quella gara 7, persa da Philadelphia in volata contro gli Hawks, è che ha significato la terza eliminazione al secondo turno di playoff negli ultimi 4 anni, ricalcando in tutto e per tutto il cammino del 2019, quello del famosissimo buzzer beater di Leonard. Gli anni passano, e in The Processci credono sempre meno tutti, tifosi e addetti ai lavori. La gestione dell’affaire Simmons, da qualsiasi parte la si guardi, è stata assolutamente dilettantesca. Da una parte il giocatore, sull’Aventino perché convinto di essere stato ingiustamente additato come unico capro espiatorio dell’eliminazione di Phila. Dall’altra i due pezzi da novanta della squadra che ci spalano un bel carro di concime sopra, rendendolo di fatto impossibile da scambiare. Così, adesso che la preseason è terminata e la proprietà non ha accettato di svendere il suo numero 25, giocoforza si è di nuovo tutti amici come prima, e la starting lineup dei Sixers potrebbe (dovrebbe?) nuovamente essere quella composta da Simmons, Seth Curry, Danny Green, Tobias Harris e Joel Embiid.Squadra competitiva, lo scorso anno in cima alla Eastern Conference, con tutti i suoi dubbi irrisolti, coi nervi a fior di pelle, con due titolari separati in casa. Ah, e con Andre Drummond al posto di Dwight Howard. Così, per non farsi mancare niente. Magari tra qualche anno scopriamo che era tutta una soap opera, o magari le stelle si allineano e quest’anno vincono il titolo, secondo me più no che sì, vabbè, nel dubbio preparo i popcorn.

Embiid fresco di rinnovo contrattuale supermax, ci credo che abbia dichiarato amore eterno alla città, lo avrei fatto anch’io per quei due spicci che si prenderà.

 

#3 MIAMI HEAT

di Roberto Gennari

A South Beach, il risveglio dopo la magica cavalcata nella bolla di Orlando che li ha portati alle NBA Finals per la sesta volta nella loro tutto sommato breve storia, è stato brusco e per molti versi inatteso. Qualche sconfitta di troppo nella regular season, chiusa comunque al 55% di vittorie dopo un avvio complicato causa le infinite defezioni dovute al Covid, li ha portati a finire al primo turno abbinati contro i futuri campioni NBA, che proprio spazzando via gli Heat dopo essere stati eliminati in malo modo da loro l’anno precedente, hanno costruito quella fiducia in loro stessi che li ha portati sulla vetta della Lega.

Certo, nella free agency estiva erano partiti alcuni giocatori di una certa importanza, su tutti Jae Crowder che a Orlando ha probabilmente messo in mostra il suo miglior basket da quando è nella Lega – ed è infatti tornato alle Finals anche quest’anno in maglia Suns. Le trade di marzo, poi, con le partenze di Bradley, Olynyk e Leonard e le aggiunte di Ariza, Bjelica e della scommessa Oladipo, non hanno cambiato la sostanza delle cose. Miami era competitiva, ma non a sufficienza. Partito Crowder, infatti, la coperta è sembrata corta nel non poter schierare il miglior quintetto dal punto di vista offensivo, quello coi 4 piccoli (Dragic, Herro, Butler e Robinson) più Adebayo, perché si pagava troppo pegno in difesa.

 E allora, aspettando un recupero di Oladipo in cui a questo punto gli Heat quantomeno sperano (a fine anno il giocatore sarà comunque free agent), ecco che si corre ai ripari sul mercato. Ai saluti col play sloveno dopo quasi 7 stagioni, Miami sceglie di non ringiovanirsi e punta sul coetaneo Kyle Lowry, per tornare da subito a competere con le due superpotenze che ci sono ad oggi a Est, ovvero Milwaukee e i Brooklyn Nets, e sull’altro veterano PJ Tucker, fresco di titolo coi Bucks. Certo, ci sarà bisogno del contributo di Herro (che non sembra aver passato l’estate a sistemare il tiro in sospensione di Jack Harlow, ed è apparso in gran spolvero in questa preseason), chiamato a fare il vice sia di Lowry che di Butler, di Duncan Robinson e in generale di una second unit che, se Oladipo non torna a livelli accettabili, non pare irresistibile. La presenza di Spoelstra, Adebayo e Jimmy Butler pone ad oggi gli Heat un gradino sotto Milwaukee e Brooklyn, ma comunque con tutto il potenziale per fare meglio dello scorso anno. E non dimentichiamoci che nella stanza dei bottoni c’è uno che sembra saperla lunga…

Me le ricordavo meglio, le Charlie’s Angels…

 

 

#2 MILWAUKEE BUCKS

di Mario Castelli

A cinquant’anni di distanza dal proprio unico titolo NBA, quello vinto nel 1971 con Lew Alcindor e Oscar Robertson, i Milwaukee Bucks sono tornati ad infilarsi un anello al dito. Già solo per questa ragione sarebbe doveroso considerare la franchigia del Wisconsin la favorita del campionato che sta per cominciare, sebbene squadre come Brooklyn e Lakers possano essere magari un po’ più talentuose o esperte. Però Milwaukee ha dimostrato di essere una squadra vera guidata da un fuoriclasse vero come Giannis Antetokounmpo (i 50 punti nella decisiva gara 6 contro Phoenix hanno spazzato via anche l’ultima manciata di strenui dubbiosi) e, anche se confermarsi è sempre più difficile che vincere, fino ad una eventuale eliminazione ai prossimi playoffs saranno i Bucks la squadra da battere.

Come detto questa è la squadra di Antetokounmpo, che dopo aver vinto il titolo di MVP per due anni di fila è passato dagli awards personali alle vittorie ben più prestigiose, quelle di squadra. Ma è proprio il concetto di squadra quello più importante per parlare dei Bucks: sebbene non possano vantare probabilmente il gioco più spumeggiante, l’anno scorso i ragazzi guidati da Mike Budenholzer hanno chiuso la stagione con il migliore attacco della NBA, a oltre 120 punti di media a partita. Dopo il dominio in regular season delle due annate precedenti, chiuse con il 73.2% e il 76.7% di vittorie (in entrambi i casi il miglior record della Lega), nel 2020/21 i Bucks hanno sofferto un po’ di più, vinto qualche partita in meno, ma sono riusciti a creare un equilibrio e uno spirito che sono poi tornati utili nella fase decisiva della stagione, rimontando da 0-2 contro Brooklyn, da 0-1 contro Atlanta e di nuovo da 0-2 contro Phoenix. Poi ovviamente ci si è messa anche la fortuna (ricordate quella punta del piede di Durant sull’arco…), ma quella, come si suol dire, aiuta gli audaci.

Come è normale che sia per una squadra campione NBA in carica, Milwaukee ha cambiato poco in estate e comunque in ruoli tutto sommato marginali. Il roster ripropone la superstella Antetokounmpo e l’All-Star Middleton, sempre accompagnati da Jrue Holiday – forse il vero fattore che ha fatto fare quell’ultimo passo in avanti per rendere definitivamente i Bucks una squadra da titolo – e da Brook Lopez, ai quali è pronto a riaggungersi Donte DiVincenzo, reduce da un pesante infortunio alla caviglia subìto appena prima dell’inizio dei playoff. La partenza più importante è stata quella di PJ Tucker – spostato in quintetto dopo lo stop di “The Big Ragù” e in campo oltre 30 minuti di media a partita nelle Finals contro i Suns – che ha portato la sua dimensione da 3&D ai Miami Heat. L’arrivo principale invece è stato quello di Grayson Allen, giunto da Memphis dopo la prima stagione in doppia cifra della sua carriera, che assieme ai free agents George Hill, Rodney Hood e Semi Ojeleye andranno ad unirsi al supporting cast, che vede sempre una pedina fondamentale in entrambe le metà campo come Pat Connaughton e un lungo versatile come Bobby Portis, oltre ovviamente a Thanasis Antetokounmpo, il fratellone di Giannis. Ma una mano potrebbe darla il nigeriano Jordan Nwora, uno dei migliori in assoluto per Milwaukee durante la preseason.

Che dite, c’era un minimo di entusiasmo nel Deer District durante le Finali NBA?

 

 

#1 BROOKLYN NETS

di Marco Munno

Nell’estate del 2013, il proprietario della franchigia Mikhail Prokhorov provò a coronare il sogno di trascinare la franchigia dai bassifondi della classifica all’anello mettendo insieme una sfilza di All-Star o quasi: da Deron Williams a Kevin Garnett, passando per Paul Pierce e Joe Johnson, senza dimenticare Andrej Kirilenko, Jason Terry e Brook Lopez. L’assortimento di stelle non funzionó, e viste le scelte sacrificate, il lavoro di risalita per il front office guidato da Sean Marks è stato faticoso (e, c’è da dire, ben fatto): dalle ceneri di quella squadra è nata quella attuale, che di simile ha il vasto elenco di ragazzi dal curriculum di livello, ma una somma di talento complessivo maggiore.

Difatti, i tre campioni di riferimento Kevin DurantJames Harden e Kyrie Irving sono tutti nel loro prime della carriera, o comunque non in fase calante: anzi, per quanto riguarda Durant, superato brillantemente l’infortunio al tendine d’Achille, in molti lo vedono attualmente come il miglior giocatore dell’intera Lega, con il sorpasso effettuato su LeBron. Il Barba è ugualmente polarizzante per le difese pur non essendo il centro del sistema, come a Houston, e Irving pare riuscire a spartire le responsabilità offensive con i due compagni. “Pare”, perchè i tre assieme nella scorsa annata si sono visti pochissimo contemporaneamente sul parquet, frenati da una serie di infortuni (decisivi anche per la chiusura della corsa nei playoff) che ci si augura non si ripetano in questa stagione. Dove però la dirigenza è riuscita ad aumentare le alternative: fra gli esterni, con l’arrivo di Patty Mills e del mastino Jevon Carter più la scelta al draft del realizzatore Cameron Thomas; fra i lunghi, con il ritorno di LaMarcus Aldridge dopo l’improvviso ritiro dell’anno passato per i problemi cardiaci e la firma di Paul Millsap. Il tutto senza perdere Bruce Brown, Joe Harris, Blake Griffin e Nicolas Claxton, in grado di dare contributo in tante “piccole” cose (rispettivamente difesa, tiro, fisicità e esuberanza) intorno ai tre talenti.

Su un’armata del genere pesa però un’incognita bella grossa, quella di Kyrie Irving. Il quale ha deciso di non procedere alla vaccinazione contro il covid, risultando quindi non utilizzabile per le partite giocate a New York (visto il regolamento cittadino, che non permette la partecipazione ad eventi al chiuso di persone non vaccinate), ovvero tutte quelle casalinghe e le due al Madison Square Garden, più altre ancora da definire viste le risoluzioni simili che stanno per essere adottate da altri stati. Nonostante l’autorizzazione a potersi allenare con il team, alla fine il proprietario Tsai e il gm Marks hanno deciso di escluderlo ad oltranza dal gruppo, non accettando una disponibilità part time della stella, per quanto sia grossa sul parquet e “pesante” a tutto tondo (visto il legame con Durant, che accettò di firmare coi Nets proprio per la presenza di Irving, e di riflesso con il terzo fenomeno Harden).

Per un roster che, fra le tante qualità, data l’età media dei componenti non ha certo la longevità sportiva, la distanza dall’anello (in quella che potrebbe essere l’unica occasione per conquistarlo) assomiglia sinistramente a quella da una soluzione a questa spinosa vicenda, Bucks e Lakers permettendo. Di certo, l’augurio per i tifosi è quello di tornare a parlare di ciò che accade sul parquet invece che al di fuori…

Prokhorov promise di sposarsi se nei primi 5 anni dal suo acquisto della franchigia, nel 2009, non avesse vinto il titolo. Senza un anello NBA, è riuscito a evitare quello nuziale dicendo che la sua promessa al suo posto l’abbia mantenuta il commisioer Adam Silver, ammogliatosi nel 2015

 

 


O V E S T

 

#15 OKLAHOMA CITY THUNDER

di Marco Munno

E’ bello grande il cartello con su scritto “Work in progress” appeso fuori dalla Chesapeake Energy Arena. Le scelte nelle mani del gm Sam Presti (19 prime e 15 seconde nei prossimi 7 draft) sono ancora una miriade e non sono state utilizzate, neanche parzialmente, per una conversione in giocatori pronti all’uso: va da sè che il prossimo passo del progetto che hanno in mente ai Thunder è ancora lontano. Nell’attesa, rimane quindi lo sviluppo dei tanti giovani in un roster ulteriormente svecchiato, liberatosi da Al Horford e Kemba Walker (la cui “pesantezza”, in termini di status e cap, non è compensata dall’acquisizione di Derrick Favors e Mike Muscala).

Il primo della lista dei ragazzi da far crescere non può che essere Shai Gilgeous-Alexander: l’estensione quinquiennale di contratto da 172 milioni lo rende chiaramente il giocatore designato ad essere l’uomo franchigia per gli anni a venire, con la prospettiva di guadagnarsi una selezione nell’All-Star Game 2022. Al suo fianco, è attesa un’ulteriore crescita dall’altro canadese Luguentz Dort, perla pescata nel sommerso dei ragazzi non scelti al draft (abbastanza ironico per una franchigia con così tante picks accumulate, ma tant’è): la qualità della sua difesa è già d’élite all’interno dell’intera Lega, dovrà ora migliorare il tiro da fuori per diventare un 3&D di tutto rispetto.

Se a 23 e 22 anni compiuti i due rappresentano le “certezze”, arriviamo quindi ai due prospetti più accattivanti: Aleksej Pokuševski e Josh Giddey. Il primo, che durante questa estate non ha giocato nè il Preolimpico di Belgrado con la Serbia nè la Summer League per lavorare sul suo fisico, ha mostrato quindi di conoscere l’ambito sul quale concentrare i propri sforzi per poter imporre il suo talento cristallino in NBA, del quale ha già mostrato flash con una sensibilità nel tocco, un ball handling e un gioco di piedi più che sorprendente per un giocatore di 2 metri e 13. Il secondo è stato selezionato con la numero 6 assoluta al draft di questa estate, dove i Thunder hanno creduto ai suoi miglioramenti al tiro (ricalcando il percorso di Lonzo Ball, dal simile profilo), pecca di un playmaker di 203 centimetri con visioni cestistiche già abbacinanti.

Quindi, la serie di scommesse: se Darius Bazley pare quella meno avventata (sebbene i suoi miglioramenti si siano rallentati nel corso della passata stagione), meno si può dire rispetto all’investimento su Isaiah Roby, Vit Krejčí, Tre Mann o Ty Jerome. Più solido pare l’investimento su Theo Maledon, che come Gabriel Deck dopo i passaggi in Eurolega ha mostrato qualcosa di interessante anche al di là dell’Oceano.

Restano comunque poche, ad oggi, le certezze (fra cui, nel suo piccolo, Kenrich Williams), in nome di un futuro tutto da scrivere: insomma, ci sarà tanto da faticare per trasformare così tanto tessuto grezzo in uno splendido vestito.

A proposito di look, per Giddey non possiamo che accodarci ai consigli da veterano di Joe Ingles

 

#14 HOUSTON ROCKETS

di Marco Munno

Lo scenario post-Harden si immaginava apocalittico per i Rockets, e non è andata diversamente. Il tentativo disperat(issim)o di mettergli a fianco John Wall non ha avuto effetto, e quando The Beard ha ottenuto la cessione tanto agognata, a Houston sono rimaste le macerie. Si sono quindi viste partite a maggio con un numero esiguo di giocatori a disposizione, fra cui sconosciuti gettati in campo per chiudere la stagione avendo già in mente la successiva. Nella quale, non si può che ripartire dalla nota più positiva: quel Christian Wood che ha comunque firmato, nel marasma generale, 21 punti e 9.6 rimbalzi a gara, diventando punto fermo di un roster nel quale pensava solamente di essere un pezzo di complemento alla coppia Westbrook/Harden al momento della firma.

Con Eric Gordon sul piede di partenza, dei Rockets coi propositi da titolo non è sostanzialmente rimasto nulla, e anche a livello di veterani non c’è tanto materiale: House Jr., Augustin, Nwaba e il nuovo arrivato Theis non sono, a differenza di Wood e del Jae’Sean Tate diventato una certezza dopo aver risalito la china dalla mancata selezione al draft del 2018, pezzi sui quali investire per un progetto a lungo termine. L’attenzione è tutta rivolta alle nuove leve, capeggiate dal duo Kevin Porter Jr. e Jalen Green (seconda scelta assoluta questa estate): in comune i due hanno un talento smisurato, dal punto di vista dei mezzi fisici e della classe pura, ma anche un atteggiamento spesso sopra le righe che andrà sopportato per quanto possibile, senza perderne il controllo. Da questo equilibrio dipenderanno molte delle sorti di questo nuovo corso a Houston, senza dimenticare le altre due pesche interessanti al draft estivo, entrambe nel settore dei lunghi: Alperen Şengün, MVP dello scorso campionato turco a soli 18 anni, ha mostrato tanti lampi nella metà campo offensiva, tanti quanti Usman Garuba (da anni dominatore nelle manifestazioni europee giovanili, prima dell’impatto nel Real Madrid in Liga e Eurolega) in quella difensiva. Al loro fianco, fra i prospetti nel reparto dei big man, il figlio d’arte Kenyon Martin Jr., come il padre aggressore folle del ferro.

In attesa di trovare un compratore per John Wall, fuori dal progetto tecnico, è questo il pacchetto con cui i Rockets si presenteranno ai nastri di partenza della stagione: ma la strada per arrivare ad una parvenza di competitività pare davvero molto lunga.

Dicevamo, dei mezzi fisici di Jalen Green…

 

 

#13 MINNESOTA TIMBERWOLVES

di Giorgio Barbareschi

I TWolves, candidati pluriennali al premio di franchigia peggio gestita della Lega (e al momento in una sorta di limbo, perché i nuovi proprietari Marc Lore e Alex Rodriguez ne potranno prendere possesso solo tra due anni), si affacciano a questa nuova stagione con le solite speranze e gli ancor più consueti punti di domanda.

Pronti-via, le settimane precedenti al training camp hanno visto il licenziamento dell’ormai ex General Manager Gersson Rosas, causa relazione extraconiugale con una dipendente della franchigia e una miriade di altri casini combinati poco più di due anni scarsi alla guida della baracca.

Il roster per la verità non sarebbe nemmeno male. Karl-Anthony Towns in attacco è uno dei giocatori più devastanti della NBA (in difesa magari meno), Anthony Edwards è una star in the making e D’Angelo Russell, se riesce a stare sano, è pur sempre un giocatore offensivamente d’elite.

A proposito di infortuni, lo scorso anno prima di farsi male Malik Beasley sfiorava i venti punti ad allacciata di scarpe, ma è da capire quanto spazio potrà avere in questa stagione dopo l’arrivo di Patrick Beverley, convocato nel freddo Minnesota per correggere la cultura difensiva (ma quale?) di squadra. Un’impresa sinceramente improba per un singolo uomo, per cui a Las Vegas non prendono scommesse su una sua sclerata a reti unificate entro le prime due settimane di regular season.

A parte questo non ci sono state grandi novità estive, anche perchè i TWolves non avevano scelte di primo giro all’ultimo draft dopo aver ceduto ai Warriors la loro numero 7 assoluta, all’interno dell’affare Russell. Vedremo comunque cosa succederà in un anno intero con Chris Fitch alla guida. Se poi la pista Simmons dovesse riaccendersi da qui alla trade deadline, la cosa potrebbe cambiare notevolmente lo scenario complessivo.

Detto questo, noi tutti della redazione de La Giornata Tipo ci auguriamo che, successi sportivi a parte, la vita porti finalmente un po’ di serenità a Towns, dopo un anno e mezzo letteralmente tragico che ha visto morire causa Covid diverse persone a lui care e in cui ha recentemente esternato con grande coraggio i conseguenti problemi personali di ansia e depressione. Keep strong KAT!

Di certo, per Beverly non è mai stato un problema di poca autostima

 

 

#12 SACRAMENTO KINGS

di Roberto Gennari

Mancano ai playoff da 15 stagioni consecutive, e in nessuna di queste hanno vinto 40 partite. Certo, c’è l’ingombrante presenza di Vivek Ranadivé, c’è stata la gestione da GM di Vlade Divac che ha lasciato a volte a desiderare – anche qui: non si sa quanto per volontà sua e quanto per le ingerenze dell’esuberante proprietario – eppure le ultime stagioni hanno se non altro fatto vedere qualche spiraglio di luce in fondo al tunnel. Detto che il colpo di mercato più importante è stata la non riconferma di Hassan Whiteside, ci sono De’Aaron Fox e Tyrese Haliburton nel backcourt, Harrison Barnes e Marvin Bagley in ala, Richaun Holmes sotto le plance: tutto sommato un quintetto che sembra avere un minimo di senso, se non altro. 

Anche nella second unit, bontà loro, qualcosa di buono sembra esserci: i punti in uscita dalla panchina di Buddy Hield, ovviamente, e la solidità garantita da Mo Harkless e Tristan Thompson. Dal draft, con la chiamata numero 9, è poi arrivato Davion Mitchell, e qui vale la pena spendere due parole in più. Se da una parte il play di Baylor, fresco campione NCAA, non sembra un talento cristallino (e infatti è arrivato in NBA a 23 anni, sempre più una rarità), dall’altra c’è da considerare che è un difensore arcigno (è stato il difensore dell’anno in NCAA) e che la lunga militanza nel basket collegiale ne farà un rookie più smaliziato dei suoi colleghi. Insomma, in poche parole, c’è del potenziale. Il che, per chi manca dalla postseason da tre lustri, è già qualcosa. 

Basterà per tornare ai playoff? Difficile dirlo, perché se è vero che la squadra sembra ben allestita, è altrettanto vero che coach Walton è un altro che ha ancora tutto da dimostrare, visto che nelle sue cinque stagioni da capo allenatore fin qui disputate ha sempre mancato l’accesso alla post-season. La crescita c’è, e si vede, anche se magari sia Ranadivé sia il GM Monte McNair auspicavano fosse più rapida. L’impressione è che il record di stagioni consecutive senza accedere ai playoff, attualmente detenuto dai Kings e dai Clippers con 15, potrebbe essere ritoccato, ma è qui che si vedrà di che pasta sono fatti a Sacramento: se riusciranno a tenere i nervi saldi e non smantellare la squadra, i tempi bui potrebbero essere lasciati alle spalle, più prima che poi.

Mancheranno ai playoff da una vita, ma come gestione dei social media non sono secondi a nessuno…

 

 

#11 SAN ANTONIO SPURS

di Davide Romeo

Va bene, siam tutti bravi a pontificare dicendo sic transit gloria mundi e a cantare “aaazivegna” in onore del cerchio della vita. Bisogna ammettere tuttavia che assistere al mutamento del corso naturale delle cose non è mai semplice, così come non è semplice vedere in campo dei San Antonio Spurs mediocri, nel senso più stretto del termine, dopo quasi due decadi di eccellenza. 

Sarà la prima stagione senza LaMarcus Aldridge, che aveva ricevuto le chiavi del ruolo di 4 da Tim Duncan, la prima senza i veterani DeRozan, Gay e Mills.

Sarà dunque ricostruzione per Gregg Popovich, che riparte da una certezza ormai matura come Dejounte Murray, che punterà al primo quintetto difensivo e avendo finalmente anche le chiavi dell’attacco, potrebbe mostrare se in effetti c’è qualcosa di più.

Nel reparto lunghi c’è un giovane rampante come Keldon Johnson, che partirà titolare proprio nel ruolo che fu di Aldridge e, fresco di medaglia olimpica, sembra pronto ad una breakout season. Gli altri giocatori che completano il quintetto – gli specialisti difensivi White e Poeltl – sono solidi comprimari che potrebbero avere ancora margine per fare un salto di qualità.
Lo stesso può dirsi di Bryn Forbes, tornato alla base fresco di anello vinto a Milwaukee, e del veterano Doug McDermott, realizzatori efficienti che avranno molto spazio in questa stagione ma sui quali non c’è certo pressione di fare risultato.

In tal senso anche l’inserimento di Young ha forse più valenza formativa che non tecnica, pur trattandosi comunque di un giocatore esperto, di comprovata solidità e versatilità.

Due nomi che intrigano sono quelli di Lonnie Walker IV, playmaker molto atletico che avrà molto spazio per sgrezzarsi, e di Zach Collins, ala forte che aveva mostrato già le sue qualità a Portland ma ha faticato a mantenere integrità fisica in questi anni: quest’ultimo, se recuperato, potrebbe rivelarsi un azzardo vincente.
Facciamo attenzione a non confondere però una stagione di transizione e ricostruzione con una di tanking: gli Spurs hanno costruito una squadra che avrà difficoltà a segnare tanti punti ma che cercherà di essere rognosa e vendere cara la pelle.
Quindi i playoff non sono assolutamente un obiettivo, ma non è da escludere che si trovi una chimica inaspettata e si riesca ad approdare in zona play-in come al termine della scorsa stagione.


Tema: chiavi dell’attacco a Dejounte Murray
Svolgimento: vedi sopra

 

 

#10 NEW ORLEANS PELICANS

di Roberto Gennari

Anno terzo dalla partenza di Anthony Davis. I Pelicans sono ancora impaludati. E certo, direte voi, sono in Louisiana… Battute a parte, a New Orleans la situazione non spinge all’ottimismo: Zion Williamson è un giocatore che ha già dimostrato di non essere solo quello che schiaccia per gli highlight video su YouTube, ma la sua struttura fisica lo porta ad essere costantemente a rischio infortuni. Infatti, anche quest’anno il suo debutto stagionale non avverrà alla prima gara – in estate ha dovuto operarsi per ridurre una frattura al piede destro. Brandon Ingram, dopo aver vinto il premio come giocatore più migliorato due anni fa, ha disputato un’altra stagione da giocatore di alto livello, ma senza ulteriori progressi. 

Il GM dei Pels, Trajan Langdon, dopo una sola stagione ha scelto di non proseguire il rapporto con coach Stan Van Gundy ed affidare la squadra ad un esordiente come head coach, l’ex assistente di Warriors e Suns Willie Green. Si tratta del terzo head coach in tre stagioni per la franchigia della Louisiana, che consegna all’ex guardia dei Clippers un roster profondamente rinnovato. Via Bledsoe, via Lonzo Ball, via Steven Adams, via anche James Johnson: dello starting five dell’anno scorso restano solo i già citati Williamson e Ingram. Il backcourt dovrebbe vedere come partenti Devonte’ Graham, che gli Hornets hanno lasciato andare vista la presenza a roster di LaMelo Ball, e Nickeil Alexander-Walker, che lo scorso anno è sembrato in crescita dopo una stagione da rookie abbastanza anonima. A completare lo starting five, a New Orleans hanno deciso di puntare su Jonas Valanciunas, reduce dalla sua miglior stagione in carriera, cifre alla mano, in maglia Grizzlies. Se sta bene, il lituano è garanzia di rendimento e non pretende la palla a ogni possesso. 

Tolti loro, però, ci sono tante scommesse e qualche certezza. Come Tomas Satoransky e Josh Hart, che in una second unit non sfigureranno di certo. Ma a New Orleans servirà anche che Willy Hernangomez confermi i progressi visti lo scorso anno, e che il rookie Trey Murphy, Kira Lewis e Naji Marshall siano in grado di dare minuti di qualità. Salute. Così a occhio, si va per le 30 vittorie anche quest’anno: ci aspetta un’altra estate in cui ci faranno – inutilmente – sperare in un trasloco della franchigia a Seattle… o a Las Vegas, chissà?


Alle brutte, a Nickeil resta sempre il piano B. O magari no.

 

 

#9 MEMPHIS GRIZZLIES

di Davide Romeo

Il grande tema dell’estate è stata la discussa trade di Valančiūnas, che ha appena disputato la miglior stagione della sua carriera, a fronte dell’inserimento di Steven Adams, un buon difensore che sicuramente ha meno da offrire in fase offensiva ma che può rendere bene nel sistema di Jenkins.

Una mossa sicuramente non banale del front office, che sembra quasi una dichiarazione d’intenti rispetto alle rinnovate aspettative sulla squadra: il process è ancora in corso e non c’è nessuna voglia di fare la Sixers move e premere sull’acceleratore per competere subito.

Il lituano, arrivato come chioccia di Jaren Jackson Jr., si è trovato ad assumere un ruolo più importante in seguito al grave infortunio di quest’ultimo e avrebbe dovuto essere rinnovato a cifre importanti alla fine di questa stagione: un peso sul salary cap che il front office ha preferito tenere a disposizione per i propri giovani.

Allo stesso modo si può leggere la partenza di Grayson Allen, che ha dimostrato di avere una decina di punti nelle mani ma che può forse essere ben rimpiazzato da DeAnthony Melton, che “è da Hollywood”  – come Richard Benson – anagraficamente parlando, e ha raddoppiato le proprie percentuali da tre.
Anche Bane è un contender per partire titolare in quel ruolo, ma nobody cares until he puts on the mask.

I talenti più luminosi e sicuri del posto sono Ja Morant, il trascinatore della scorsa stagione, prossimamente All-Star, playmaker atletico che ti fa letteralmente cadere dalla sedia, oltre allo stesso JJJ, fresco di rinnovo che lo conferma al centro del progetto, dotato di un potenziale immaginifico e chiamato al riscatto dopo i guai fisici dello scorso anno. A questo duo si aggiunge Dillon the Villain Brooks, che si è evoluto in uno dei difensori più arditi e fastidiosi della lega ed ha acquisito più costanza in fase offensiva: troverete lui a marcare il miglior attaccante degli avversari..

Vi sono però anche altri giocatori di sicuro interesse, almeno narrativo, come “Slow-Mo” Kyle Anderson che sta giocando il suo miglior basket di sempre con un passo da minors, e Brandon Clarke, che potrà prendersi più responsabilità offensive con la partenza di Valančiūnas.

Se Tyus Jones è un cambio di sicura affidabilità per Morant, un nome che intriga molto è quello di Jarrett Culver, che ha mostrato qualche flash di talento in una stagione da rookie piuttosto deludente e potrebbe essere rivitalizzato dalle cure di coach Jenkins. 

La squadra del secondo allenatore più giovane della lega, nonché l’unico che non abbia mai giocato al college, unisce il tradizionale Grit’n’Grind di Memphis a quel tanto agognato basket a ritmi alti imprescindibile nell’era moderna. Le quaranta vittorie sono ampiamente alla portata, probabilmente anche qualcosa di più: ma attenzione a non fare il passo più lungo della gamba.


Ah sì, quei famosi difensori che costruiscono dal basso…

 

 

#8 PORTLAND TRAIL BLAZERS

di Giorgio Barbareschi

Dopo avere per tanti anni dichiarato amore eterno alla franchigia, durante la scorsa estate Damian Lillard ha per la prima volta messo in piazza i suoi mal di pancia dicendo: o si fa qualcosa per diventare davvero una contender o anche basta. Risultato: Cody Zeller, Tony Snell e Larry Nance. A posto così!

Nonostante il mercato deficitario, l’emergenza Lillard sembra al momento rientrata. Il numero zero ha fatto nuovamente trapelare dichiarazioni di amore verso la franchigia, ma i Blazers, soprattutto in caso di partenza zoppicante, sono i candidati numero uno a un’implosione di metà stagione.

Il problema principale è che Portland era, e presumibilmente sarà, una delle peggiori squadre difensive della Lega. A onor del vero anche per colpa dello stesso Dame, che però dall’altra parte è una clamorosa sentenza e ogni anno sembra sempre più devastante. Le possibilità di miglioramento dei Blazers passano quindi dalla loro metà campo, ma dubito che basti il passaggio da Stotts a Billups (peraltro da testare e arrivato con qualche polemica di troppo sul processo di selezione) per cambiare le cose.

Stante un monte salari ingessato dai contratti già a roster, l‘unica reale possibilità di migliorare la squadra passava dalla cessione di CJ McCollum, ma evidentemente le offerte giunte in Oregon non sono state ritenute adeguate al valore del giocatore. Nurkic è buono, ma fatica a stare sano e in difesa è anche lui una mezza tassa, oltre a essere quel profilo di giocatore statico e interno da cui le squadre NBA stanno palesemente tentando di allontanarsi sempre di più (in estate comunque sarà free agent). 

Con Carmelo Anthony che ha spedito i suoi talenti in California alla corte di King James, le sue conclusioni verranno probabilmente spartite tra Powell e Covington. All’ultimo draft Portland non disponeva di scelte, ma via trade si è accaparrata la 43esima chiamata con cui ha selezionato l’ala da Texas Greg Brown. Profilo per certi versi intrigante, ma la possibilità che possa incidere in questa stagione è più o meno pari a quella di vedere il neo-arrivato Dennis Smith Jr. in un quintetto All NBA.

Per ora quindi niente di granchè nuovo, ma appare abbastanza chiaro che questi Blazers siano all’ultimo giro di giostra e che per Lillard le sirene di NY suonino ogni giorno sempre più forte.

In questa foto la preview del saluto che tra un pò Lillard farà alla dirigenza dei Blazers

#7 LOS ANGELES CLIPPERS

di Giorgio Barbareschi

Capire dove possono arrivare questi Clippers è molto difficile. Leonard non è mai stato uno che torna da un infortunio prima del necessario (citofonare per referenze a casa Popovich e chiedere di Gregg) e, nonostante le recenti voci definiscano il suo recupero “in anticipo rispetto alle previsioni”,  c’è una buona probabilità che Kawhi possa rimanere fuori per tutta la stagione.

Spetterà quindi a Paul George tirare le redini del carro. PG13 è reduce dalla sua miglior stagione in termini di efficienza e negli scorsi playoff ha finalmente dimostrato di poter essere decisivo quando conta, smentendo molte delle critiche che gli erano piovute addosso dopo una… rivedibile esperienza nella bolla di Orlando.

La rotazione delle point guard è stata rivoluzionata alle partenze di Beverley e Rondo (più rimpianto il primo del secondo). Il backcourt verrà gestito in combinata da Terance Mann, terzo anno apparso decisamente in crescita nella stagione passata, Reggie Jackson, eccellente nella passata stagione e rifirmato con un onesto contratto per il prossimo biennio, ed Eric Bledsoe, che torna dopo otto stagioni alla franchigia che lo aveva lanciato a inizio carriera. Bledsoe, titolare di un soprannome “Mini-LeBron” affibbiatogli da qualcuno che probabilmente aveva bevuto un (bel) po’ troppo, è reduce da un’esperienza cestisticamente drammatica in quel di New Orleans, ma ha una sottovalutata dimensione difensiva che lo rende particolarmente adatto a questi Clippers.

Nè lui nè Jackson nè Mann rispondono però al profilo del playmaker tradizionale, per cui è probabile che i compiti di costruzione del gioco passeranno anche dalle mani di George e di Nicolas Batum, rinvigorito dall’arrivo a Los Angeles rispetto agli ultimi anni bui di Charlotte. Ci si attende un maggiore contributo da parte di Serge Ibaka, lo scorso anno limitato dagli infortuni e da Marcus Morris, che quando non pensa a litigare con chiunque gli passi davanti resta un ottimo giocatore.

I Clippers, Leonard o non Leonard, hanno un roster profondo e di qualità e sono guidati da un coach, Tyronn Lue, che negli scorsi playoff ha smentito molti critici e vinto più di un confronto tattico con allenatori più quotati di lui (pronto, casa Snyder?). L’obiettivo sarà di fare una stagione tranquilla per raggiungere la postseason, possibilmente saltando i play-in. A quel punto, poter contare sul rientro di Leonard potrebbe aprire interessanti possibilità anche in chiave titolo NBA.

Si attende il terzo atto della sfida Clippers-Mavericks per una nuova puntata della storia d’amore tra Morris e Doncic

 

 

#6 DALLAS MAVERICKS

di Giorgio Barbareschi

Due uscite al primo turno in tre anni, entrambe contro i Clippers. Questo a oggi il fatturato a livello di squadra per Luka Doncic, uno che prima di approdare in NBA era abituato ad alzare coppe con il Real Madrid al ritmo di due/tre all’anno. Per questo motivo, molti ritenevano che il rinnovo del fenomeno sloveno avrebbe portato ben più di un grattacapo alla dirigenza texana. 

Per ovviare ai possibili mal di testa (della pancia ne parleremo dopo) della propria superstar, i Mavs hanno silurato le due persone ritenute maggiormente responsabili delle sue irritazioni: coach Rick Carlisle, approdato agli Indiana Pacers e sostituito con Jason Kidd, e Haralabos Voulgaris, consigliere e amico del proprietario Mark Cuban tornato a svolgere a tempo pieno il ruolo di scommettitore (!) e giocatore di poker professionista. Il risultato è stata la firma di Doncic sull’estensione contrattuale da 207 milioni in cinque anni, un accordo che rasserena gli animi e permetterà ai Mavs di programmare con (relativamente) più calma il prossimo futuro.

Probabilmente la dirigenza ha tentato anche di muovere Kristaps Porzingis, ma le sue recenti prestazioni nei playoff e un contratto non certo dei più leggeri hanno bloccato sul nascere ogni trattativa. Il lettone è accusato di essere uno dei giocatori più soft della lega e in questa stagione dovrà dimostrare di saper essere un secondo violino degno del suo illustre compare.

É infatti considerazione abbastanza ovvia che sarà Luka Magic a determinare fino a dove potranno spingersi i Dallas Mavericks. Lo sloveno è atteso a un annata da MVP, trofeo che è ampiamente alla sua portata anche se, come da tradizione, la sua candidatura avrà bisogno di essere corroborata da un sostanziale numero di vittorie da parte della squadra (almeno 50, traguardo non semplice da raggiungere).

La conferma di Tim Hardaway Jr. e il ritorno alla piena integrità fisica di Dwight Powell, uniti agli arrivi estivi di Sterling e Moses Brown, Frank Ntilikina e soprattutto Reggie Bullock, sono sicuramente buone notizie, ma l’impressione generale è che per competere davvero con le migliori manchi ancora qualcosa. 

Quello che a quanto pare invece non manca è la passione di Luka per il buon cibo, almeno a quanto si può desumere da alcune foto scattate in questa preseason. Speriamo che ai Mavericks sia avanzato qualche soldo per assumere un bravo dietologo…

Sì ok le guanciotte, ma avete visto le braccia?

 

 

#5 GOLDEN STATE WARRIORS

di Luca Spadacenta

Inutile girarci intorno: i Golden State Warriors sono la mina vagante della prossima stagione. Reduci da due anni costellati da infortuni, i californiani hanno voglia di tornare ad alti livelli. La grande novità stagionale sarà il ritorno di Klay Thompson, fermo ormai da due anni. Gli splash brothers però dovranno attendere ancora qualche settimana prima di ritrovarsi sul campo: il debutto stagionale di Thompson, infatti, dovrebbe essere intorno a Natale. Nel frattempo, Jordan Poole ha dimostrato di poter essere offensivamente un ottimo sostituto del losangelino. Un altro grande ritorno sarà quello di Andre Iguodala, che dopo due stagioni a Miami è pronto a portare esperienza in uscita dalla panchina insieme ai nuovi arrivati Nemanja Bjelica e Otto Porter Jr.

Dal draft sono arrivati Jonathan Kuminga (7) e Moses Moody (14), entrambi scelti molto più in basso rispetto alle aspettative. Insieme a Wiseman compongono lo young core degli Warriors, che grazie alle pessime prestazioni delle ultime due stagioni sono riusciti a gettare le basi per il futuro. La grande sfida per Steve Kerr sarà quella di bilanciare l’esigenza di essere subito competitivi con quella di sviluppare i propri giovani. In tal senso, la stagione da rookie di Wiseman non lascia ben sperare: il lungo ha dimostrato di avere un enorme potenziale, ma di essere ancora troppo acerbo. Il timore nella Baia è che lo stesso discorso potrebbe valere anche per Kuminga. Moses Moody, invece, sembra poter essere già pronto al grande salto, soprattutto grazie ad un fisico possente e delle buone percentuali al tiro.

Il grande punto interrogativo per gli Warriors rimane però la tenuta fisica. Molti giocatori hanno superato i trenta – Curry (33), Green (31), Iguodala (37) e Thompson (31) – e gli infortuni non sembrano diminuire: oltre al già citato Thompson, anche Wiseman e Kuminga saranno ai box in questo inizio di regular season. Vedremo come andrà la stagione, ma una cosa è certa: nessuno vorrà incontrare gli Warriors ai playoff. 

La chiamata tra Juan Toscano-Anderson e sua madre subito dopo aver firmato un contratto garantito con gli Warriors rimane uno dei momenti più belli della scorsa stagione

 

 

#4 DENVER NUGGETS

di Mario Castelli

Lo scorso anno Denver è sembrata a lungo una potenziale finalista NBA, salvo poi essere spazzata letteralmente via in semifinale di conference dai Phoenix Suns con un 4-0 che ha lasciato pochissimi dubbi, come testimoniano i 121.5 punti subiti di media nella serie e i quasi 16 punti di scarto a partita.

Ai Nuggets resta comunque l’alibi dell’infortunio che ha chiuso anzitempo la stagione di Jamal Murray a metà aprile, quando si iniziava ad entrare nella fase clou della stagione. E a poco è servita la annata da MVP di uno straordinario Nikola Jokic (26.4 punti, 10.8 rimbalzi e 8.3 assist con quasi il 57% dal campo), visto che l’assenza del secondo violino dell’attacco della squadra di Michael Malone ha tolto alternative a Denver: in 9 partite su 10 di playoff il top scorer della squadra è stato Jokic, e nell’unica in cui qualcun altro ha segnato più punti (Will Barton in gara4 contro i Suns) è solo perché il serbo è stato espulso nel terzo quarto quando era abbondantemente il miglior marcatore dei suoi.

Murray rientrerà a stagione in corso tra qualche mese, nel mentre i Nuggets dovranno riuscire a costruire un equilibrio senza di lui, ma le alternative teoricamente ci sono: in estate sono partiti solo giocatori non di primo piano come Paul Millsap e JaVale McGee, mentre sono arrivati dalla free agency una pedina utile come Jeff Green e dal draft un prospetto come Nah’Shon Hyland, interessante combo-guard da VCU che in preseason ha fatto vedere buone cose e che potrebbe riempire proprio parte del vuoto lasciato da Murray.

Ma soprattutto durante la offseason Denver ha investito tantissimo sulle conferme: a Michael Porter Jr è stata sottoposta un’estensione da 172 milioni in cinque anni, il massimo salariale, Aaron Gordon (arrivato lo scorso marzo via trade da Orlando) ha rifirmato a 87 milioni in quattro anni e Will Barton ha accettato un biennale da 30 milioni totali. Starà in particolare a loro dare una mano a Jokic per far fare un ulteriore salto di qualità a Denver. Oltre a questi, nel backcourt starà a Monte Morris e Facundo Campazzo non far sentire la mancanza di Jamal Murray, mentre dalla panchina daranno una mano anche JaMychal Green, Austin Rivers e PJ Dozier, più ovviamente i già citati Hyland e Jeff Green.

La squadra è parecchio giovane (Jeff Green è l’unico figlio degli anni ’80, il quintetto è tutto nato dal febbraio 1995 di Jokic in avanti) e ha il potenziale di crescita per continuare a fare piccoli passi in avanti: dopo tre annate consecutive sopra il 60% di vittorie, da questa stagione in poi arriva il momento di provare a costruire qualcosa di grande e sbarcare a quella finale NBA che nel Colorado aspettano dal 1976, quando i Nuggets migrarono dalla ABA alla attuale lega, senza però mai riuscire a lottare per l’anello in 45 anni di storia.


Siete pronti ad altre chicche dell’MVP?

 

 

#3 UTAH JAZZ

di Davide Romeo

Quando l’anno scorso avevo scritto le prospettive per quella che è ormai la scorsa stagione dei Jazz, avevo detto che con i rinnovi di Mitchell e Gobert l’obiettivo avrebbe dovuto essere superare le 50 vittorie e almeno il primo turno di playoff. 

I ragazzi di Snyder hanno fatto entrambe le cose, eppure è difficile non avere una certa sensazione di occasione mancata: la sensazione è che i Jazz abbiano ancora una volta raccolto in postseason molto meno di quanto avessero seminato durante la stagione regolare.
Intendiamoci, ci sono tutte le scusanti del mondo, in primis gli infortuni a Conley e Mitchell, e si tratta in ogni caso dell’ennesima stagione positiva, la quinta consecutiva in cui i Jazz partecipano ai playoff.
Confermata la guida tecnica e gran parte del nucleo della squadra, con la sola partenza illustre di Derrick Favors per ragioni salariali, e quella di Niang, sacrificabile nonostante una stagione positiva. L’arrivo di Gay e di Whiteside, due specialisti veterani che sono tuttavia ben oltre il prime delle loro carriere, è da interpretare come una chiara dichiarazione d’intenti: un ulteriore arricchimento delle rotazioni per cercare di arrivare in fondo alla postseason. È un grosso rischio, perché si tratta di giocatori di personalità e che potrebbero avere un impatto negativo anche a fronte di buone prestazioni individuali.
Una mossa rischiosa, dunque, ma comprensibile perché Donovan Mitchell sta per entrare nel prime della sua carriera, Gobert l’anno prossimo compirà trent’anni e Conley e Ingles vanno per i  trentacinque: non è detto che ci siano altri treni a questi livelli di rendimento per una parte significativa del gruppo, quindi andare all-in è la cosa più sensata da fare a questo punto. Senza contare che poi c’è da togliersi dalla spalla la stessa scimmia che avevano i Bucks fino all’anno scorso, ossia la maledizione di essere solamente una squadra da regular season che non riesce a concretizzare – per varie ragioni – alla fine della stagione.
Ancora una volta le cinquanta vittorie sono un obiettivo alla portata, ma non obbligatorio: bisogna puntare almeno alle finali di Conference, e se per arrivarci bisognerà far riposare qualcuno in regular season e raccogliere 48 vittorie anziché 52, sarà un trade-off più che accettabile. 


Il proprietario dei Jazz ha tenuto un “Meet&Greet” metaversale con fan da tutto il mondo. O forse è una puntata di Black Mirror che mi era sfuggita

 

 

#2 PHOENIX SUNS

di Mario Castelli

Si riparte da una finale NBA che forse brucia ancora per come si è sviluppata, con la doppia vittoria casalinga per aprire la serie e poi le quattro sconfitte consecutive che hanno consegnato l’anello a Milwaukee.

Tanti credono che l’occasione buona fosse quella e sia ormai sfumata: non sempre si può verificare una serie di infortuni che ha falcidiato una buona fetta delle contendenti al titolo, come successo l’anno passato. Inoltre Chris Paul, il faro di questa squadra, ha un anno in più, e bisogna capire in che condizioni arriverà a primavera inoltrata.

Però indubbiamente i Suns restano comunque una squadra di riferimento ad Ovest, dopo il pazzesco cambio di passo avuto dalla bolla di Orlando in poi, passando da un record di 19-63 (il secondo peggiore di tutta la NBA) al 51-21 con secondo posto nella Western Conference nel giro di 24 mesi.

Ovviamente, oltre a Paul, gli uomini di riferimento resteranno Devin Booker e DeAndre Ayton, ben contornati da una serie di utili giocatori di complemento come Jae Crowder e Mikal Bridges. In estate è andata via qualche seconda e terza linee, mentre sono arrivati Elfrid Payton, Landry Shamet e JaVale McGee, con l’obiettivo di puntellare la panchina (Payton si dividerà con Cameron Payne i minuti da backup di CP3).

Complessivamente però il roster è rimasto abbastanza intatto rispetto a quello della stagione precedente, all’interno di un sistema di gioco come quello di coach Monty Williams particolarmente oliato, e questo potrà essere utile per partire subito in maniera positiva e inanellare una serie di vittorie che fornisca fiducia e autostima, con la speranza per quelli del deserto di provare a replicare la grande cavalcata dell’anno passato, possibilmente con un ultimo passo in più.

JaVale McGee porterà in Arizona la sua infinita serie di Bloopers che hanno fatto la fortuna della rubrica di Shaquille O’Neal

 

 

#1 LOS ANGELES LAKERS

di Giorgio Barbareschi

Con uno dei più drastici repulisti nella memoria recente, i Los Angeles Lakers si sono separati da quasi tutti i giocatori che erano a roster alla fine della scorsa stagione. In squadra sono rimasti solo LeBron James, Anthony Davis e Talen Horton-Tucker, due dei tre leggermente fondamentali per quelli che saranno i destini di una squadra che ha un unico obiettivo: vincere il titolo. 

Ad aiutarli è arrivato il grande colpo dell’estate NBA, quel Russell Westbrook che sa benissimo di essere all’ultima fermata per dimostrare di non essere soltanto uno straordinario agonista, ma anche un giocatore in grado di essere funzionale in una squadra vincente. 

Con i contratti dei Big Three e la conferma, da non sottovalutare, di THT, il salary cap era già bello che andato a donne di facili costumi, per cui il resto della banda è stata completata con contratti al minimo salariale dati a veterani o giocatori di complemento che dovranno farsi trovare pronti nel momento del bisogno.

Uno su tutti Carmelo Anthony, che ha finalmente l’opportunità di giocare con il suo amico James e potrà dare alla causa fisico e tiro (un po’ meno difesa). Poi sono tornati a vestire la maglia gialloviola Ariza, che si spera sia in condizioni migliori rispetto al recente passato, Howard, che afferma di aver avuto il benestare di LBJ a prendersi una tripla ogni due stoppate (aiuto!), e Rondo, che… vabbè, dovrà evitare di essere la zavorra che è stato per Hawks e Clippers.

Cavalli di ritorno saranno anche Ellington e Bazemore, mentre nuovi di pacca sono Monk, giocatore in crescita proveniente dagli Hornets, e Nunn, exHeat rimasto un po’ chiuso dagli arrivi di Lowry e Oladipo.

I Lakers sono uno dei roster più vecchi della Lega ma in questa specifica stagione vanno considerati, se sani nelle tre star, i favoriti indiscussi della Western Conference. Molto probabile che affronteranno la regular season in ciabatte per prepararsi al meglio per i playoff, in cui Davis dovrà accettare di giocare stabilmente da centro e Westbrook trovare una collocazione adeguata nelle spaziature offensive. Per tutto il resto c’è King James.

Ecco, con RW magari in preseason non siamo partiti proprio benissimo…

 

 


 

 

DOVE SI VEDE L’NBA?

 

Rispetto all’anno scorso non c’è nessun cambiamento. L’NBA resta visibile tramite il player ufficiale della NBA, Nba League Pass, e tramite il canale tv di SkySport.

L’abbonamento a Nba League Pass (potete farlo cliccando QUI) costa € 169,99 l’anno (regular season + playoff) e permette di vedere tutte le partite di tutte le squadre in diretta e On Demand. In aggiunta ci sono altri servizi come ad esempio gli highlights di 10 minuti di ogni partita tutte le mattine, un archivio con molte partite del passato ed tanto altro. Ma ci sono anche altre possibilità tra cui l’abbonamento completo con la possibilità di usufruirne su due dispositivi contemporaneamente (€ 199,99 l’anno) oppure l’abbonamento per vedere le partite di una sola squadra a scelta per tutta la stagione (€ 89,99 l’anno), oppure il pass giornaliero per vedere tutte le partite di una notte (€ 4,99 al giorno).

Sky, come sempre, è l’unica possibilità per vedere le partite NBA con telecronaca in italiano dei soliti Tranquillo, Pessina, Mamoli, Soragna, Crespi. Le partite trasmesse in diretta ogni settimana sono 6/7 e l’abbonamento (per i neo-abbonati) parte da € 30,99 al mese (pacchetto TV+SPORT e potete farlo cliccando QUI). Oltre alle partite, SkySport trasmette tutto il week end dell’All Star Game, la notte del Draft, degli speciali e una striscia quotidiana all’interno del telegiornale di SkySport 24.

I canali Sky sono visibili anche sulla piattaforma online NOW: l’abbonamento (pass sport) costa € 14,99 euro al mese (primo mese € 5,99) e potete sottoscriverlo QUI.

 


 

Ecco una chicca grafico-statistica da parte del nostro nerd Fabio Fantoni. Nel grafico che segue, con il box in alto a destra, potete selezionare la squadra di cui volete spulciare alcuni dettagli statistici (riferiti alla stagione precedente) rendendo dinamica la vostra esplorazione.

In particolare, sulla base delle due metriche selezionabili per asse x (default salario 2021/22) ed asse y (default PER), abbiamo rappresentato ogni giocatore NBA con un pallino, evidenziando per dimensione e colore verde quelli della squadra selezionata.

Poi, se volete un approfondimento statistico in senso stretto, a fianco degli assi trovate la relativa distribuzione interquantile delle due metriche selezionate, mentre se cercate qualcosa di più immediato nella parte inferiore della visualizzazione avete un veloce recap sui valori puntuali dei giocatori nell’ambito della squadra di interesse.

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